giovedì 26 aprile 2012
Orientalismi
Murasaki, l'eternità è delle donne
Nel Giappone feudale un mondo femminile elegante e senza tempo
di Pietro Citati Corriere della Sera
Corriere 26.4.12 da Segnalazioni
Nel
decimo secolo dopo Cristo, quando sul Giappone si estendeva la
fiorentissima ed elegantissima civiltà della famiglia Fujiwara, il Paese
era diviso in due parti. Da una parte dominava il mondo virile della
politica, della feudalità e della burocrazia, dove si parlava
esclusivamente cinese. Dall'altra c'era il pettegolo, frivolo e sottile
spazio femminile, che parlava e scriveva soltanto giapponese.
La
bellezza femminile aveva moltissime forme. Era, in primo luogo, la
natura: la sacra natura. Le eleganti dame giapponesi trascinavano con sé
i grandi dignitari a osservare la luna, che trapelava dalle nuvole e
dalle nebbie: contemplavano i fiori dell'albero di susino, i ciliegi di
montagna, gli alberi di pino, le oche selvatiche che attraversavano
starnazzando il cielo, la neve folta che d'inverno circondava le case; e
luna, fiori di susino, fiori di ciliegio, nuvole, nebbie, neve, oche
selvatiche formavano un quadro perfetto, che sembrava composto dalla
incontaminata mente umana. Alle dame, la natura non bastava. Volevano
creare altre nature. Sulla carta folta e profumata che veniva da
lontano, dipingevano coi pennelli poesie squisite: preparavano vesti
intonate alla stagione autunnale, o sete trasparenti; e suonavano musica
sui diversi strumenti, versando lacrime di commozione. I viaggiatori
che giungevano dalla Cina avevano l'impressione che questi oggetti
quotidiani avessero un'importanza molto più grande dei sentimenti del
cuore; forse non erano altro che i sentimenti del cuore, divenuti musica
e pittura.
Vista dalle dame di corte giapponesi, la vita non era
altro che una educazione dello spirito. L'amore era l'arte suprema:
contemplare una notte di luna, ascoltare il suono di una cetra,
riprendere coi versi le immagini e i versi di un'altra poesia,
dissolvere la realtà nel sogno e il sogno nella realtà: praticare l'Eros
senza parlarne o sfiorandolo appena con le parole. Di una cosa le dame
non parlavano mai: l'attività politica apparteneva alle esclusive
qualità virili, quelle di cui si parlava soltanto in cinese. Se un
evento politico fosse penetrato nel mondo adorato dalle donne, ogni
raffinatezza e squisitezza psicologica si sarebbe dissolta. Nei grandi
romanzi scritti dalle dame di corte, i cosiddetti monogatari, ogni
rovinoso battito del tempo viene cancellato con un rigore
ineguagliabile. Passano decenni, trascorrono generazioni, e noi abbiamo
l'impressione che siano battiti leggerissimi, o tocchi d'eternità.
Il
capolavoro dei romanzi femminili giapponesi è La storia di Genji di
Murasaki Shikibu, vissuta nel decimo secolo. È un libro così bello, così
complesso, così ramificato, che debbo scusarmi con i miei lettori:
qualsiasi cosa possa dire della Storia di Genji, sarà crudelmente
elusiva e insufficiente. Non posso che raccomandarne la lettura come
potrei raccomandare quella del Sogno della camera rossa o dell'Evgenij
Onegin o di Guerra e pace. Della figura di Murasaki Shikibu sappiamo
pochissimo. Qualcuno dice: «I giapponesi amano paragonare Murasaki al
fiore del susino, perfetto, bianco e immacolato»; oppure: «Di aspetto
piacevole ma ritroso, sfuggente, solitario, orgoglioso, amante di
romanzi, vanitosa e poetica, era abituata a guardare gli altri dall'alto
in basso». Molti anni or sono la casa editrice Einaudi aveva pubblicato
la bella e incompleta traduzione di Adriana Motti, desunta da quella
inglese di Arthur Waley. L'edizione che sta per uscire (sempre da
Einaudi) ha il vantaggio di essere tradotta direttamente dal giapponese,
e di essere accompagnata da un ricco apparato di note, che commentano
specialmente le bellissime poesie, che ora i personaggi improvvisano,
ora scrivono con la loro incantevole calligrafia.
Nel cuore di questo
romanzo della bellezza sta il principe Genji, sovranamente bello e
affascinante, che appartiene alla famiglia imperiale. Decine di
imperatrici, di principesse, di grandi e di piccole dame frequentano il
suo letto, che le accoglie con infinita dolcezza e una specie di candore
e quasi di noncuranza. Genji non ha nulla del don Giovanni o del
libertino: assomiglia piuttosto a un androgino; «Era così bello che si
poteva quasi desiderare di vederlo in vesti femminili». Qualsiasi cosa
dica o faccia, una parola lo accompagna di continuo: «inquietante». Ma
perché è inquietante? Per l'alone quasi eccessivo di fascino, di
dolcezza e di candore, che lo avvolge? «La sua bellezza — commenta la
Murasaki — rende quasi impossibile distoglierne lo sguardo». Genji è
inquietante sopratutto per il suo rapporto con gli altri mondi: da un
lato le remote vite precedenti incombono su di lui, dall'altro il futuro
egualmente remoto e infine, attimo dopo attimo, l'aldilà vorrebbe
suggerlo e trascinarlo nel suo spazio.
Se ama le donne, non lo fa mai
con eccesso, ma piuttosto con una tenerissima compassione. Le ama
perché vede riflessa in loro una parte di se stesso: l'effimero, il
fragile, il vano, il fuggiasco; qualcosa che è insieme simile «alla
rugiada del mattino» e «alle erbe galleggianti sull'acqua». Così insegue
in loro questo lato profondo della propria natura. Apre loro le proprie
braccia: esse vi si tuffano, sempre più affascinate e innamorate; e
mentre le figure si moltiplicano, un impulso spinge a dissolvere in una
morbidissima nebbia tutte le sensazioni, tutti i sentimenti, tutti i
pensieri, tutti i colori.
L'esistenza di Genji è percorsa da un
grande fiume d'amore incestuoso. Quando è ancora bambino, la madre,
concubina imperiale, muore, e Genji non saprà mai vincere il desiderio,
la nostalgia, il rimpianto verso la sua figura malinconica. Per tutta la
vita, non farà che cercare riflessi e prolungamenti di quell'ombra
scomparsa. Appena conosce la principessa del Padiglione del Glicine,
destinata a diventare imperatrice, vi trova l'eco della madre: una
profondissima somiglianza; vive vicino a lei, ne ha un figlio, sebbene
poi l'imperatrice lo rifiuti e lo allontani; mentre Murasaki avvolge
d'ombra quest'impossibile nostalgia amorosa per la donna unica. Infine,
conosce una bambina, in cui ritrova i lineamenti e l'alone della madre e
della principessa. La educa, la coltiva: le insegna a dipingere, a
scrivere, a suonare la cetra, a rispondere in versi: ama in lei la
bambina e la ragazza che, a poco a poco, sta diventando donna; e vince i
suoi primi rifiuti. «Alla luce della lampada — scrive la Murasaki — il
suo profilo e i suoi capelli la facevano sempre più assomigliare alla
principessa che tanti anni prima aveva preso il suo cuore». «Era quasi
impossibile pensare — insiste — che si trattasse di due persone
diverse». Alla fine, Genji sposa l'adolescente, carica di echi e di
ricordi, e le dà il nome di Murasaki, lo stesso nome della misteriosa
romanziera.
Se ama due volte il riflesso della medesima donna, Genji
non potrà vivere che di riflessi. Non contempla mai, diritta davanti a
sé, l'immensa vastità e varietà dell'orizzonte: guarda di scorcio,
attraverso grate, tende, finestre velate, che nascondono la realtà delle
cose: guarda le immagini negli specchi; e tende a ignorare la luce del
sole, perché la sola vera luce, per lui, è quella riflessa della luna,
che appare e scompare, e di nuovo riappare e riscompare, tra le frange
umide della bruma serale e nel tramonto morbido della notte. Questo è il
mondo di Genji. Ma sembra che i riflessi non abbiano forza. Da tutte le
parti si avanza la nostalgia, lo strazio, le lacrime, che bagnano le
vaste maniche dei chimoni; e sopratutto l'immensa Malinconia, il cui
nome viene ripetuto incessantemente, come se fosse l'unica sostanza del
mondo immaginario e reale.
Il libro: Shikibu Murasaki, «La storia di
Genji», I millenni Einaudi, pagine LVI - 1440 90, a cura di Maria Teresa
Orsi, illustrazioni di Yamaguchi Itaro. In libreria da lunedì
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