lunedì 7 maggio 2012

Riflessioni sulla crisi della politica e dei partiti di massa


Gustavo Zagrebelsky: Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza, Einaudi

«Norme e potere non si fondano da sé (...), hanno bisogno, a loro volta, d'un fondamento. La simbologia politica ci offre una possibile risposta, una risposta che guarda avanti (...). Possiamo dire, infatti, che viviamo in società perché ci siamo impegnati a farlo con un patto, o perché un dio ce l'ha imposto, oppure perché la storia da cui proveniamo ci ha plasmato così come siamo. Ma possiamo dire anche che, nel nostro vivere in società, riponiamo una speranza di cose future per le quali vale la pena di cooperare, cioè di rinunciare alle nostre istanze immediate e puramente egoistiche».

C'è un tema negletto gonfiato dalla retorica e sottovalutato nella pratica: i simboli politici. Se tutta la realtà fosse scoperta davanti ai nostri occhi, non avremmo bisogno di loro. I simboli, quelli della politica in particolare, servono invece per accedere al mondo, reale ma astratto, dei rapporti tra noi anche in assenza di contatti concreti e perfino in assenza di una conoscenza diretta. Proprio perché la vita collettiva è fatta in larga parte di relazioni impersonali inadatte ad essere descritte come se fossero tangibili, abbiamo bisogno della simbolica politica. Per interpretare, specie nella grande trasformazione in corso, bisogni e aspirazioni, attrarre forze, produrre concretamente fiducia in vista di un futuro che non sia semplice ripetizione del presente.        

Esce il saggio di Gustavo Zagrebelsky sulle ragioni della disaffezione verso i partiti
L´emancipazione delle democrazie dalla religione non significa perdita di dimensione mitica
I movimenti esibiscono segni e sigle privi di energia, di messaggi riconoscibili e forti sul nostro futuro 
Il valore dei simboli
Perché la politica non può farne a meno
di Roberto Esposito  Repubblica 7.5.12 da Segnalazioni


Dove nasce questa disaffezione alla politica che pervade fino all´orlo le nostre società? Cosa allontana sempre di più il linguaggio dei politici da quell´intreccio di impulsi, emozioni, speranze che plasma la nostra esperienza? E perché, forse mai come oggi, l´onda lunga della politica sembra gonfiarsi nello tsunami dell´antipolitica – per riprendere l´efficace metafora usata da Scalfari nel suo editoriale del 30 aprile? Una risposta penetrante a queste domande è fornita adesso dall´ultimo saggio di Gustavo Zagrebelsky, appena edito nelle Vele di Einaudi col titolo Simboli al potere. Politica, fiducia, speranza. Certo, a fomentare tali umori antipolitici, ci sono gli eterni privilegi della "casta"; i fenomeni, sempre più vistosi, di corruzione; la difficoltà, da parte dei partiti, di uscire da una lunga fase di stallo, elaborando proposte credibili di governo. Ma c´è anche qualcosa di più e di più profondo che attiene al loro lessico – come un tarlo interno che lo depaupera e lo consuma, lo svuota e lo appiattisce su un piano di superficie, privandolo di spessore e linfa vitale.
Si tratta di quella fenomeno degenerativo che Zagrebelsky sintetizza con il termine di "de-simbolizzazione". Diversamente da autori come Rawls o Habermas, che vedono nella politica un´attività guidata da procedure razionali, egli riconosce nella dimensione simbolica una riserva di senso fondamentale dell´agire collettivo. Come è stato messo in luce dalla grande cultura sociologica di Weber e Durkheim, ma anche dalle fondamentali ricerche storiche di Marc Bloch ed Ernst Kantorowicz, la fenomenologia del potere è inaccessibile se separata dalla funzione che in esso gioca la sfera del mito. L´emancipazione della politica dall´ancoraggio religioso, conseguente alla secolarizzazione, non significa affatto perdita di dimensione mitica, come ha ingenuamente supposto la tradizione illuministica, contrapponendo frontalmente mythos e logos. Secondo lo stesso Weber, del resto, è proprio dalla "gabbia di acciaio" della burocratizzazione che si è generata per reazione, nei primi decenni del Novecento, l´esigenza di una nuova politica carismatica, con gli esiti, anche tragici, che conosciamo. La conseguenza che se ne deve trarre è che ogni volta che si è preteso di ridurre la politica a semplice pratica amministrativa, soffocando la sua originaria carica energetica, questa si è rovesciata in pulsione aggressiva, disponibile ad essere usata da chiunque se ne fosse  impadronito attraverso nuovi miti irrazionali.
Zagrebelsky intensifica questa linea di ragionamento, riconoscendo nel simbolo un´entità a doppia faccia, in continuo transito tra realtà soggettiva e istanze oggettive, positivo e negativo, passato e futuro. Canale di accesso del soggetto verso una dimensione inafferrabile con i soli strumenti razionali, esso, una volta oggettivato in norme e istituzioni, diventa un potente fattore di integrazione sociale. Senza il simbolo, se si riducesse l´esperienza umana all´astrattezza della pura ragione calcolante, non potrebbe esistere né società né politica. Perché alla base di entrambe vi è quella capacità di rimando a qualcosa d´altro, quella spinta progettuale, che costituisce insieme la condizione e il significato della vita collettiva. Symbolon, come raccontato nel Simposio di Platone, è il risultato della riunione di due parti disgiunte che, dichiarando la propria insufficienza, si congiungono in un intero che le comprende nella forma dell´attrazione reciproca. Ma senza mai perdere la loro tensione costitutiva, senza mai riposare in una pace definitiva. Perché dietro la faccia in luce del symbolon si affaccia sempre la minaccia oscura del diabolon – di una nuova, e più letale, scissione tra diversi che si interpretano come assoluti opposti. Lo stesso pronome "noi" – che unisce i distinti in un´appartenenza comune – porta dentro di sé un potenziale contrasto col "voi". È perciò che Zagrebelsky ricorda, con Simmel, che, per fare società, non basta il "due", diviso tra amore ed inimicizia, ma serve il "tre", in cui i contrasti soggettivi si sciolgono nell´oggettività di istituzioni terze.
Al continuo pendolo tra soggetto e oggetto fa riscontro il passaggio, interno allo stesso simbolo, da una valenza positiva ad una negativa e viceversa. Di grande suggestione è l´esempio, centrale nella nostra tradizione, della Croce – passata senza soluzione di continuità da segno, nudo e spoglio, di dolore e contrizione a simbolo di trionfo e anche di persecuzione nei confronti di miscredenti ed eretici, per poi di rifluire in una sorta di insignificanza, misera posta in gioco di lotta politica tra schieramenti avversi. Per non parlare della sua terribile perversione nella croce uncinata nazista, che pure accese la fiamma dell´entusiasmo in un intero popolo, mobilitandolo contro altri miti contrapposti. Come ricorda anche Chiara Bottici in Filosofia del mito (Bollati Boringhieri), se si leggono in sovrapposizione Il mito dello stato di Cassirer e Le riflessioni sulla violenza di Sorel, si coglie il segreto perno intorno al quale uno stesso simbolo aggressivo sembra ruotare su se stesso, trascorrendo da un polo all´altro del quadrante ideologico del tempo.
L´ultima dialettica cui Zagrebelsky riconduce la dinamica simbolica è quella che va dal passato al futuro. Certo il simbolo affonda la sua radice in una falda originaria – nel riferimento al mondo naturale o ad un´esperienza vissuta e dunque già passata. È in tal modo che esso acquista quella forza legittimante che lo pone a fondamento di norme ed istituzioni – in mancanza della quale queste poggerebbero sul vuoto della pura effettività o su una obbligatorietà senza giustificazione. Ma per potere, appunto, persuadere gli uomini ad obbedire alle legge, i simboli che le sostanziano devono essere rivolti al futuro, portare dentro un modello di società, parlare non solo alle generazioni presenti, ma anche a quelle che verranno. È di Franz Rosenzweig l´acuta osservazione che, a differenza della monarchia, vincolata alla continuità biologica della successione dinastica, il meccanismo elettorale della democrazia è portato a rompere il filo tra le generazioni. Zagrebelsky riconduce questo dato istituzionale a quel deficit simbolico che costituisce la malattia più insidiosa delle democrazie contemporanee.
Torniamo così alla questione iniziale dell´antipolitica. Anch´essa naturalmente lavora sui simboli. Ma su simboli vuoti di contenuto, costruiti nel deserto simbolico dell´attuale politica. Certo, partiti e movimenti continuano ad esibire segni, sigle, emblemi – disegni di fiori, piante o animali. Ma privi di energia, di valori riconoscibili, di messaggi forti sul nostro futuro. Pure sagome senza vita, affidati a studi pubblicitari interessati soltanto all´efficacia della grafica, alla grammatica dei sondaggi e al riempimento multicolore delle schede elettorali.
Nel momento in cui i partiti smarriscono la loro rilevanza simbolica, l´antipolitica tende ad impadronirsene spostando la linea del conflitto dall´ambito dei progetti di società a quello dello scontro, privo di contenuti, contro la stessa politica. Stretta tra le ricette tecniche di pura amministrazione dell´esistente e le aspirazioni di movimenti senza programmi e senza prospettive, la politica continua a perdere terreno. Ma ciò che può apparire un destino dipende pur sempre da attitudini ed opzioni che è ancora possibile, e necessario, mutare.

Vent’anni di populismo senza popolo
di Mario Tronti  l’Unità 7.5.12 da Segnalazioni


L’USO DELLA PAROLA POPULISMO HA OGGI, PER LO PIÙ, UN SIGNIFICATO NEGATIVO. CHI FA POLITICA POPULISTA NON SI DEFINISCE POPULISTA, viene piuttosto chiamato populista da chi lo combatte. Il populismo ha d’altra parte dei quarti di nobiltà storica. Pensiamo al populismo russo, una stagione che sta poi all’origine di una grande storia; al populismo nordamericano, tra l’altro molto legato a una prima formazione del partito politico; al populismo sudamericano, tutt’altro che defunto.
C’è però da marcare una differenza di fondo tra populismi di ieri e di oggi. I populismi storici avevano sempre l’idea di riportare la storia all’indietro, cioè di ritorno a una tradizione, nazionale o popolare, polemici quindi contro tutti i meccanismi dello sviluppo. I populismi di oggi sono esattamente il contrario: nascono in polemica con i retaggi del passato, vogliono innovare, non conservare. Anche se poi servono più alla conservazione che all’innovazione. Sono ad esempio nemici del Novecento, perché vedono e denunciano lì una storia irripetibile e comunque da non ripetere, la storia dei grandi partiti, delle forme organizzate della politica, dello Stato, con le sue regole e procedure e mediazioni, parlamentari, istituzionali. È difficile dire se è il populismo a produrre antipolitica, o se è l’antipolitica a produrre populismo. Certo si tratta ormai di due pulsioni strettamente intrecciate, che si alimentano a vicenda e a vicenda si sostengono, contribuendo a una deriva degli attuali sistemi politici verso una sorta di autodistruzione. In questo senso, c’è l’opportunità e la necessità di ripercorrere il processo che, dagli anni 80 in poi, è venuto avanti sotto il segno di categorie contingenti agitate come valori assoluti, quali innovazione, modernizzazione, nuovi inizi vari, dovunque e comunque.
Il problema è come salvare il concetto di popolo dalla deriva populista. Il rischio è che anche nei partiti, che una volta erano partiti di massa, che si chiamavano partiti popolari, vinca una involuzione di tipo elitistico, con slittamenti in alto verso la autoreferenzialità del ceto politico e in basso verso una cetomedizzazione del riferimento sociale. È chiaro che ci sono state trasformazioni profonde nella realtà di popolo, per le economie più sviluppate, dagli ultimi decenni del 900 in avanti. (...) Eppure tutte le trasformazioni non sono arrivate a distruggere il fondamento popolare anche delle più avanzate delle società contemporanee. Il lavoro diffuso e disperso sul territorio, il lavoro precarizzato, la mancanza di lavoro, la stessa immaterializzazione di molte attività e di molte figure di lavoro, la comune persistente condizione di sfruttamento e di alienazione, che si allarga dal lavoratore manuale al lavoratore della conoscenza, non fa, oggettivamente, da sola, già popolo, ma rende possibile la costituzione in popolo di praticamente tutte le persone che vivono di lavoro.
Anche quello di popolo è in fondo un concetto politico secolarizzato, assieme agli altri concetti politici moderni: sovranità, Stato, diritto. Popolo nasce come ordine sacro. Nelle Scritture, il Signore dice ad Abramo: ti darò un popolo. Jacob Taubes ci ha ricordato come, tanto per Mosè come per Paolo, si sia trattato di fondare un popolo, il popolo ebraico, il popolo cristiano. Personalità profetiche ed entità collettive storiche. Marx, a nome del movimento operaio, non ha forse fondato un popolo, il popolo del lavoro, i lavoratori come soggetto politico, capace di grande storia? La mia tesi è che un popolo, o viene fondato, o, se si autoinveste di propri idoli, come il vitello d’oro, allora produce populismo. Il capo di oggi non è il Principe machiavelliano, portatore di una missione, è il punto in cui si rapprende e si esprime un senso comune di massa, pulsionale, emotivo, vittima passiva di un precedente trattamento molto spesso mediaticamente orientato. Nel momento in cui non si è stati più capaci di dare voce alla società, di fare società con la politica, cioè di organizzare masse attive in lotta per i propri bisogni e interessi, ecco, da quel momento è venuta avanti una deriva populista.
Il populismo di oggi è legato molto più a condizioni esterne al popolo, che alla espressione di suoi intimi convincimenti. Non ci sarebbe spazio per il populismo senza il primato dei grandi mezzi di comunicazione, senza questa presa egemonica del virtuale sul reale, senza la dittatura del messaggio mediatico, che ha il compito di creare opinione e distruggere orientamenti. Il populismo di oggi è un populismo senza popolo. E mentre la categoria di popolo chiedeva e produceva pensiero, accade il contrario per la prassi del populismo, che nega in radice la riflessione, essendo pura e dura pulsione. Avete mai visto un capo populista che abbia bisogno di forze intellettuali di riferimento? Le «masse popolari» che diventano la «gente», esprime, lessicalmente, un passaggio, di fatto, dal tempo della politica come azione collettiva direttamente al suo opposto, all’agire cieco di individui massificati e subalterni.
Una versione più estesa di questo articolo uscirà sul prossimo numero della Rivista delle politiche sociali

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