domenica 2 dicembre 2012
Il filosofo cattolico Giovanni Reale si racconta
Lo studioso racconta la sua storia “I miei avevano fatto le elementari e mi hanno insegnato l’arte della semina”
In paese non ero ben visto dicevano che mi ero montato
Da ragazzo mi sono sentito invisibile agli altri
“Io, perbenista filosofico, figlio di contadini detesto il pensiero fast-food dei nostri tempi”
di Antonio Gnoli Repubblica 2.12.12
Con quel cognome doveva per forza realizzare qualcosa di solido. E
magari importante. Da cui non poter prescindere. A più di ottant’anni,
scoccati l’anno scorso, desta curiosità Giovanni Reale. Filosofo che dal
mondo antico ha tratto forza e autorevolezza. Sue sono alcune
importanti edizioni di Platone e Aristotele. Sua una nuova edizione
appena pubblicata da Bompiani, delle Confessioni di Agostino. In una
collana dedicata al pensiero occidentale che egli segue personalmente.
Reale è un personaggio monolitico e sgusciante al tempo stesso. Dietro
certe sue rotondità – l’aspetto è quello di un abate medievale – si
intravede un principio di resistenza. Nella mancanza di spigoli si
sospetta una forte determinazione. Lo incontro a Roma. Non distante da
Montecitorio dove, davanti a una platea di politici e non, discetterà su
Tommaso Moro. Avvolto in uno spolverino di pelle nera, con in mano una
borsa sovraccarica di fogli, e un cappello inclinato sulla testa, mi
attende nella hall di un albergo. Ha un’aria inattuale. Mi ricorda,
nelle fattezze fisiche e nell’eloquio scivoloso, un altro Giovanni,
Spadolini che alla politica si dedicò provenendo dall’università e dal
giornalismo.
Se le proponessero di entrare in politica?
«Per carità lasciamo perdere. Me lo proposero ma non ho mai accettato.
Ciascuno faccia, se può, ciò per cui è portato. La mia vocazione fin
dall’età di 14 anni è stata la filosofia».
Ragazzo precoce.
«Ma no. Già il bambino che chiede perché è nato si apre alla filosofia.
In fondo la sua domanda non è così distante da quella che poneva Martin
Heidegger: perché c’è l’essere e non il nulla».
Dove è nato?
«A Candia Lomellina, un paese dove si coltiva soprattutto riso. Quando
ero piccolo era un posto molto povero. Ma di una povertà nobile».
E lei sognava di andarsene?
«No, sognavo di resistere. Non ero ben visto in paese. Dicevano che le
letture mi avevano montato la testa. Che non avevo voglia di lavorare e
non capivano come facevo ad essere il primo della classe visto che non
ero il figlio di un notabile».
I suoi di cosa si occupavano?
«Erano contadini. Gente semplice. Legata alla terra. Mio padre mi
diceva: Giovanni, la cosa fondamentale è seminare nel momento giusto,
nel posto giusto, nel modo giusto. Altrimenti la natura ti sconfessa. I
miei avevano fatto le elementari. Ma possedevano una grande saggezza. Mi
hanno aiutato, hanno creduto in me. Mentre tutto il paese era contro».
Cos’è che infastidiva i suoi concittadini?
«Le letture filosofiche, così precoci e l’idea che il mondo si potesse
guardare anche con gli occhi dello spirito. Ma io mi sentivo crescere.
Sicuro, contro tutti».
Una forma di difesa.
«Che mi metteva al riparo perfino dagli insulti. Soprattutto al liceo
che feci a Casale Monferrato. E finalmente quando presi la laurea il mio
professore mi disse: hai ricevuto dei bei doni dal buon Dio e lui te ne
chiederà conto se non li moltiplicherai. Cosa devo fare? Gli chiesi.
Devi andare in Germania per qualche anno e portarmi qui, nella piazza di
Sant’Ambrogio, quanta più Atene è possibile».
Sembra una favola. E lei partì?
«Sì, andai a Monaco e a Tubinga e vi restai per quasi 4 anni. Era il
1954. Allora in Germania ci odiavano. Consideravano noi italiani dei
traditori».
E lei come ci viveva?
«Come uno cui era toccata in sorte una grande opportunità. Ma da pagare a
un prezzo altissimo. Ricordo che se arrivavo al collegio con qualche
minuto di ritardo dovevo procurarmi un permesso di scuse, senza il quale
non avrei mangiato. Seguiva la disapprovazione degli altri studenti,
che manifestavano strusciando i piedi in terra. C’era l’idea molto
tedesca che se tu non rispetti il tempo offendi l’altro».
Non l’è venuta voglia di abbandonare tutto e tornare in Italia?
«No, in famiglia mi avevano abituato all’idea che occorresse prima dare e
poi ricevere. Avevo un obbligo con i miei superiore a qualunque
avversità. Ma ne ho ingoiate di amarezze».
Che cos’è l’umiliazione?
«Sentire che per gli altri sei invisibile. Non esisti. Una sensazione
terribile. Aggravata più dalla povertà del rapporto umano che dalla
povertà economica».
Qual è oggi il suo rapporto con il denaro?
«Dai greci ho imparato che le cose hanno importanza per il modo in cui
le si guarda. Il denaro diventa importante se gli dai importanza. Oggi
il denaro appartiene ai grandi processi di americanizzazione della vita.
Per cui vali solo se raggiungi un certo reddito.
Ma le pare sensato?».
Dica lei.
«Le pare sensato che sia la Borsa – un’accozzaglia imprevedibile di
stati d’animo – a guidare o a condizionare lo Stato? Solo se si ritiene
che il denaro sia l’onnipotenza si può accettare una tale visione. La
vecchia definizione del denaro sterco del demonio
non ha perso di attualità».
Sa un po’ di sacrestia.
«Le teologia è stata più importante di quanto non si creda per definire
le relazioni sociali. Comunque, non dico che il denaro non serva. Ma
occorre farne un uso dignitoso».
E lei che uso ne fa?
«Un po’ distratto, non me ne occupo. Ho una moglie e dei figli e quanto
abbiamo per vivere con decoro ci è sufficiente. La filosofia ellenistica
mi ha insegnato che se vuoi essere libero devi cambiare il tuo modo di
guardare il mondo».
Ci vorrebbe un po’ più di mondo antico.
«È il nostro scudo culturale».
Dietro il quale lei si protegge.
«Verissimo».
Non ha mai avuto cedimenti, crisi, crolli?
«Momenti brutti nella vita di un uomo ci sono. I miei li ho vissuti come
occasione di una crescita. In tutte le cose ci sono alti e bassi. Ma
poi resta la verità».
Intende il rapporto con Dio?
«È un momento fondamentale».
Cosa significa per un filosofo essere credente?
«Io credo, per dirla con Agostino, nella Chiesa spirituale, non in quella di Roma».
Cosa pensa di Ratzinger?
«Un grande papa che ha fatto bene a smettere i panni del teologo. O
almeno a non indossarli sempre. Parlare filosoficamente di Dio si
finisce con il ricondurlo un po’ troppo alla misura umana».
Se non fosse stato un filosofo cosa sarebbe?
«Intanto non sono un filosofo ma uno storico della filosofia. Le dirò
una cosa che pochi sanno. Da giovane facevo il pittore. Copiavo in
maniera splendida gli impressionisti. Ed è la ragione, tra l’altro, dei
numerosi libri di argomento artistico che ho fatto con Elisabetta
Sgarbi».
Perché ha smesso di dipingere?
«Non ero creativo. La grande pittura è un’altra cosa dal copiare. Non avevo la potenza dell’artista».
Per secoli l’arte è stata copia.
«Fino a un certo punto. Il grande pittore esprime con le immagini ciò
che il grande filosofo dice con i concetti. Alla verità si arriva per
tre strade: l’arte con la bellezza, la filosofia con la ragione, la
religione con la fede».
Oggi non è più così.
«Oggi si crede soprattutto nella scienza che è veritativa, ma non vera».
Cosa pensa dell’arte contemporanea?
«È l’espressione del nichilismo, dei mali dell’uomo. Non sa tirare fuori
il positivo che è in noi. Ma riconosco che ha realizzato opere molto
belle».
Che la mettono in tentazione?
«Sarei uno sciocco se condannassi e basta. Ma va cercato il bene».
Non c’è troppo perbenismo filosofico?
«Meglio questo del permalismo. Del resto se credi in Dio non puoi non pensare al bene».
Lei dove si colloca tra evoluzionismo e disegno divino?
«Non condanno affatto l’evoluzionismo. Ma perché non pensare che quando
Dio ha infuso lo spirito nell’uomo lo abbia lasciato crescere partendo
dall’animale».
Quindi lei crede nel disegno divino?
«Senza dubbio. Sono profondamente convinto che dal nulla derivi il
nulla. Ci sono problemi di natura cosmologica che scienza e metafisica
affrontano in modi diversi. L’insegnamento ne deve tener conto».
A questo proposito lei dove ha insegnato?
«Per otto anni nei licei. Poi all’università: prima a Parma, poi alla Cattolica di Milano e infine al San Raffaele».
Cosa pensa di Don Verzé?
«Ha cominciato realizzando cose bellissime e importanti, creando una
città dei malati superba e una efficiente facoltà di filosofia. Poi, la
situazione gli ha preso la mano. Non conosco i suoi errori se non
attraverso i giornali. Ma andava ricordato tutto il bene che aveva fatto
prima».
In cosa secondo lei ha sbagliato?
«A un certo punto ha pensato di essere onnipotente. Purtroppo è ciò che rischia chi ha il potere».
Lei ha mai avuto tentazioni di potere?
«Lo odio per il modo in cui ci può trasformare in peggio. La filosofia mi ha tenuto al riparo da questa brama».
Quante cose deve alla filosofia. Non c’è altro nella sua vita?
«Ci sono i miei affetti. E la sorprenderò dicendole che sono anche un
ottimo cuoco. Faccio dei risotti favolosi, che mi insegnò mia madre».
La metto alla prova.
«Il più buono per me è quello alle cinque carni. Che vanno rosolate
lentamente. E poi aggiunto il brodo. Un piatto unico e sostanzioso. La
cucina è un’arte. Oggi purtroppo si mangia in modo disastroso ».
E come si pensa?
«In maniera altrettanto disastrosa. Abbiamo un pensiero “fast food”: veloce e incoerente».
Che fare?
«Penso che la filosofia sia non solo dottrina ma anche vita. I greci
rispettavano un sistema di pensiero se quel sistema era coerente e messo
in pratica. Vivere in modo confacente a quello che si dice. Ecco cosa
si dovrebbe fare. È una lezione semplice. Apprenderla ci farebbe solo
che bene».
La sua olimpicità mi pare eccessiva.
«Non si inganni. Quello che ho raggiunto l’ho pagato a prezzi altissimi.
Ma questo mi ha messo in una posizione sicura. Tutto quello che ho
fatto è stato perché ci ho creduto fortemente. E oggi posso dire che ne
valeva la pena».
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento