giovedì 17 gennaio 2013
Ripubblicato il libro di Carlo Sini su Wittgenstein
Carlo Sini: Scrivere il silenzio. Wittgenstein e il problema del linguaggio, Castelvecchi, pp. 320, euro 18,50
Wittgenstein
Ciò che la parola non può dire si deve scrivere: Carlo Sini ci spiega perché
Anticipiamo l’introduzione del filosofo al volume edito da Castelvecchi che si presenta come un ideale abbecedario dei fondamenti primi della filosofia
di Carlo Sini l’Unità 17.1.13
DICE
WITTGENSTEIN NEL «TRACTATUS» CHE LE PROPOSIZIONI FILOSOFICHE SONO
ILLUSTRAZIONI (ERLÄUTERUNGEN).Si potrebbe immaginare che le pagine che
seguono, con la dovizia delle loro ingenue figurine, intendano prendere
alla lettera, e certamente anche troppo alla lettera, il detto
wittgensteiniano. Le illustrazioni alle quali Wittgenstein si riferisce
sono in realtà, nelle sue intenzioni, immagini logiche, non disegni;
immagini logiche degli stati di cose che incontriamo o che potremmo
incontrare nel mondo. Il problema è quello dell’immagine in un senso
logico-ontologico e non psicologico o empirico: il medesimo problema che
Kant affronta nello schematismo trascendentale; e più in generale il
problema della logica, sottratto alla miopia e ingenuità filosofica
della mera disciplina formale. Il modo in cui Wittgenstein tratta nel
Tractatus l’immagine logica fa giustizia di tutte le superficiali
opposizioni tra figura e parola, oralità e scrittura, simbolo e
concetto, razionale e irrazionale, intuizione e dimostrazione, fede e
sapere e così via. Per esempio Wittgenstein chiede come sia possibile
che tratti di penna in forma di parole o veri e propri disegni possano
significare qualcosa (in proposito l’esempio è “bastimento”); e poi come
un semplice gesto vocale e non solo vocale possa a sua volta
significare; e insomma che cosa sono i segni, quei segni che ci fanno
pensare e che sono pensieri. Il suo domandare, genialmente
disorientante, di fatto torna al problema primo di tutta la filosofia,
cioè a come si debba intendere che l’essere e il pensare si
coappartengono, che siano tauton, il medesimo, pur nella loro palese
diversità e differenza.
Come si sa, la soluzione è etica, non
teoretica, sicché tutto il Tractatus logico-philosophicus è
letteralmente un esercizio, il cui fine è vedere rettamente il mondo
entro il limite del linguaggio, onde evitare di «parlare a vanvera». E
in effetti come esercizio sono state immaginate anche le pagine
seguenti, che furono dapprima una sorta di esperimento didattico
universitario: un tipo inconsueto di dispensa di un corso di lezioni.
Non un’esposizione lineare riassuntiva del discorso del professore, ma
una libera disposizione di materiali, citazioni, commenti, riferimenti e
infine schemi e figure in differenti e meditati luoghi e colori, le cui
connessioni erano affidate al lavoro di ricostruzione dello studente.
Una sorta di «ideografia» (l’espressione, come si sa, è proprio di
Wittgenstein) che considera un testo filosofico come un oggetto sul
quale esercitare e affinare il proprio talento filosofico (e qui è
ancora Kant che parla, poiché a filosofare, egli diceva, si impara
soltanto con l’esercizio e usando autonomamente la ragione). Se
ricordiamo che pertanto in filosofia siamo continuamente bisognosi di
esercizio, cioè siamo sempre principianti, potremmo, con un po’ di buona
volontà e di autoironia, considerare questo libro come una sorta di
abbecedario, di testo per la scuola elementare di filosofia, essendo in
filosofia sempre in gioco appunto gli elementi, e anzi gli elementi
primi, che mai nessuno però può pretendere di stabilire una volta per
tutte e per tutti.
Figure di un abbecedario ma anche, dicevo nella
prima versione del presente testo, qualcosa di simile ai segni di una
partitura da eseguire nel pensiero, facendosi scorta di figure atte a
orientare la memoria del lettore; figure che imitano l’ufficio,
meravigliosamente spiegatoci da Ivan Illich1, delle miniature nelle
pergamene medievali. Proprio seguendo questa linea di pensieri, alla
fine rivendico, al di là del tacere di Wittgenstein, un nuovo modo di
intendere lo scrivere in filosofia, anche sulla scorta della espressione
di Peirce che suona foglio-mondo. Non che queste pagine si propongano
di realizzarlo, ove mai fosse davvero questo il problema; ne sono anzi,
già dicevo anni fa, sideralmente lontane. Se nondimeno saranno riuscite a
stimolare qualcosa di simile a una effettiva esperienza di pensiero, le
loro molte imperfezioni potranno forse ottenere una benevola
assoluzione da parte del lettore di buona volontà.
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