giovedì 17 gennaio 2013

Un film di Margarethe von Trotta su Hannah Arendt a Gerusalemme per il processo Eichmann


CORRIERE DELLA SERA del 15/1/2013
LO SGUARDO DI HANNAH SUL BOIA (LEPRI PAOLO) a pag. 31

Hannah ArendtEsce in Germania il film sulla filosofa tedesca, autrice del celebre libro “La banalità del male”Interpretato da Barbara Sukowa, racconta la sua partecipazione al processo ad Adolf Eichmanndi Andrea Tarquini Repubblica 30.1.13
BERLINO Con Wim Wenders, Werner Herzog, Margarethe von Trotta e tanti altri il grande cinema tedesco ci stupì e ci incantò dagli anni Sessanta a prima della caduta del Muro. Ora il film made in Germany torna a una sfida importante con Margarethe von Trotta e il suo Hannah Arendt, in uscita in Germania. Il film è dedicato alla grande filosofa, storica e scrittrice tedesca emigrata negli States, ma non racconta tutta la sua biografia, bensì un momento decisivo della sua carriera. Quello in cui Hannah Arendt fu testimone e cronista d’eccezione a Gerusalemme, al processo per crimini contro l’umanità ad Adolf Eichmann, l’ingegnere dell’Olocausto. Lei che studiò a fondo la genesi di ogni totalitarismo, e provocò e irritò la sinistra comparando il nazionalsocialismo al socialismo reale staliniano, allora fece ancora un altro balzo in avanti: raccontò e poi descrisse in celebre libro la “banalità del male”.


«Molta gente a sinistra allora la schivò, la evitò, perché lei pronunciò verità scomode, già nel 1951 nel suo libro sul totalitarismo paragonò i crimini nazisti con quelli del comunismo sovietico, e a noi di sinistra ciò suonava sospetto», dice Margarethe von Trotta nella recente, bellissima intervista a due voci che ha concesso a Marie Luise Knott e Christiane Peitz del quotidiano liberal berlinese Der Tagesspiegel, insieme a Barbara Sukowa, l’attrice tedesco-americana di origini polacche. «Ancora oggi», continua von Trotta, «ci sono persone che rifiutano il pensiero di Hannah Arendt perché analizzò entrambi i totalitarismi».
Il processo ad Adolf Eichmann, ricordiamolo, fu uno dei più grandi eventi mediatici del dopoguerra. L’ingegnere che eseguì con precisione industriale assoluta l’ordine hitleriano della «soluzione finale del problema ebraico», si era nascosto in Argentina. Nel 1960 un commando dell’intelligence israeliano, giunto a Buenos Aires con falsi contratti da tecnici edili a bordo di un DC4 con falsa matricola civile, lo sequestrò e lo portò in Israele. Al processo, le cui riprese restano memorabili (e in alcune parti compaiono anche nel film della von Trotta), Eichmann ammise, da freddo ingegnere privo d’emozioni, ogni colpa descrivendo qualsiasi minimo dettaglio, da come dovevano funzionare i forni alla quantità di gas Zyklone-B usata ogni volta. Fu condannato a morte e impiccato.
Hannah Arendt scrisse per i media americani il grande resoconto del processo e ora il cinema riporta agli occhi delle giovani generazioni tedesche quella memoria terribile che per fortuna viene insegnata loro ogni giorno a scuola. Un ruolo difficile da interpretare per la protagonista del film. «Se devo affrontare una parte», dice Barbara Sukowa, «non mi pongo troppe domande, ma ho letto il copione senza sapere molto di Hannah Arendt, poi informandomi mi sono stupita di quanto tempo dedicava al teatro, ai concerti, agli amici». Piccola difficoltà: Barbara Sukowa non fumatrice ha dovuto imparare ad avere una sigaretta in mano a ogni scena, perché «Hannah Arendt senza sigaretta non è realistica».
Margarethe von Trotta ha studiato a lungo ogni dettaglio di Hannah Arendt, ogni video o filmato disponibile su di lei o su sue interviste. «La sua intervista alla tv pubblica con Guenter Gaus» racconta la regista «mi colpì sulle prime per la sua apparente arroganza, ma poi capii che quello era anche il suo charme, tra sorrisi e senso dell’umorismo». Il film sulla Arendt si inserisce in una ideale trilogia cinematografica che von Trotta ha dedicato ad altrettante figure femminili decisive nella storia tedesca, tutte peraltro interpretate da Barbara Sukowa: da Rosa Luxemburg nel film del 1986 alla mistica Hildegard von Bingen in Vision del 2009. La regista spiega di aver studiato a lungo la storia di Hannah, prima di decidere la prospettiva dalla quale raccontarla. «Non mi convinceva fare un film generico sulla sua fuga in Francia dal nazismo, sulla prigionia nel Lager, sull’esilio in America. Volevamo dedicare la pellicola al suo pensiero, per far riflettere gli spettatori, come se il film fosse tratto dai suoi appunti, per questo ci siamo concentrati sulla sua resa dei conti con la storia, al processo contro Adolf Eichmann; come ogni eroe positivo, anche Hannah Arendt ha bisogno nella narrazione filmica di un antieroe».

Il film è preciso in ogni particolare, notano von Trotta e Barbara Sukowa. Dai momenti in cui l’allora direttore del New Yorker, Wiliam Shawn, aspettava nervoso il testo del reportage di Hannah sul processo ad Eichmann divorando le matite, fino ai dettagli più minuti: «Hannah Arendt non era una donna grigia vestita di grigio come molti la ricordano » nota Barbara Sukowa, «usava sempre il rossetto, e indossava una collana di perle o un braccialetto prezioso, e vestiva sempre con gonna e pullover, non amava i jeans».

Hannah Arendt eroina al cinema
L’ultimo film di Margarethe von Trotta dedicato alla filosofa si concentra sul processo a Eichmann e la nascita della «Banalità del male»di Gherardo Ugolini 
l’Unità 23.2.13
BERLINO FA DISCUTERE «HANNAH ARENDT», L’ULTIMO FILM DI MARGARETHE VON TROTTA, DA POCO USCITO NEI CINEMA DELLA GERMANIA. La regista conclude con questa pellicola una sorta di «trilogia al femminile» su grandi donne della storia tedesca, i cui primi due capitoli erano dedicati rispettivamente a Rosa Luxemburg (film Rosa L. del 1985) e alla monaca medievale Ildegarda di Bingen (Vision del 2009). Girare un film su un filosofo ricostruendone biografia e pensiero non è per nulla facile; si rischia nella migliore delle ipotesi di produrre un documentario, e nella peggiore una fiction noiosa e inguardabile. Margarethe Von Trotta ha evitato entrambe le cose, sfornando una pellicola fresca e ricca di tensione dalla prima all’ultima sequenza. Merito anche del soggetto, visto che Hannah ha avuto una vita quanto mai interessante, dalla giovinezza trascorsa tra Königsberg e Berlino fino all’esilio americano. In mezzo l’approdo a Marburgo dove andò appositamente per studiare filosofia con Martin Heidegger, il legame sentimentale col grande pensatore, poi il trasferimento a Heidelberg dove si addottorò con Karl Jaspers, l’espatrio a Parigi in seguito all’avvento del nazismo e dopo l’occupazione tedesca della Francia la prigionia in un campo di raccolta e da lì la rocambolesca fuga negli Stati Uniti, dove Arendt cominciò una nuova esistenza lavorando come docente in alcune università americane. Senza contare le polemiche suscitate dalle sue principali pubblicazioni, a partire dallo studio sulle Origini del totalitarismo del 1951 in cui tracciava un rischioso parallelismo tra dittatura nazista e staliniana.
Ebbene, Margarethe von Trotta, che sul suo personaggio si è documentata accuratamente leggendo biografie e parlando con testimoni diretti, ha scelto di concentrarsi su un solo segmento del percorso biografico di Hannah, un segmento breve ma decisivo, ovvero gli anni tra il 1960 e il 1964. L’evento fondamentale di quel periodo, che assorbì interamente le passioni e le energie della filosofa, fu il processo contro Adolf Eichmann, l’architetto dell’Olocausto che dopo la guerra era riuscito a trovare riparo in Argentina, ma che nel 1960 fu sequestrato dal Mossad e portato in Israele. Arendt seguì da cronista il processo a Gerusalemme raccontando le sue impressioni in una serie di reportage per il giornale The New Yorker e raccogliendo poi il materiale nel pamphlet La banalità del male, destinato a diventare celebre.
Interpretata da una bravissima Barbara Sukowa, attrice prediletta della regista, la Arendt che vediamo sullo schermo fisicamente non assomiglia molto a quella storica, ma ne riproduce perfettamente lo stile comunicativo, la tempra ostinata fino a sfiorare l’arroganza, l’arrovellarsi continuo della mente, l’umorismo sottile. La si vede protagonista, insieme col marito, il poeta Heinrich Blücher, della scena intellettual-mondana newyorkese, in particolare nei circoli dell’emigrazione ebraico-tedesca; la si vede nelle aule universitarie in cui dibatte coi suoi studenti in inglese con forte accento tedesco e con la sigaretta sempre accesa. Se la relazione giovanile con Heidegger viene solo rievocata attraverso rapidi flashback, al centro del film c’è costantemente la questione del nazismo e del suo significato. È evidente che il processo Eichmann di cui sono anche mostrati spezzoni reali rappresentò per la filosofa una specie di resa dei conti con la storia e con la propria esistenza.
Pensava di trovarsi davanti un mostro bestiale e invece scoprì che Eichmann era un normale e grigio burocrate che aveva architettato deportazioni e massacri eseguendo gli ordini ricevuti e senza neppure pensare a quello che faceva. Non agiva per odio o per cattiveria, ma solo per obbedienza e senza domandarsi mai se ciò che faceva era bene o male. Nacque da lì la teoria della «banalità del male», ovvero l’idea che in un contesto totalitario si verifichi nell’individuo una scissione totale tra pensiero e morale, fino al compimento di crimini atroci senza rendersene conto. Ma all’epoca quell’interpretazione non fu per nulla compresa. Anzi, Arendt si attirò veleni e inimicizie, soprattutto da parte delle comunità ebraiche, di cui pure faceva parte. Fu accusata di giustificazionismo nei confronti del nazismo, ricevette minacce pesanti e rischiò perfino di essere sospesa dall’insegnamento. Destarono scandalo in particolare le sue osservazioni sulla «passività» degli ebrei di fronte alla Shoah.
Non era facile, ma con Hannah Arend la regista di Anni di piombo e di Rosenstrasse è riuscita non solo a consegnarci un prezioso ritratto di colei che è considerata la più acuta pensatrice del secolo scorso, ma anche a toccare un nervo scoperto della storia tedesca, senza sbavature retoriche e senza ideologismi precostituiti.
Hannah Arendt
Von Trotta: così è nata la “banalità del male”
In anteprima al Bif&st il film sulla filosofa, incentrato sui reportage dal processo contro il nazista Eichmann
di Fulvia Caprara La Stampa 9.3.13 da illuminations-edu



Von Trotta: la mia Hannah
«Oggi con la crisi si riscopre l’attualità di Arendt» La regista tedesca: «Eichmann secondo la filosofa non è un mostro che ha compiuto un genocidio ma semplicemente un uomo che ha smesso di pensare in maniera autonoma»intervista di Gabriella Gallozzi 
l’Unità 21.3.13
«PER DECENNI TUTTI HANNO SEGUITO UN’UNICA FEDE: QUELLA NEL MERCATO, NEL DENARO, NELLA FINANZA. ORA CON LA CRISI e quello che sta accadendo in Grecia, per esempio, finalmente la gente si è accorta che non si può più sposare una sola ideologia, ma bisogna tornare a pensare con la propria testa. Ecco, per questo oggi più che mai Hannah Arendt è una figura da riscoprire». Margarethe von Trotta spiega così la spinta che l’ha portata a realizzare il film sulla grande pensatrice tedesca che, dopo la Berlinale, è approdato a Bari, al Bif& st in anteprima italiana e poi arrivare in sala in autunno per la Ripley’s Film. Ieri, infatti, è stato il suo giorno: una lunga lezione di cinema al Petruzzelli, la proiezione di Hannah Arendt e un «ripasso» del nazismo attraverso il racconto della meno nota «resistenza» delle donne ebree, col suo Rosenstrasse, del 2003. Anche questo un film sofferto, che ha impiegato decenni prima di riuscire a realizzare. Così come è accaduto per Hannah Arendt che aveva in testa addirittura dagli anni Ottanta, come racconta lei stessa.
Perché ha scelto di concentrare la storia al momento dell’incontro della Arendt con Eichmann durante il processo al criminale nazista?
«Era il modo più diretto per far capire l’impatto storico ed emotivo di questo incontro esplosivo. È lì davanti al criminale nazista processato da Israele che la Arendt formula per la prima volta il concetto di “banalità del male”. Quell’uomo, responsabile dello sterminio di milioni di ebrei, per lei non è un mostro ma, semplicemente un uomo che ha smesso di pensare in maniera autonoma. Obbediente agli ordini e basta. Ed è proprio questo mix di fatale obbedienza e assenza di pensiero che gli ha permesso di trasportare milioni di persone verso le camere a gas. Per questo, nonostante lei stessa fosse ebrea, venne criticata aspramente e attaccata come se fosse stata una nemica del popolo ebraico».
Nel film c’è anche un altro punto incandescente. Il duro giudizio della filosofa sulle responsabilità degli stessi leader ebraici nello sterminio...
«Certo perché è uno dei cardini della sua riflessione, uno dei motivi dello scandalo che provocò quel suo reportage sul processo Eichmann. Tanto che il film in un primo momento doveva intitolarsi La controversia. Anche i leader ebraici erano tedeschi, erano nati in Germania. Se avessero avuto un po’ più di grillismo invece di seguire un’unica linea forse non tutto sarebbe andato com’è andato. Del resto tra il non fare nulla e fare qualcosa nonostante l’oggettiva immensità del pericolo, c’è una via di mezzo. La stessa Arendt, come tanti altri ebrei, avrebbe potuto diventare una vittima del nazionalsocialismo, ma rendendosi conto del pericolo abbandonò la Germania». È un tema «scivoloso» visti i tempi e le recrudescenze naziste. Tra i suoi produttori ce n’è anche uno israeliano. Ci sono state difficoltà?
«In realtà, sì. Lui in particolare non avrebbe voluto si affrontasse questo argomento. Io però faccio la regista, non la storica e volevo fare un film su Hannah Arendt, sulla pensatrice e sulla donna, nella sua complessità. Sono tutti argomenti controversi. Fino agli anni 60a, per esempio, i giovani in Israele pensavano che gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto fossero dei poco di buono. Per questo Ben Gurion volle fare il processo ad Eichmann proprio a Gerusalemme».
Quanto è noto in Germania il pensiero di Arendt?
«Beh, a dire il vero la conosce una cerchia ristretta di persone. Direi una élite. Persino il mio produttore di sempre che è un quarantenne quando gli ho detto che volevo fare un film su Hannah Arendt mi ha detto: “Su chi????” Non la conosceva per niente».
Ma il film in Germania è andato molto bene...
«Sì, è vero. E la prima a stupirmi sono io. Nell’83 volevo fare un film su Rosa Luxemburg uscito nell’86 perché ero convinta che fosse la pensatrice più importante del secolo scorso. Mi rendo conto, ora, invece che Hannah Arendt è ancora più importante. Tanto che solo oggi la profondità del suo pensiero è affrontata e capita correttamente. Con la crisi che sta colpendo tutti, finalmente le persone si sono rese conto che bisogna tornare a pensare, autonomamente, senza più aderire a fedi preconcette. In questo senso la Arendt è un esempio luminoso di chi rimane fedele alla sua visione del mondo».


Von Trotta: porto sullo schermo il rigore morale di Hannah Arendt
intervista di Maria Pia Fusco 
Repubblica 21.3.13
BARI «Ho cominciato a lavorare su Hannah Arendt dieci anni fa, con la scrittrice americana Pam Katz. Pensavamo alla storia d’amore con Martin Heidegger, e sarebbe stato più facile. Ma non ero convinta: mi sembrava di sminuirne importanza e peso del pensiero. Poi ho concentrato il racconto nel periodo in cui lei seguì per il New Yorker il processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme. Il legame con Heidegger è evocato in alcuni flashback sugli anni Venti e poi nel dopoguerra. Anche se aveva aderito al nazismo, Hannah non troncò mai del tutto con lui». Così Margarethe von Trotta su Hannah Arendt (in sala in autunno), che, insieme alla magnifica interprete Barbara Sukowa, ha presentato in anteprima al festival di Bari. Che cosa l’ha colpita di più della Arendt? «L’onestà intellettuale, il rigore morale, il coraggio di difendere le sue idee. Io voglio capire era il suo motto, una volontà che pagò con la violenza delle critiche dopo l’uscita degli articoli e di La banalità del male.
Una parte della cultura ebraica la accusava di tradire la memoria dell’Olocausto, non accettava la verità di Hannah su Eichmann descritto come un piccolo burocrate sottomesso, che nell’“eseguire gli ordini” rinunciava alla ragione e al pensiero. Un criminale, non un mostro».
Fu anche accusata di considerare collaborazionisti alcuni vertici ebrei...
«Non ha mai usato queste parole. A Gerusalemme aveva ascoltato le testimonianze di alcuni rabbini tedeschi che si erano piegati alle deportazioni senza reagire. Lei non accettava la rassegnazione, pensava che se invece di restare passivi avessero almeno tentato di fare qualcosa, forse i morti non sarebbero stati sei milioni».
C’è una differenza tra la Arendt pubblica, dura e intransigente, e la donna privata, moglie affettuosa e tenera?
«Per Hannah l’amore doveva essere protetto dalla realtà esterna, come se due che si amano costituissero un mondo a parte. Ma veniva definita “genio dell’amicizia”, era circondata dall’affetto di tanti amici. A parte Heidegger, il grande amore della sua vita fu il marito Heinrich Blucher, berlinese, seguace di Rosa Luxemburg, comunista».
Quanto c’è di finzione nel film?
«I dialoghi e le situazioni li abbiamo ricostruiti dalla biografia scritta da una allieva, dagli scritti, dai documenti. L’interrogatorio ad Eichmann fu ripreso dagli americani che installarono quattro schermi da cui Hannah seguì il processo, senza rinunciare alla sua abitudine di fumatrice accanita».

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