lunedì 4 febbraio 2013
La crisi della forma partito e della democrazia moderna e chi ardentemente la desidera
Revelli, come è noto, è uno dei principali fautori del "superamento del Novecento". Non si limita cioè a constatare una crisi ma ha fatto e fa di tutto per portarla a compimento. Basti ricordare il ruolo che Revelli aveva ai tempi della segreteria Bertinotti [SGA].
Risvolto
È in atto una mutazione del tradizionale
protagonista della nostra
democrazia: il partito politico. Come
l'impresa ha trasformato la sua
struttura dopo la crisi del fordismo,
cosí i partiti stanno cambiando natura
dentro una clamorosa crisi di
fiducia. E talvolta finiscono.
La crisi dei tradizionali partiti politici è ormai
conclamata e minaccia di contagiare le stesse istituzioni democratiche.
Secondo i più recenti sondaggi, meno del cinque per cento degli italiani
ha fiducia nei partiti politici e nei loro leader, poco più del dieci
per cento nel Parlamento. Particolarmente evidente in Italia, il
fenomeno è tuttavia generale: ovunque i "contenitori politici"
novecenteschi stentano a conservare il consenso. E ovunque cresce un
senso di fastidio verso quella che viene considerata da sempre più ampie
fasce di elettorato una "oligarchia", separata dal proprio popolo e
portatrice di privilegi economici e di casta ingiustificati. È
importante però, oltre il livello della denuncia, misurare le dimensioni
del fenomeno e soprattutto interrogarsi sulle cause del tracollo della
forma partito, nonché sul futuro della rappresentanza politica nello
scenario di una trasformazione "epocale" dalla società industriale a
quella post-industriale. A ben guardare - e l'autore lo fa da una
prospettiva in larga misura inedita - l'esplosione dei partiti si
ricollega, seppure in una congiuntura temporale apparentemente sfasata,
al superamento dell'organizzazione produttiva "fordista" massificata e
all'affermarsi di nuovi forme organizzative leggere, decentrate, aperte.
Facendo i conti, in modo drammatico, con la stessa insostenibilità dei
costi crescenti che la macchina d'impresa ha indotto fino a saltare.
Nel suo saggio in uscita domani Marco Revelli analizza la crisi dei sistemi di rappresentanza e il futuro delle istituzioni
Senza democrazia
La politica a caccia di nuove “forme”
di Marco Revelli Repubblica 4.2.13
Nel passaggio dalla riflessione colta alle retoriche politiche
prevalenti, quelle che erano domande e individuazioni di rischi sono
diventate perentorie certezze. La formula ha perso il punto
interrogativo per assumere l’esclamativo: «Non può esserci democrazia
senza partiti! ». L’ha scritto sotto il titolo impegnativo A cosa serve
la politica?
Massimo D’Alema, sia pur ammettendo la difficoltà del compito di
convincerne gli elettori («Non basta riaffermare ciò che è
indiscutibilmente vero: non c’è democrazia senza i partiti»). L’ha
ripetuto, in un accorato appello radiofonico, Rosy Bindi («Senza i
partiti non c’è democrazia e il cittadino è costretto a scegliere tra i
tanti populismi che si annidano nel nostro Paese o le tecnocrazie che ci
dettano ricette da organismi che non hanno fondamento democratico»).
L’ha ripreso sul fronte politico opposto Maurizio Lupi in veste di
vicepresidente della Camera («Non possiamo far vincere il populismo di
chi vorrebbe cancellare la politica e i partiti che ne sono la massima
espressione. Senza i partiti non c’è democrazia»).
L’ha ribadito infine, con tutta l’autorevolezza istituzionale che gli
deriva dall’alta carica ricoperta, il presidente Giorgio Napolitano in
un citatissimo discorso tenuto a Mestre al Teatro Toniolo nel settembre
del 2012: «Non può esserci democrazia funzionante senza il canale dei
partiti politici. Nessuna nuova o più vitale democrazia può nascere
dalla demonizzazione dei partiti». Tutti con l’obiettivo di affermare
perentoriamente la tesi che alla centralità dei partiti politici non c’è
alternativa, secondo la logica del «tutto o niente ». E di porre un
Paese spaesato e attonito di fronte alla necessità di accettare
l’improbabile prospettiva di un qualche recupero dei partiti politici al
loro compito storico e alla loro natura originaria di gestori della
partecipazione, pena la perdita della possibilità stessa di partecipare e
decidere.
In realtà non è così. Il nesso tra la democrazia e la “forma-partito”
così come essa si è strutturata nell’ultimo sessantennio non è affatto
così esclusivo e indissolubile. La democrazia dei moderni si è definita
concettualmente e praticamente ben prima che comparisse all’orizzonte il
“partito di massa” e che esso divenisse il monopolista quasi esclusivo
del processo di partecipazione e di rappresentanza. Può sopravvivere
alla fine di quel monopolio e di quella centralità, rinnovandosi nei
contenuti e nelle procedure. Né l’attuale crisi dei partiti nella loro
espressione storica ci pone di fronte alle alternative “terminali” e
“assolute” che la retorica della “fine della democrazia” sembrerebbe
richiamare: il “partito politico” non scompare istantaneamente in ogni
forma e in ogni luogo. S’indebolisce, certo. Si modifica: può subire una
metamorfosi selettiva, più profonda in alcune realtà geopolitiche e
sociali, meno in altre. Per molti aspetti l’ha già
subita. È mutato nel profondo, nei suoi stessi codici genetici.
Esattamente come l’impresa capitalistica ha mutato il proprio
“paradigma” socio-produttivo nella transizione alla modernità
post-industriale e post-fordista — assumendo una formale orizzontalità
tecnico- operativa e accentuando la propria sostanziale verticalità nei
meccanismi del comando e dell’agire strategico — allo stesso modo la
forma organizzativa “partito” si è “dissipata” alla base, allentando il
proprio radicamento territoriale e sociale, annacquando i propri legami
identitari, e si è verticalizzata. Ha accentuato il trasferimento “in
alto” dei propri centri di comando. Ne ha rafforzato il grado di
autonomia rispetto alla massa dei militanti e degli elettori. E ha visto
nascere — in quello che era il proprio “ambiente” originario nel senso
tecnico del termine, nel proprio environment naturale — altre forme di
rappresentanza degli interessi e delle culture, reti più o meno lunghe
di partecipazione parallela o alternativa, culture, soggettività,
aggregazioni che hanno complicato il “gioco”. Moltiplicato gli attori.
Relativizzato i poteri.
È da tempo — da un paio di decenni almeno — che il partito politico ha
smesso di svolgere nei nostri sistemi istituzionali cosiddetti avanzati
il proprio ruolo storico. E che la nostra democrazia rappresentativa ha
mutato natura e logica di funzionamento. Il fenomeno, soprattutto in
Italia, è stato mascherato in qualche misura dalla sostanziale
continuità di buona parte della classe politica e del personale
professionale di partito, sopravvissuto alle pur rilevanti contorsioni
dei rispettivi supporti organizzativi. Ma le dis-connessioni sono state
numerose, ed evidenti: basti pensare alla toponomastica politica e
parlamentare dove non vi è settore in cui si trovi ancora traccia delle
antiche etichette anche se vi siedono spesso le medesime facce. Basta
dare un’occhiata alla simbologia politica — sensibilissimo indicatore
dei sommovimenti profondi delle appartenenze e delle identità —
resettata sistematicamente con un processo di sradicamento che ricorda
per molti versi l’ondata biblica che ha spopolato il nostro entroterra
montano. O, ancora, è sufficiente curiosare tra le pieghe del nostro
territorio con occhio avvertito, censire l’infinità di sedi dismesse
nelle periferie urbane o nei piccoli centri, le vecchie insegne stinte,
le bacheche di quartiere ingial-lite, per cogliere il processo esteso di
“sottrazione” dai luoghi dell’abitare della rete organizzativa
partitica, in un esodo verso il centro e verso l’alto che lascia al
livello del suolo il vuoto.
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