Alessandro Zaccuri Avvenire 27 febbraio 2013
Alessandro Zaccuri Avvenire 28 febbraio 2013
Se la religione si sporca col potere
Un saggio di Massimo Cacciari affronta una classica controversia da San Paolo fino a Nietzsche e Carl Schmitt
di Roberto Esposito Repubblica 27.2.13
C’è
un passo enigmatico, nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 6-7)
attribuita a S. Paolo, su cui si è esercitata una schiera di esegeti,
antichi e moderni, senza mai venirne definitivamente a capo. In esso si
fa riferimento a un katechon che trattiene il trionfo finale del male,
ritardando così anche il suo annientamento da parte del Signore. Il
“mistero”, come l’autore stesso lo definisce, contenuto in questo testo
riguarda insieme il soggetto e il significato del katechon. Chi, o cosa,
è questa forza che frena al contempo lo scatenamento del male e la
vittoria del bene? E come, tale funzione, va interpretata — come
espressione diabolica o come forza spirituale? La questione torna ad
essere interrogata, con straordinaria acutezza analitica, da Massimo
Cacciari in un piccolo, ma denso, libro appena edito da Adelphi col
titolo Il potere che frena. Saggio di teologia politica.
Nella sua
interpretazione, naturalmente, non è in gioco solo il senso di quel
passo e l’identità della figura che esso evoca, ma l’intero rapporto tra
teologia e politica — il ruolo del potere e la maschera della
sovranità, il contrarsi del tempo e l’immagine dell’eternità, il
travaglio del cristianesimo e il destino del mondo contemporaneo. Il
presupposto da cui Cacciari parte è che tra teologia e politica vi sia
una relazione ineliminabile. Non solo nel senso, teorizzato da Carl
Schmitt, che i principali concetti politici abbiano un’origine
teologica. E neanche in quello, affermato dal grande egittologo Jan
Assmann, che le categorie teologiche contengano un originario nucleo
politico. Ciò che presuppone Cacciari è un rapporto insieme più
vincolante e più contraddittorio. E cioè che la vita religiosa abbia già
in sé un impulso politico, così come un autentico operare politico non
possa mai smarrire la propria radice spirituale.
La drammatica figura
del katechon si situa precisamente all’incrocio di queste traiettorie —
rendendole, se è possibile, ancora più impervie. Intanto non è chiaro
chi storicamente lo incarni. Gli interpreti sono divisi — la maggioranza
di essi pensa alla potenza dell’impero romano, altri all’apparato
istituzionale della Chiesa. In nessuno dei casi, tuttavia, il mistero
del katechon sembra sciogliersi, acquietarsi in una soluzione
soddisfacente. Certamente esso si pone in un tempo ultimativo. L’età
presente sta per finire — questa è la convinzione della comunità
cristiana cui Paolo dà voce. Ma come avverrà tale fine? E cosa ci sarà
dopo di essa — un’altra epoca o l’Evo eterno, la fine gloriosa della
storia? Che il soggetto del katechon sia l’Impero oppure la Chiesa,
resta la domanda di fondo. Come comporre gli opposti — tempo ed
eternità, potere e bene, forza e giustizia? L’un termine non renderà
vano l’altro? Per trattenere il male, sia l’Impero sia la Chiesa non
possono fare a meno di usare quel potere che ad esso è connaturato.
Perciò il katechon, qualunque cosa sia, opera sempre con le armi del
Nemico dello Spirito. Ciò è ben visibile nelle vicende sanguinose
dell’Impero romano; ma risulta altrettanto evidente nella storia della
Chiesa, da sempre impastata con le forze che combatte, incapace di
rispondere alla parola purissima da cui nasce. Certo, entrambi, Impero e
Chiesa guardano oltre il proprio tempo, si fanno carico di una missione
universale. Ma per produrre novitas — per dare espressione veritiera
alla propria epoca — essi devono prima di tutto durare, conservarsi, con
ogni mezzo possibile, compresi l’inganno e la violenza.
Le pagine di
Cacciari restituiscono a pieno l’intensità di questo dramma. Il bene
non è rappresentabile dal potere, ma per realizzarsi, sia pure
imperfettamente, in questo mondo, è costretto a far ricorso ad esso.
Così le due autorità che per un millennio hanno combattuto per
assicurarsi il governo, politico e spirituale, degli uomini, si sono a
lungo specchiate l’una nell’altra. Agostino e Dante sono i due grandi
interpreti di questo scontro epocale. Il primo destituendo di ogni
sacralità il potere dell’impero. Il secondo, cercando in esso il
necessario contraltare alla potenza della Chiesa.
Nonostante questa
divergenza profonda, per entrambi le due città non soltanto sono divise
tra loro, ma divise anche al loro interno tra i salvi e i reprobi, tra
coloro
che limitano lo sguardo al proprio interesse e coloro che lo allargano all’intera comunità.
Nulla
meglio della figura del Grande Inquisitore di Dostoevskij rappresenta
questo tragico conflitto. Con lui il male ha già vinto. Dando per
scontata l’incapacità dell’uomo a sostenere la libertà, egli si è posto a
fianco dell’Anticristo. Eppure anche nella sua maschera esangue
traspare qualcosa dell’antica battaglia, come una eco non spenta di
quell’annuncio che, dolorosamente, ha tradito. C’è anche questa infinita
nostalgia nel bacio livido che egli depone sulle labbra di Cristo.
L’Inquisitore è l’ultimo rappresentante di quella vicenda prometeica che
ha scandito la storia del mondo, sospendendola allo scontro senza esito
tra verità e potere.
Dopo di lui non resta che il compimento del
nichilismo — il tempo dell’ultimo uomo di cui parla Nietzsche. In esso
non trapela più il raggio di una possibile redenzione. Ma non si avverte
neanche il frastuono dell’apocalisse. Piuttosto il deserto del nulla —
la gestione tecnica come forma anomica dell’età globale. Esaurito lo
spazio del sacro, viene meno anche quello del politico che ad esso
corrisponde. Senza la polarità teologica non si dà vera politica.
Naturalmente ciò vale, se regge il presupposto di partenza di tutto il
discorso — e cioè il radicamento originariamente teologico del politico e
viceversa. Che così sia, Cacciari lo dà per scontato. Ma si tratta
dell’unica verità possibile? O non è un effetto ottico della stessa
macchina teologico- politica che egli analizza, situandosi al suo
interno? E ancora — qual è oggi il compito della filosofia
contemporanea? Scendere sempre più a fondo dentro questo tragico viluppo
o tentare di aprire un nuovo orizzonte di pensiero, con tutto il
rischio che ciò comporta? Il dibattito che si va aprendo sulla teologia
politica ha per posta questa questione decisiva.
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