domenica 17 febbraio 2013

Nostalgia del Piccolo Padre


Stalin

Il ritorno del georgian boy
Uomo del riscatto oppure Satana: un Paese diviso tra Occidente e Mosca

di Lorenzo Cremonesi Corriere La Lettura 17.2.13


Tornare a Stalin per superarlo, e finalmente seppellirlo. È schizofrenico il rapporto dei georgiani con il loro «piccolo padre», simbolo imbarazzante di un passato che tanti vorrebbero morto e sepolto, ma che in realtà non passa affatto. Anzi, torna adesso a rinfocolare le polemiche sull'onda del progetto, in occasione dei 60 anni della morte, di riportare in pubblico quella massiccia statua in bronzo alta quasi sette metri che tre anni fa fu rimossa dal centro di Gori, la sua città natale, per erigerla — questa volta — proprio di fronte al museo a lui dedicato.
Un trasloco di 500 metri, dal sito originario del 1952 fino alla piazza principale. Ma, seguendo l'intensità del dibattito, pare che ogni metro misuri decine di chilometri e soprattutto rappresenti visioni opposte della memoria collettiva, del rapporto con il gigante russo dall'altra parte del Caucaso e della narrativa fondante l'identità georgiana dagli anni insanguinati del Novecento profondo a oggi. «Stalin si può amare, oppure odiare. Ma raramente lascia indifferenti. Subito dopo la rivoluzione delle Rose, nel 2003 i fedelissimi del presidente filo-americano Mikhael Saakashvili hanno cercato di cancellarlo. Però senza successo. Ora gli uomini nuovi della svolta filo-russa voluta dal neopremier Bidzina Ivanshivili, vincente alle elezioni dell'ottobre 2012 (controlla 85 seggi dei 150 complessivi, ndr), vorrebbero riproporlo con la stessa retorica della dittatura di mezzo secolo fa. Il che è egualmente assurdo», sintetizza Lasha Bakradze, direttore del museo della Letteratura georgiana e docente di Storia dell'Urss all'università di Tbilisi.
Dittatori, storia e memoria nazionali: il tema gli sta a cuore. Due anni fa è stato a Braunau, cittadina natale di Hitler in Austria, dove ha incontrato il sindaco assieme a quello di Predappio. «Stalin, Hitler e Mussolini hanno tanto in comune. Non ultima la necessità di riflettere sul racconto storico alle nuove generazioni», sostiene. La sera del 30 gennaio, Bakradze ha reso pubblici i risultati del sondaggio sponsorizzato dal noto istituto statunitense, Carnegie Endowment for International Peace, in cui risulta che circa un quarto dei quasi cinque milioni di georgiani si esprime senza riserve a favore dell'era staliniana e giustifica il Gulag. Una percentuale simile è all'opposto assolutamente negativa. E così si spiega: «I più anziani sono nostalgici, rimpiangono Stalin come un'icona della loro gioventù. Sono le vittime imbelli della modernizzazione, cresciute nel regime garantista socialista, e si sono impoveriti nel nuovo sistema economico liberale. Altri lo ammirano non in quanto leader comunista, ma perché fu un georgiano che acquistò fama mondiale. Stalin è il nostro georgian boy che si è fatto rispettare all'estero, un atteggiamento provinciale, tipico dei nazionalisti nei Paesi piccoli e insicuri. In verità, manca un processo di revisione critica approfondito. E senza ripensare, studiare, tornare alle fonti della propria storia, non si va lontano. Si è cercato di rimuovere Stalin e lui ci sbarra la strada. Perché la storia non va dimenticata, altrimenti torna a condizionare con un effetto boomerang che sorprende gli impreparati».
Parole puntualmente confermate dalla visita ai luoghi più noti che vorrebbero rappresentare la memoria recente della Georgia. Vai a Tbilisi, la capitale, e il Museo dell'occupazione sovietica raffigura Stalin come una sorta di Satana in Terra, il persecutore numero uno del popolo georgiano, così crudele e implacabile che al momento delle grandi purghe, a metà degli anni Trenta, decise di massacrare anche i vecchi compagni che l'avevano conosciuto giovanissimo tra le cellule di cospiratori comunisti di Gori. «Avrebbero potuto contraddire la narrativa agiografia ufficiale del regime, andavano eliminati», dice una delle giovani guide. La prima sala dell'esposizione documenta i massacri dei nobili e degli ufficiali georgiani ai tempi dell'invasione sovietica del 1921. Foto ingiallite di intere famiglie spazzate via. I resti bucherellati da raffiche intense di proiettili di un vagone in legno dove i difensori dell'indipendenza nazionale furono uccisi a centinaia. Viene automatico il parallelo con la narrativa polacca dell'eccidio dei propri quadri militari a Katyn, un ventennio dopo. «La propaganda sovietica ha avallato quei bagni di sangue», sottolinea Giorgi Kandelaki, eletto giovanissimo nel 2008 (aveva solo 25 anni) al Parlamento tra le file del Movimento unito nazionale, il partito di Saakashvili. «Dopo la caduta dell'impero zarista, la Georgia era rapidamente assurta alla dignità di Paese indipendente, pienamente inserito nella tradizione democratica occidentale. Stavamo entrando nella Lega delle Nazioni. Poi ci fu l'invasione e per quieto vivere l'Europa, a cui guardavamo con tante speranze, ci abbandonò al nostro destino», aggiunge per spiegare i motivi del radicato filo-americanismo tra i ranghi del suo partito sin dall'indipendenza guadagnata a fatica dopo il crollo dell'Urss, ormai oltre vent'anni fa.
Da qui al parallelo con le recenti tensioni, che segnano il braccio di ferro con Mosca per il controllo dell'Abkhazia e dell'Ossetia del Sud, il passo è breve. «Nel 2008 siamo entrati in guerra per difendere i nostri confini. Non dobbiamo farci illusioni. Le aspirazioni imperiali russe sulla Georgia non sono mai scemate. La nostra unica speranza è il sostegno occidentale», ribadisce. Nella seconda sala del museo i morti tra i soldati delle unità georgiane inquadrate nell'Armata rossa e spedite a contrastare l'invasione italo-tedesca nella Seconda guerra mondiale vengono equiparati alle vittime politiche della persecuzione comunista. «Partirono in 700 mila, 400 mila non sono tornati. Mandati a morire per ordine di Mosca», denunciano le didascalie in toni che però sollevano non poche perplessità anche tra quei circoli intellettuali georgiani che sono ben contenti di prendere le distanze dalla Russia di Putin.
Tutto diverso invece il museo dedicato a Stalin nel centro di Gori, fossilizzato nell'immagine del dittatore mummificata dalla ben nota coreografia trionfante e ossessiva dell'Unione Sovietica al tempo della sua massima potenza. Dista solo una settantina di chilometri dalla capitale, ma è come se fossimo in un Paese totalmente altro. Tbilisi e Gori, la critica radicale da una parte e l'apologia adorante dall'altra: le due «narrative» fanno a pugni tra loro in modo talmente stridente, estremo, persino paradossale, da far quasi credere sia una scelta voluta. «E invece no. Siamo alla guerra di propaganda, non c'è stato ancora alcun tipo di riflessione sistematica. Di fronte alle contraddizioni si lasciano le cose come stanno, anche a costo di cadere nel ridicolo», confessa la direttrice del museo di Gori, Liana Okropiridze. Qui permane praticamente immutata l'esaltazione tradizionale sovietica prima maniera dello Stalin figlio del popolo, costruttore dell'economia nazionale e condottiero vittorioso contro la barbarie nazista. Il museo venne eretto nel 1957, quattro anni dopo la sua morte. Lo volle Krusciov, che pure aveva già da tempo avviato la destalinizzazione, per accattivarsi i comunisti georgiani. Nel giardino sono ancora esposti la semplice abitazione in legno a un piano dove lui nacque nel 1879 e il vagone ferroviario attrezzato come ufficio in cui viaggiava spesso.
«Stalin aveva paura di volare, preferiva il treno. A costo di passarvi settimane intere», spiega puntigliosa e con un inglese da manuale Olga Topchisheili, la guida che lavora qui da tre decenni e si dice «entusiasta» del ritorno della statua in città: «Così attirerà più turisti». I numeri parlano chiaro dal registro del museo: i visitatori sono in crescita e in grande maggioranza stranieri. Nel 2011 sono stati oltre 24.500, di cui solo il 10 per cento georgiani. Nel 2012 la cifra è salita a 31.655, gli stranieri a quasi 27 mila. Al visitatore italiano mostra fiera i doni arrivati negli anni dai «compagni» che militavano nel più grande Partito comunista occidentale. «Dalle donne italiane di Mantova a Giuseppe Stalin campione della pace», si legge cucito a mano in filo rosso su una colomba di pezza bianca conservata in una bacheca di vetro. In un'altra sta una botticella di vino in legno chiaro con la dicitura: «Dai comunisti milanesi». Unica concessione al mutare dei tempi è una stanzuccia nel sottoscala, dove nell'ultimo anno è stata organizzata frettolosamente una minuscola esposizione in ricordo delle vittime dello stalinismo originarie di Gori. C'è la ricostruzione di una cella dal soffitto basso con accanto l'ufficio degli interrogatori della polizia segreta, sul muro si leggono i nomi di una trentina di deportati mai più tornati dalla Siberia. «In effetti non tutto era perfetto. Ci furono anche ingiustizie», ammette la guida arrossendo imbarazzata.
Poco lontano, nella piazza centrale dove stava la statua di Stalin, adesso c'è un grande parcheggio. Le auto sono per lo più Suv giapponesi, Bmw e Skoda da decine di migliaia di euro; stridono con la povertà delle abitazioni. Un paio di strade oltre la zona del centro i quartieri appaiono decrepiti, i muri scrostati, i palazzi sono casermoni grigi in perfetto stile sovietico anni Cinquanta. Il vecchio e il nuovo convivono spalla a spalla senza che uno prevalga sull'altro, sono lo specchio di questa fase di transizione caotica, dominata dall'incertezza. «La sera tra il 24 e 25 giugno 2010 arrivarono le ruspe senza preavviso. Faceva buio. Illuminarono la scena con gigantesche lampade al fosforo appese allo stabile del municipio appena di fronte. La statua era il simbolo della nostra città. Venne imbragata e smontata rapidamente. La portarono via come ladri nella notte. Vergogna. Avevano paura della reazione della popolazione. Noi bambini ci giravamo attorno in bicicletta. Era un punto di ritrovo per tutti. Non l'hanno neppure cancellata dalle cartoline. Per distruggere il piedestallo di marmo e pietra ci vollero altri due giorni», ricorda Lella Bedoshvili, 39 anni, cameriera al Cafè Hause, il bar che si affaccia direttamente di fronte al municipio, scontenta che la statua non torni esattamente dove stava prima.
Furiosamente avverso a qualsiasi forma di commemorazione è per contro il 41enne Jacob Jugashvili, pronipote del dittatore e uno dei pochi familiari ancora in vita, che viaggia di continuo tra Mosca e Tbilisi. «Ipocriti coloro che vogliono la statua. Stalin venne tradito e ucciso dal suo partito. Siamo vittime di una gigantesca cospirazione», afferma aggressivo, a testimonianza di quanto sia emotivamente difficile essere discendenti di un personaggio famoso.
Favorevole al compromesso per motivi di opportunità si dice invece il sindaco di Gori, il 51enne David Raznadze, strenuo militante della svolta pro-russa voluta da Ivanishvili. «Ero contrario alla rimozione della statua. Fu una decisione imposta da Saakashvili. Non che io sia stalinista, tutt'altro. Ma alla maggioranza dei quasi 60 mila abitanti di Gori la statua piaceva. E, soprattutto, perché offendere i vicini russi? Sono i nostri partner economici naturali. Io penso a un modello di integrazione nel Caucaso che si rifaccia a quello tra i Paesi dell'Europa unita. Sovranità politiche separate, ma stretta cooperazione economica. Ora è giusto erigere la statua di fronte al museo, una soluzione che dovrebbe accontentare un po' tutte le parti», spiega nel suo ufficio.
A conferma della sua argomentazione sottolinea l'importanza del nuovo accordo per la ripresa dell'esportazione del vino georgiano sul mercato russo, che era stata bloccata da Mosca nel 2006. «Meglio vendere il nostro vino ai russi, che fare la fila per entrare nella Nato», aggiunge, in aperta polemica con l'atlantismo del presidente. Ben venga dunque il gigante di marmo. Un accomodamento che raccoglie consensi anche tra i più critici a Gori. Dopo tutto Stalin era uno di loro. «I russi ci hanno fottuto», esclamano sarcastici. «Ma Stalin ha fottuto i russi».

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