giovedì 4 aprile 2013

Professioni senza tempo

Copertina 24440Gastone Breccia: L’arte della guerrigliail Mulino, 304 pag., 25 euro

Risvolto

«Nella guerriglia, bisogna scegliere la tattica di far finta di venire dall’oriente, e attaccare da occidente; evitare il solido, e attaccare il vuoto; aggredire, ritirarsi, infliggere un colpo con la rapidità del lampo, cercare una soluzione fulminea. Se i guerriglieri affrontano un nemico più forte, si ritirano quando avanza, lo disturbano quando si ferma, lo colpiscono quando è stanco, lo inseguono quando si ritira»

Mao Zedong

Il termine che la definisce ha poco più di due secoli, ma la guerriglia, intesa come lotta ingaggiata dal più debole contro il più forte con tattiche elusive, accompagna tutta la storia dell’uomo. Anche oggi non v’è area del globo che ne sia immune. Questo libro racconta la guerriglia così come è stata teorizzata o praticata (da Sun Tzu a Clausewitz, da Lawrence d’Arabia a Che Guevara), ripercorrendo vicende concrete relative alla resistenza degli indiani d’America, al Vietnam, all’Algeria, alla Cecenia, e da ultimo all’Afghanistan, di cui l’autore ha potuto avere esperienza diretta al seguito del contingente italiano nella primavera del 2011.
Gastone Breccia insegna Storia bizantina nell’Università di Pavia. Tra le sue pubblicazioni, «L’arte della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz» (a cura di; Einaudi, 2009) e «I figli di Marte. L’arte della guerra nell’antica Roma» (Mondadori, 2012).


Il guerrigliero di oggi: un fanatico senza ideologia
Come è cambiata la «petite guerre» dal tempo dei vietcong alla jihad islamica: un saggio ripercorre un’arte vecchia come il mondo

di Domenico Quirico La Stampa 3.4.13

«Arciere, vigliacco! Razza di donnetta, vieni a combattere con me a viso aperto! ». L’imprecazione dell’invincibile Diomede scagliata contro l’effeminato Paride che lo ha colpito da lontano con una freccia, si specchia nel rendiconto disperato, impotente, del generale Cann, comandante dei paracadutisti francesi vittime di un attentato di Hezbollah a Beirut, il 23 ottobre 1983: «Ho appena perso sessantuno dei miei ragazzi, uccisi da NESSUNO». Ecco: la guerriglia, la «petite guerre», la intermittente ma implacabile, eterna, molestia; più antica della guerra. Non una strategia militare, o una ideologia: un modo di vivere, «un’arte», come efficacemente ricorda Gastone Breccia che ne ha scritto, per il Mulino, una incalzante storia globale ( L’arte della guerriglia, 304 pag., 25 euro). Perché la guerriglia è la relazione tra il Forte e il Debole. E il guerrigliero, (che è anche l’insorto, il ribelle, «il terrorista») è più che un soldato. È il guerriero, ferocemente giovane: ovvero un tipo diverso di uomo (lo diceva Guevara un po’ enfaticamente «la più alta forma di specie umana») perché ha attraversato consapevolmente la linea invisibile oltre la quale la morte e non la vita è la principale certezza. Il soldato nella tenebra paurosa, in marcia verso le linee del fuoco conta i giorni che lo separano dal congedo, ha paura di morire, bestemmia: «accidenti alla guerra, perché questa vita da cani? ». Il guerrigliero è moralmente più forte, perché conosce le fatiche dei poveri, e non teme il sacrificio. La ruota del fato compie un altro giro, ma è ancora fatica, è pericolo, è stento. Le loro terre, la Cecenia, l’Iraq, la Palestina, l’Afghanistan, la Siria, il Sahel, sono luoghi in cui i morti superano i vivi. Dove i bimbi crescono nel vortice dei conflitti, si vive secondo un credo diverso, e si raccontano Storia e leggende che appartengono soltanto a loro: qui ci fu una imboscata riuscita, qui i soldati massacrarono un villaggio, là è caduto un compagno eroico. Paesaggi interiori, geografie del dolore e della gloria che appartengono solo a loro, che combattono come si combatte nelle leggende. E alla fine diventeranno miti.

Le guerriglie, la pensavamo retaggio dei tempi delle ideologie, in fondo una forma di lotta di classe: la Spagna ribelle a Napoleone, la Sierra Maestra e la Bolivia di Guevara, la Marcia dei centomila li di Mao e le giungle e le risaie di Giap. Epopee lontane, che sono già Storia. E invece: è capace ancora di turbarci i sonni, ogni giorno, questa volta animata da ben altro fuoco, il fanatismo religioso. Il narco-jihaidista saheliano Mokhtar Belmokthar e il talebano mullah Omar sono i nuovi guerriglieri: micidiali, nonostante non abbiano mai letto il miglior trattato; scritto nel 1957, con precisione elvetica, da un disciplinatissimo ufficiale svizzero e non da un comandante comunista, Hans von Dach, La resistenza totale: avviamento alla guerriglia per tutti .
«L’insorto innovativo» è l’ex soldato sconfitto che risorge come talebano, jihaidista, bandito. La sua identità, che era ieri una ideologia trascendente, il marxismo leninismo, oggi è l’islamismo radicale domani, forse un sincretismo New Age. Non ci sono più centri di gravità e neppure capi carismatici, sparite le gerarchie comuniste degli Anni 60. La guerra popolare è morta, viva la guerra nella Rete! Lo smantellamento di un gruppo non ha impatto, la liquidazione di un capo come Abu Zeid, feroce emiro di Aqmi in Mali, non provoca che un turbamento temporaneo.La dinamica guerrigliera ha paura solo del vuoto. Prevale nelle nuove guerriglie una logica darwiniana, i più feroci, i più abili resistono, gli altri scompaiono. I vietcong combattevano per compagnie e battaglioni, oggi basta un pugno di armati o di kamikaze per dimostrare, giorno dopo giorno, al Forte la permanente capacità di nuocere.
Dopo Falluja nel 2004 la guerriglia rifiuta di tenere un territorio e di occuparsi delle popolazioni che vivono nei loro santuari. Il guerrigliero, come Paride, combatte a distanza, è più che mai senza volto: sabotaggi, cecchini, booby traps, mine, autobomba. Il timore dell’attentato e dell’infiltrazione fa nascere un nuovo urbanismo militare che neppure l’apocalittico teorico della guerriglia urbana, l’italo brasiliano Carlos Marighella, aveva sognato. È il tempo dei check point, muri anti bomba, delle «zone di sicurezza», ghetti di lusso e di calma nel cuore della insurrezione; simbolo della impotenza dell’Occidente di fronte alla guerriglia nuova. Il ribelle voleva appunto separare l’occupante dalla popolazione: c’è riuscito.
La nuova guerriglia ha spezzato quella che si immaginava come l’era occidentale della vittoria permanente: non più umiliazioni dunque, l’Afghanistan russo, il Vietnam di francesi e americani, grazie a una supremazia militare fatta di spese senza limiti e innovazione permanente. Ma non sbagliava Nietzsche: «Niente è più logorante di una vittoria senza fine». I rapporti tra il Debole e il Forte sono in continua evoluzione; e nasce, ancora, la domanda insidiosa; sono loro davvero così deboli e siamo noi realmente così forti?
I nuovi Barbari, nel sud del mondo caotico e incontrollabile, composto da arcipelaghi di miseria e Terrae Incognitae, in preda una violenza senza regole, hanno iniziato a superare il Limes fatto di stati cuscinetto, e sono in grado di colpire il cuore dell’impero. Mentre noi discutevamo, oziosamente, dell’asimmetria della guerra, un pulviscolo di rivolte corre dall’Africa sub-sahariana fino all’Asia passando per il Medio Oriente, e posa la sua forza sul risentimento per l’arroganza occidentale: l’insurrezione globale, la guerriglia globale. La «nebbia della guerra» cara a Clausewitz non sembra mai essere stata così spessa; dalle sabbie del Sahara alle montagne dell’Afghanistan la perdita di efficacia della Potenza classica, la nostra, mal impiegata, si svela impietosamente, militare e politica. Eppure nulla è cambiato: nelle Silicon Valley della guerriglia globale, in Afghanistan in Libano nel Mali in Somalia, «gli insorti» continuano a rifiutare il combattimento che gli occidentali vogliono loro imporre, spostando la lotta dove la forza e la tecnologia diventano quasi inoperanti. I guerriglieri islamisti hanno ben imparato la lezione dei maestri: il loro momento è quello della stabilizzazione, quando nascono diverse forme di «resistenza molle» ma durevole contro l’occupante - liberatore. Il Debole cerca soprattutto di sopravvivere, poi di aggirare la potenza del Forte: non distruzione o conquista, ma perturbazione. I nuovi ribelli hanno fatto, anche loro, una rivoluzione militare, le armi portatili anticarro e antiaerei, ma soprattutto l’aggiramento, nel tempo, della potenza della avversario approfittando delle possibilità offerte dalla rivoluzione della informazione e della contraddizioni di una mondializzazione molesta. Opposti a democrazie avide di vittorie rapide, compromettere la stabilizzazione è già una vittoria. Politicamente la superiorità tattica diventa vana, anzi la sproporzione dei mezzi diventa fonte di disordine, nutre il sentimento di ingiustizia di frustrazione l’odio: tutte armi del guerrigliero. La famosa «conquista dei cuori e delle menti» non si adatta a un uso indiscriminato della forza. L’America, la Nato, Israele occupano senza controllare, senza avere i mezzi di sviluppare, rendere perenni l’azione di sicurezza iniziale che pure sembrava così agevole. Sono guerre «bastarde» che non possono che suscitare il rifiuto; in cui partire è impossibile, restare lo è quasi altrettanto. Le guerre per estendere la democrazia sembrano condannate a mutarsi in guerre di occupazione, nell’era della comunicazione globale c’è una condizione che è peggiore della sconfitta, è la non vittoria.
Il problema, oggi come ai tempi della Vandea o dei partigiani antinazisti, è l’impossibilità di adattare gli eserciti occidentali alla guerriglia. Eserciti costruiti su società dinamiche, preparati meccanicamente per la vittoria veloce e annientatrice. Il tempo della guerriglie è diverso: è lento, paziente, infinitamente sospeso. I soldati americani come dice uno dei loro strateghi Andrew Krepinevitch, «sono dei velocisti costretti a fare i maratoneti».

Guerriglia scaltra e determinata

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