Gastone Breccia: L’arte della guerriglia, il Mulino, 304 pag., 25 euro
Risvolto
«Nella guerriglia, bisogna scegliere la tattica di
far finta di venire dall’oriente, e attaccare da occidente; evitare il
solido, e attaccare il vuoto; aggredire, ritirarsi, infliggere un colpo
con la rapidità del lampo, cercare una soluzione fulminea. Se i
guerriglieri affrontano un nemico più forte, si ritirano quando avanza,
lo disturbano quando si ferma, lo colpiscono quando è stanco, lo inseguono quando si ritira»
Mao Zedong
Il termine che la definisce ha poco più di due secoli,
ma la guerriglia, intesa come lotta ingaggiata dal più debole contro il
più forte con tattiche elusive, accompagna tutta la storia dell’uomo.
Anche oggi non v’è area del globo che ne sia immune. Questo libro
racconta la guerriglia così come è stata teorizzata o praticata (da Sun
Tzu a Clausewitz, da Lawrence d’Arabia a Che Guevara), ripercorrendo
vicende concrete relative alla resistenza degli indiani d’America, al
Vietnam, all’Algeria, alla Cecenia, e da ultimo all’Afghanistan, di cui
l’autore ha potuto avere esperienza diretta al seguito del contingente
italiano nella primavera del 2011.
Gastone Breccia insegna Storia
bizantina nell’Università di Pavia. Tra le sue pubblicazioni, «L’arte
della guerra. Da Sun Tzu a Clausewitz» (a cura di; Einaudi, 2009) e «I
figli di Marte. L’arte della guerra nell’antica Roma» (Mondadori, 2012).
Il guerrigliero di oggi: un fanatico senza ideologia
Come è cambiata la «petite guerre» dal tempo dei vietcong alla jihad islamica: un saggio ripercorre un’arte vecchia come il mondo
di Domenico Quirico La Stampa 3.4.13
«Arciere,
vigliacco! Razza di donnetta, vieni a combattere con me a viso aperto!
». L’imprecazione dell’invincibile Diomede scagliata contro l’effeminato
Paride che lo ha colpito da lontano con una freccia, si specchia nel
rendiconto disperato, impotente, del generale Cann, comandante dei
paracadutisti francesi vittime di un attentato di Hezbollah a Beirut, il
23 ottobre 1983: «Ho appena perso sessantuno dei miei ragazzi, uccisi
da NESSUNO». Ecco: la guerriglia, la «petite guerre», la intermittente
ma implacabile, eterna, molestia; più antica della guerra. Non una
strategia militare, o una ideologia: un modo di vivere, «un’arte», come
efficacemente ricorda Gastone Breccia che ne ha scritto, per il Mulino,
una incalzante storia globale ( L’arte della guerriglia, 304 pag., 25
euro). Perché la guerriglia è la relazione tra il Forte e il Debole. E
il guerrigliero, (che è anche l’insorto, il ribelle, «il terrorista») è
più che un soldato. È il guerriero, ferocemente giovane: ovvero un tipo
diverso di uomo (lo diceva Guevara un po’ enfaticamente «la più alta
forma di specie umana») perché ha attraversato consapevolmente la linea
invisibile oltre la quale la morte e non la vita è la principale
certezza. Il soldato nella tenebra paurosa, in marcia verso le linee del
fuoco conta i giorni che lo separano dal congedo, ha paura di morire,
bestemmia: «accidenti alla guerra, perché questa vita da cani? ». Il
guerrigliero è moralmente più forte, perché conosce le fatiche dei
poveri, e non teme il sacrificio. La ruota del fato compie un altro
giro, ma è ancora fatica, è pericolo, è stento. Le loro terre, la
Cecenia, l’Iraq, la Palestina, l’Afghanistan, la Siria, il Sahel, sono
luoghi in cui i morti superano i vivi. Dove i bimbi crescono nel vortice
dei conflitti, si vive secondo un credo diverso, e si raccontano Storia
e leggende che appartengono soltanto a loro: qui ci fu una imboscata
riuscita, qui i soldati massacrarono un villaggio, là è caduto un
compagno eroico. Paesaggi interiori, geografie del dolore e della gloria
che appartengono solo a loro, che combattono come si combatte nelle
leggende. E alla fine diventeranno miti.
Le guerriglie, la pensavamo
retaggio dei tempi delle ideologie, in fondo una forma di lotta di
classe: la Spagna ribelle a Napoleone, la Sierra Maestra e la Bolivia di
Guevara, la Marcia dei centomila li di Mao e le giungle e le risaie di
Giap. Epopee lontane, che sono già Storia. E invece: è capace ancora di
turbarci i sonni, ogni giorno, questa volta animata da ben altro fuoco,
il fanatismo religioso. Il narco-jihaidista saheliano Mokhtar Belmokthar
e il talebano mullah Omar sono i nuovi guerriglieri: micidiali,
nonostante non abbiano mai letto il miglior trattato; scritto nel 1957,
con precisione elvetica, da un disciplinatissimo ufficiale svizzero e
non da un comandante comunista, Hans von Dach, La resistenza totale:
avviamento alla guerriglia per tutti .
«L’insorto innovativo» è l’ex
soldato sconfitto che risorge come talebano, jihaidista, bandito. La sua
identità, che era ieri una ideologia trascendente, il marxismo
leninismo, oggi è l’islamismo radicale domani, forse un sincretismo New
Age. Non ci sono più centri di gravità e neppure capi carismatici,
sparite le gerarchie comuniste degli Anni 60. La guerra popolare è
morta, viva la guerra nella Rete! Lo smantellamento di un gruppo non ha
impatto, la liquidazione di un capo come Abu Zeid, feroce emiro di Aqmi
in Mali, non provoca che un turbamento temporaneo.La dinamica
guerrigliera ha paura solo del vuoto. Prevale nelle nuove guerriglie una
logica darwiniana, i più feroci, i più abili resistono, gli altri
scompaiono. I vietcong combattevano per compagnie e battaglioni, oggi
basta un pugno di armati o di kamikaze per dimostrare, giorno dopo
giorno, al Forte la permanente capacità di nuocere.
Dopo Falluja nel
2004 la guerriglia rifiuta di tenere un territorio e di occuparsi delle
popolazioni che vivono nei loro santuari. Il guerrigliero, come Paride,
combatte a distanza, è più che mai senza volto: sabotaggi, cecchini,
booby traps, mine, autobomba. Il timore dell’attentato e
dell’infiltrazione fa nascere un nuovo urbanismo militare che neppure
l’apocalittico teorico della guerriglia urbana, l’italo brasiliano
Carlos Marighella, aveva sognato. È il tempo dei check point, muri anti
bomba, delle «zone di sicurezza», ghetti di lusso e di calma nel cuore
della insurrezione; simbolo della impotenza dell’Occidente di fronte
alla guerriglia nuova. Il ribelle voleva appunto separare l’occupante
dalla popolazione: c’è riuscito.
La nuova guerriglia ha spezzato
quella che si immaginava come l’era occidentale della vittoria
permanente: non più umiliazioni dunque, l’Afghanistan russo, il Vietnam
di francesi e americani, grazie a una supremazia militare fatta di spese
senza limiti e innovazione permanente. Ma non sbagliava Nietzsche:
«Niente è più logorante di una vittoria senza fine». I rapporti tra il
Debole e il Forte sono in continua evoluzione; e nasce, ancora, la
domanda insidiosa; sono loro davvero così deboli e siamo noi realmente
così forti?
I nuovi Barbari, nel sud del mondo caotico e
incontrollabile, composto da arcipelaghi di miseria e Terrae Incognitae,
in preda una violenza senza regole, hanno iniziato a superare il Limes
fatto di stati cuscinetto, e sono in grado di colpire il cuore
dell’impero. Mentre noi discutevamo, oziosamente, dell’asimmetria della
guerra, un pulviscolo di rivolte corre dall’Africa sub-sahariana fino
all’Asia passando per il Medio Oriente, e posa la sua forza sul
risentimento per l’arroganza occidentale: l’insurrezione globale, la
guerriglia globale. La «nebbia della guerra» cara a Clausewitz non
sembra mai essere stata così spessa; dalle sabbie del Sahara alle
montagne dell’Afghanistan la perdita di efficacia della Potenza
classica, la nostra, mal impiegata, si svela impietosamente, militare e
politica. Eppure nulla è cambiato: nelle Silicon Valley della guerriglia
globale, in Afghanistan in Libano nel Mali in Somalia, «gli insorti»
continuano a rifiutare il combattimento che gli occidentali vogliono
loro imporre, spostando la lotta dove la forza e la tecnologia diventano
quasi inoperanti. I guerriglieri islamisti hanno ben imparato la
lezione dei maestri: il loro momento è quello della stabilizzazione,
quando nascono diverse forme di «resistenza molle» ma durevole contro
l’occupante - liberatore. Il Debole cerca soprattutto di sopravvivere,
poi di aggirare la potenza del Forte: non distruzione o conquista, ma
perturbazione. I nuovi ribelli hanno fatto, anche loro, una rivoluzione
militare, le armi portatili anticarro e antiaerei, ma soprattutto
l’aggiramento, nel tempo, della potenza della avversario approfittando
delle possibilità offerte dalla rivoluzione della informazione e della
contraddizioni di una mondializzazione molesta. Opposti a democrazie
avide di vittorie rapide, compromettere la stabilizzazione è già una
vittoria. Politicamente la superiorità tattica diventa vana, anzi la
sproporzione dei mezzi diventa fonte di disordine, nutre il sentimento
di ingiustizia di frustrazione l’odio: tutte armi del guerrigliero. La
famosa «conquista dei cuori e delle menti» non si adatta a un uso
indiscriminato della forza. L’America, la Nato, Israele occupano senza
controllare, senza avere i mezzi di sviluppare, rendere perenni l’azione
di sicurezza iniziale che pure sembrava così agevole. Sono guerre
«bastarde» che non possono che suscitare il rifiuto; in cui partire è
impossibile, restare lo è quasi altrettanto. Le guerre per estendere la
democrazia sembrano condannate a mutarsi in guerre di occupazione,
nell’era della comunicazione globale c’è una condizione che è peggiore
della sconfitta, è la non vittoria.
Il problema, oggi come ai tempi
della Vandea o dei partigiani antinazisti, è l’impossibilità di adattare
gli eserciti occidentali alla guerriglia. Eserciti costruiti su società
dinamiche, preparati meccanicamente per la vittoria veloce e
annientatrice. Il tempo della guerriglie è diverso: è lento, paziente,
infinitamente sospeso. I soldati americani come dice uno dei loro
strateghi Andrew Krepinevitch, «sono dei velocisti costretti a fare i
maratoneti».
Guerriglia scaltra e determinata
David Bidussa Domenicale 12 maggio 2013
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