Achille sogna Patroclo Il sonno più bello della storia dell'Occidente
lunedì 15 aprile 2013
Sogni letterari. Guidorizzi sul sogno nella Grecia antica
Guido Guidorizzi: Il compagno dell'anima. I greci e il sogno, Cortina
Achille sogna Patroclo Il sonno più bello della storia dell'Occidente
Pensiero cosciente e immagini emerse dal nulla: dall'epica di Omero all'interpretazione di Freud
Risvolto
"Chi è sveglio partecipa al mondo comune, chi
sogna si rifugia in uno suo proprio", diceva Eraclito. Ogni uomo
sperimenta l'alternanza di pensiero cosciente e di immagini
incontrollabili che il sogno fa emergere da un apparente nulla, e questo
lo pone davanti alla consapevolezza di muoversi tra due universi
paralleli organizzati con categorie diverse ma presenti nella mente di
ciascuno. Varia tuttavia il senso che ogni civiltà attribuisce
all'onirico. Non è un caso che nell'"Interpretazione dei sogni" Freud
abbia costruito la base della sua dottrina partendo da un antico sogno,
quello raccontato da Sofocle nell'Edipo re. Alle origini della cultura
occidentale, infatti, i greci svilupparono una vera e propria cultura
del sogno. Per loro la vita notturna non era marginale e poco
significativa, ma un messaggio capace di proiettarsi sulla vita
cosciente; ai sogni si chiedevano indicazioni su scelte da compiere,
oracoli, persino miracolose guarigioni. Questo libro parla delle
differenti funzioni dei sogni nella civiltà greca, sino alla tarda
antichità: dai sogni di Omero a quelli che progressivamente vennero
studiati da filosofi, scienziati, poeti. Con Platone il sogno diventa
ormai quello che sarà in seguito: l'inseparabile compagno dell'anima che
lo genera, il prodotto della sua parte più segreta.
Achille sogna Patroclo Il sonno più bello della storia dell'Occidente
di Pietro Citati Corriere 15.4.13
I sogni dei tempi omerici hanno una qualità straordinaria. Quelli dei
tempi moderni nascono dalla psicologia: fioriscono nell'ombra che ci
accompagna, rivelano le nostre ansie e i nostri dolori, rispecchiano la
tumultuosa complessità del nostro passato: mentre i sogni omerici
posseggono una vita autonoma, preesistono e sono estranei alla esistenza
dei sognatori. Così scrive Giulio Guidorizzi nella prima parte del suo
bel libro Il compagno dell'anima. I Greci e il sogno (Raffaello
Cortina). Abitano molto lontano da noi, presso la «rupe bianca» e le
«porte del sole», all'estremo occidente della terra, non lontano
dall'Ade. Il loro signore è il dio Ermes, che guida sia i morti sia i
sogni. Li conduce con la sua bacchetta d'oro, con la quale, quando
vuole, chiude gli occhi degli uomini, o li desta dal sonno. Guidati da
Ermes, essi sciamano, percorrono il mare e la terra e si introducono,
non sappiamo come, nelle menti degli uomini.
Chi legge l'Iliade o l'Odissea conosce la seconda qualità dei sogni
omerici. Sono compatti, fluidi, narrativi: si organizzano naturalmente
come racconti; a differenza dei sogni moderni, che sono un complesso di
frammenti suddivisi, spezzettati, disordinati, ai quali soltanto
l'interpretazione dello psicoanalista conferisce una architettura.
Qualcuno potrebbe obiettare che questa compattezza dipende dal fatto che
Omero li costruisce sapientemente con la ragione e quindi appartengono
alla coscienza.
In realtà, la luce dei sogni omerici non ha niente a che fare con quella
della ragione: è una forza molto più misteriosa, che opera nell'ombra,
ha tutte le proprietà elusive e ambigue dell'ombra, e una qualità
luminosa e divina, che ci rende chiari i particolari e i significati.
Credo che il sogno più bello della letteratura greca e occidentale sia
quello di Achille, nel ventitreesimo libro dell'Iliade. Achille stava
disteso sulla riva del mare, in un punto sgombro da navi, e gemeva dal
profondo del petto. Quando il sonno lo prese, lo avvolse dolcemente,
sciogliendo le pene del suo cuore e delle sue membra. All'improvviso,
gli apparve l'ombra di Patroclo: simile a lui in tutte le cose, la
statura, gli occhi bellissimi, la voce, gli abiti. Come fanno i sogni,
gli rimase sospeso sopra la testa. Poi prese a parlargli: «Tu dormi,
Achille, e ti dimentichi di me. Non ti scordavi di me quando ero vivo,
ma ora che sono morto ti scordi di me. Sono disteso fuori dal portale
dell'Ade e le altre ombre non mi permettono di unirmi a loro oltre il
fiume. Dammi sepoltura al più presto, in modo che anch'io possa passare.
Quando mi avrai onorato col fuoco, non tornerò più dall'Ade. Mi ha
ghermito la morte odiosa e non staremo mai più insieme, appartandoci dai
nostri compagni, a discutere piani e progetti, come quello di
conquistare Troia da soli. Presto la morte afferrerà anche te, per mano
di un dio e di un troiano».
«Ma ti prego di un'altra cosa» continuò l'ombra di Patroclo. «Siamo
cresciuti fin da bambini nella stessa casa, dove mi ospitò tuo padre,
Peleo: e tu non mettere le tue ossa divise dalle mie; la stessa anfora
d'oro, quella che ti ha dato tua madre, accolga insieme le nostre ossa».
Di rimando gli disse Achille. «Certo io farò tutto per te e mi
comporterò come desideri. Ma avvicinati a me. Abbracciati almeno per un
istante, gustiamo insieme il piacere del pianto amaro». Achille distese
le braccia attorno all'ombra di Patroclo: ma non poté stringerla al
petto: il mondo dei vivi è totalmente diverso da quello dei morti; noi
non possiamo abbracciare le persone morte che amiamo, come apprenderà
anche Ulisse nell'Ade, cercando inutilmente di abbracciare la madre.
Stridendo, l'ombra di Patroclo discese come fumo sotto la terra.
Achille si svegliò stupito, batté le mani una contro l'altra, e disse:
«Ah, esiste anche nell'Ade l'ombra e la parvenza. Ma non è vita. Tutta
la notte mi è stata accanto l'ombra di Patroclo, in tutto simile a lui:
piangeva e gemeva e mi ha comandato molte cose, una per una». Così
finiscono spesso i sogni, osserva Guidorizzi: nel momento culminante,
con un desiderio incompiuto, nel passaggio dal sonno alla veglia. La
immagine di Patroclo è certo un sogno: ma è al tempo stesso una realtà
oggettiva, un'ombra insepolta presso le porte dell'Ade, che viene
risospinta dalla realtà dei vivi a quella dei morti. Non possiamo dire
se l'immagine di Patroclo svanisca perché Achille si risveglia o fugga
via perché l'apertura che connette i vivi e i morti si è improvvisamente
chiusa per qualche misteriosa ragione.
* * *
Questi sogni, che provenivano da lontano, guidati da Ermes, non erano
visioni isolate, ma facevano parte di uno stesso sistema di segni. Come
diceva Sinesio, un tardo neoplatonico, essi erano connessi tra loro in
un grande libro: una catena di significati legava tra loro tutte le
manifestazioni del cosmo secondo leggi ignote ai più, ma non per questo
meno esatte. «Tutte le cose — scriveva Sinesio — sono collegate per
parentela le une alle altre, affratellate in quell'unico organismo
vivente che è l'universo». Grazie alla rivelazione onirica possiamo
scavalcare le barriere che separano l'alto e il basso, il mondo divino e
quello umano, quello passato e quello futuro: le anime che popolano il
giardino del mondo si avvicinano: possiamo sognare per conto di altri,
sognare insieme a un altro lo stesso sogno; e vedere in sogno ciò che un
altro vede nella veglia. A questo punto la rivelazione onirica è un
punto d'incrocio tra realtà differenti. Ma chi promuove questi incontri?
La stessa fittissima e foltissima realtà dell'universo? O c'è un
meraviglioso burattinaio — un dio o un demone — che gioca con i nostri
sogni, si diverte a tessere tele vaste e incomprensibili?
Nella Grecia del tardo arcaismo si sviluppò l'idea che qualsiasi
rappresentazione mentale — non solo quelle oniriche, ma tutte le altre
forme di emozione e di riflessione — fossero il prodotto di una entità
invisibile, racchiusa dentro ogni essere umano, chiamata anima (psyché).
L'anima diventò così il vero io, e Socrate diceva che «bisogna
prendersi cura di lei più di ogni altra cosa». Da quel momento il sogno
diventò il compagno dell'anima, come scrive Giulio Guidorizzi: un
compagno segreto ma inseparabile. La sua esperienza era quella
dell'anima in sé stessa e per sé stessa, senza che il corpo ne fosse
coinvolto; ed era la prova certa che essa ha in sé «qualcosa di divino».
Quando il corpo giaceva come morto nel sonno, l'anima si ridestava. La
rivelazione onirica non aveva dunque nulla a che fare con la coscienza.
Durante il sonno si attivava una parte profonda dell'essere umano: ciò
che l'anima vedeva mentre il corpo era addormentato, appariva come un
ritorno alle origini: alle sue origini. «Quando dorme — scrisse Eschilo —
la mente scintilla di mille occhi, mentre di giorno gli uomini sono di
vista corta». Se il corpo riposava — disse un medico del sesto secolo
a.C. — l'anima sveglia conosceva tutto, vedeva ciò che va visto, udiva
ciò che va udito, camminava, provava dolore, provava ira, ricordo e
amore.
Allora l'anima ascoltava voci prodigiose: un'aura amena circondava il
suo letto: percepiva odori soavi: scorgeva una luce meravigliosa; le
figure sacre apparivano maestose e benevole, perfette nella loro
bellezza. Poi, all'improvviso, il corpo si risvegliava: l'anima si
addormentava; e l'epifania divina si dissolveva, lasciando dietro di sé
la delusione dell'abbandono.
* * *
Passarono molti secoli. Alla fine del diciannovesimo secolo e al
principio del ventesimo, Freud e Jung tornarono, come i greci, a
occuparsi sopratutto dei sogni, come se fossero l'unica strada per
scoprire la verità. Nel 1897 Freud cominciò a scrivere L'interpretazione
dei sogni, con una passione, un furore e un invasamento poetico, che
uno scienziato non ha mai conosciuto. Lavorava dieci ore al giorno. Poi,
nelle ore notturne, dalle undici alle due, restava nello studio, al
pianterreno della sua casa, a fantasticare, congetturare e interpretare.
L'interpretazione dei sogni è percorsa da una fitta serie di citazioni e
di allusioni letterarie, Sofocle, Virgilio, Shakespeare, Goethe, che
rivelano come l'immersione onirica risvegliasse il fortissimo senso
mitico di Freud. Queste citazioni — non i discorsi e le definizioni
intellettuali — hanno il compito di esprimere la sua intuizione
dell'inconscio. Freud scese nelle tenebre, nell'abisso, negli inferi,
nel regno dell'Acheronte, dove abitavano gli dei della notte. Erano gli
unici dei che egli potesse conoscere: lì viveva il numinoso, il
tremendum, l'indimenticabile e l'indistruttibile, verso il quale provava
un'infinita venerazione e un infinito terrore. La sua via era segnata.
Come l'archeologo, doveva discendere strato per strato, dissotterrando
la città sepolta, fino all'ultima Troia: come il minatore, doveva
scavare pozzi sempre nuovi, nei quali incontrare i pensieri del sogno.
Il fatto paradossale è che questa intuizione mitico-sacra dell'inconscio
resta confinata nelle allusione letterarie dell'Interpretazione dei
sogni. Nei sogni, che Freud racconta e che in gran parte estrasse dalle
sue notti, manca quasi ogni traccia di mito e di numinoso e gli
innamorati delle grandi fantasie oniriche romantiche dovranno cercare
altri testi: Jean Paul, Nerval o Jung. I sogni di Freud sono composti di
microscopici frammenti, di unità impercettibili, di minime tessere, che
poi l'inconscio incastra fra loro, fino a formare un conglomerato
ingegnoso. Così leggendo L'interpretazione dei sogni, il brivido oscuro
che ci aveva lasciato il dio della notte scompare o viene modificato. Il
dio dell'inconscio assomiglia a delle figure che incontriamo
continuamente nella vita del giorno: un tessitore davanti al suo telaio,
un artigiano che compone mosaici o tarsie, un giocatore di scacchi che
calcola i movimenti delle sue pedine e persino un cinico truffatore,
tanto mente, si maschera ed è privo di scrupoli. La sua attività è
formale e combinatoria: mentre Freud lo spia, eccolo lì che lucidamente,
geometricamente, con una regolarità e una precisione da orologio,
occulta, omette, condensa, traduce, deforma, trasforma, sposta... Che il
tremendo dio dell'Acheronte si comporti come un meticoloso artigiano,
questa è la grande scoperta che Freud insegnò al secolo che inaugurava.
* * *
La rappresentazione greca del sogno, anche quella dei tempi più tardi,
che Guidorizzi analizza con grande intelligenza, è molto più vasta,
libera, mobile e polimorfa di quella degli psicologi moderni. Sia Freud
sia Jung hanno consumato, sia pure in modi diversi od opposti,
un'immensa quantità di inconscio: ma alla fine questo inconscio è stato
trasformato, razionalizzato, spesso falsificato; e nei loro scritti
resta pochissimo inconscio autentico. Per fortuna, la mente umana è
stata salvata dai grandi scrittori, come Proust e Kafka, che percorsero
la strada opposta a quella di Freud e di Jung.
Tutte le profondità della terra, le città sotterranee, le caverne
incalcolabili, tutto il regno dell'ombra deve essere portato, Proust lo
ripete mille volte, alla «piena luce». Quando era giovane aveva scritto:
«Se il poeta percorre la notte, che sia come l'angelo delle tenebre,
portandovi la luce». Ma qualsiasi illuminazione dell'inconscio, Proust
lo sa egualmente bene, è estremamente rischiosa, perché l'intelligenza
può cancellare e disseccare l'ombra, che dà profondità e vastità alla
letteratura e all'esistenza. Quando viene alla luce, l'ombra deve
riconoscere la sua vita, il suo abisso, il suo velluto, il suo setoso
geranio. In un brano abolito della Recherche, Proust espose il proprio
programma: era necessario che le parti inconsce dell'io conoscessero
direttamente sé stesse, senza passare attraverso la coscienza,
diventando riflettenti, «come ha fatto la nostra carne sotto la fronte,
là dove si è trasformata in occhio».
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