domenica 19 maggio 2013

Il dibattito sulla crisi dell'Europa a partire da Balibar


SINDROME EUROPEA
La «rottura» della cittadinanza
L'Ue che conosciamo è solo un'isola di benessere per élite. Per uscire dalle sabbie mobili del Vecchio Continente è necessaria una «campagna costituente» che sappia trasformare le istituzioni in forze alternative che non siano semplici assemblaggi di poteri

ARTICOLO il manifesto 2013.05.17 - 10 CULTURA Sandro Mezzadra

Étienne Balibar ha perfettamente ragione («Una crisi esplosiva di sistema», il manifesto del 4 maggio): dobbiamo «porre da subito il problema di una rifondazione dell'Unione, in vista della costruzione di un'altra Europa». Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia «da subito» sia «rifondazione». Si deve agire ora, e quest'azione non può dare per scontata né l'esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere come riferimento.
Serve, su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e «indignazione» sociali verso l'obiettivo di «costruire un'altra Europa», producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna costituente, dicevo: non una campagna per un'«assemblea costituente», per la quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. È necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo futuro non possa che essere costruito su scala continentale.
Dovremmo essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi in Europa. È evidente che la messa in discussione di consolidate gerarchie spaziali e l'affermazione di nuove geografie dello sviluppo e dell'accumulazione capitalistica figurano in primo piano tra le tendenze che sottendono l'attuale crisi economica globale. Nuovi regionalismi e nuovi modelli di multilateralismo stanno prendendo forma in molte parti del pianeta, una sorta di «deriva dei continenti» (per riprendere l'immagine geologica impiegata da Russell Banks nel famoso romanzo omonimo del 1985) sta ridisegnando il mondo. All'interno di questi processi, l'Europa è sempre più «provincializzata», anche se non necessariamente nel senso suggerito da Dipesh Chakrabarty nel suo importante libro del 2000.
Limiti dell'appartenenza
Di per sé, non è un male. Tutt'altro. Ma per cogliere e interpretare politicamente le opportunità connesse a questa provincializzazione dell'Europa abbiamo bisogno di una scala continentale di azione politica e di governo. Abbiamo bisogno di un'Europa politica. Al di fuori di quest'ultima, la prospettiva è quella di un'Europa ridotta a qualche isola di benessere e ricchezza in un mare di povertà e privazione: cosa che abbiamo già iniziato a sperimentare nel Sud del nostro continente. Inoltre solo su scala continentale è possibile immaginare la costruzione di un rapporto di forza favorevole con il capitale finanziario, il cui dominio all'interno del capitalismo contemporaneo è alla radice della crisi di ogni mediazione politica (ovvero della democrazia) oggi così evidente in Europa.
Non è questo il luogo per analizzare a fondo le implicazioni dello sguardo «geopolitico» sulla questione europea (il che significherebbe in particolare discutere su basi completamente nuove il problema delle relazioni tra Europa e Stati Uniti). Ma è importante tenere a mente la pertinenza degli argomenti qui appena evocati per qualsiasi indagine critica sull'attuale situazione europea. Nel seguito di questo breve intervento, in ogni caso, voglio concentrarmi su qualcos'altro. Parlare di una campagna costituente significa prendere in considerazione la necessità di una rottura allo scopo di aprire la via a un'«altra Europa».
Penso sia importante essere consapevoli, in questo senso di quanto profonda sia la rottura che è già stata prodotta all'interno della stessa struttura delle istituzioni europee nel contesto della crisi globale. Faccio parte di coloro che a partire dalla metà degli anni Novanta hanno cercato di lavorare «dentro e contro» la cittadinanza europea in formazione, soprattutto per quel che riguarda i movimenti e le lotte dei migranti. Non si tratta certamente di liquidare in modo sbrigativo quell'esperienza, che è stata anche accompagnata da importanti dibattiti teorici, nel tentativo di sfidare i limiti e i confini della concezione tradizionale della cittadinanza. Al tempo stesso, non si può evitare di fare un bilancio delle radicali trasformazioni che negli ultimi anni hanno investito la cittadinanza europea. Sia dal punto di vista dell'«appartenenza» che dell'architettura istituzionale - per richiamare i due punti di vista prevalenti negli studi sull'argomento - ci troviamo di fronte a una profonda crisi della cittadinanza europea.
Per dirla brutalmente, questo concetto è stato spogliato di qualsiasi significato «positivo» e «progressivo» agli occhi di una vasta maggioranza della popolazione europea, e in particolare in Paesi come la Grecia, la Spagna, l'Italia essa ha finito per essere ampiamente identificata con la continuità delle politiche di austerity e con il loro carattere «punitivo». Allo stesso tempo, come molti giuristi hanno notato, l'intero progetto di «integrazione attraverso il diritto», tratto distintivo dell'integrazione europea nel suo complesso, si è trovato di fronte ai propri limiti e alle proprie contraddizioni degli ultimi anni. L'equilibrio tra un sovra-nazionalismo giuridico e i processi politici di negoziazione, alla base di quel progetto, è stato destabilizzato: la processualità giuridica è stata sempre più nettamente caratterizzata da una dinamica autonoma, collegandosi in modi inediti con gli apparati burocratici europei e con una molteplicità di gruppi d'interesse.
Ne è emersa la cristallizzazione di un nuovo «assemblaggio» di potere capace di dettare standard e norme che restringono sempre di più il campo d'azione di qualsivoglia politica («europea» non meno che «nazionale»). Con il Fiscal Compact e con il Meccanismo Europeo di Stabilità, la camicia di forza della stabilità monetaria, i programmi di disciplina fiscale e la continuità dell'austerity si sono ulteriormente rafforzati, consolidando la posizione (e l'indipendenza) della Banca Centrale Europea al centro di questo «assemblaggio» di potere.
È difficile immaginare un'altra Europa politica senza porre l'accento sulla necessità di strappare questa camicia di forza e di spezzare questo «assemblaggio» di potere. «Default democratico» (Giandomenico Majone), «crisi di legittimità» (Fritz Scharpf), ulteriore rafforzamento della natura «elitaria» e «post-democratica» dell'Ue (Wofgang Streeck) sono alcune delle formule che circolano nei dibattiti sulla crisi europea nel tentativo di cogliere le implicazioni della rottura a cui si è fatto cenno - della soluzione di continuità che si è prodotta all'interno del processo di integrazione.
Lavoro vivo
Se nel concetto moderno di democrazia, per riprendere i termini proposti in un celebre saggio di Étienne Balibar, è iscritta una dialettica tra la dimensione «insurrezionale» e la dimensione «costituzionale» della politica, si deve riconoscere che oggi in Europa (sia a livello nazionale sia a livello di Ue) questa dialettica sembra essere interrotta. Quel che ne consegue è una divisione che attraversa gli stessi concetti di politica e democrazia. I loro momenti conflittuali e «insurrezionali» continuano a riprodursi all'interno delle lotte e dei movimenti sociali, ma essi non trovano nessun tipo di feedback all'interno delle istanze governative e «costituzionali». Quello che rimane a livello nazionale della «democrazia conflittuale» (citando nuovamente una formula di Balibar) su cui si è fondato lo sviluppo dello Stato sociale democratico è al momento in fase di smantellamento o comunque sotto attacco, mentre a livello europeo non c'è nessun tentativo di compensare questa «perdita» con l'edificazione di nuovi sistemi di welfare su scala continentale. Anche quanti avevano creduto che il Trattato di Maastricht avrebbe posto le basi per uno «scambio» di questo genere sono oggi costretti a ricredersi.
Inutile dire che questo tema dovrebbe essere prioritario nella «campagna costituente» che si tratta di avviare. E non è possibile immaginare una ricostruzione dei sistemi di welfare a livello europeo secondo il modello del welfare state «storico», quale lo abbiamo conosciuto in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Troppe cose sono cambiate, e radicalmente, nella struttura del capitalismo e nella composizione di ciò che, con un concetto marxiano, possiamo chiamare il «lavoro vivo» contemporaneo. Basti pensare ai dibattiti sulla precarietà, sulle nuove caratteristiche delle migrazioni o, per limitarci a un unico ulteriore esempio, sulle trasformazioni della struttura famigliare e dei rapporti tra i generi. Attorno a queste e altre questioni, si sono sviluppati con straordinaria continuità movimenti e lotte sociali in tutto il continente: nessuna campagna per un'«altra Europa» è immaginabile senza un'intensificazione e un sempre maggiore coordinamento di queste lotte e di questi movimenti.
Lo scoglio della sinistra
«Non essere stata in grado di definire e di promuovere una solidarietà europea è la ragione del fallimento della sinistra in Europa», scrive Bo Strath commentando l'articolo di Balibar (cfr. www.opendemocracy.net/) . Non potrei essere più d'accordo. Vorrei tuttavia aggiungere che questo «fallimento» è a sua volta legato alla miopia della sinistra di fronte alle profonde trasformazioni subite dal lavoro, nonché alle rivendicazioni emergenti da una composizione sociale anch'essa profondamente innovata. L'Europa può avere un senso solo se la si costruisce come uno spazio all'interno del quale queste rivendicazioni possano essere articolate in un progetto politico capace di essere al contempo radicale ed efficace. Solo se diviene uno spazio in cui la lotta contro la povertà, lo sfruttamento e la discriminazione ha più possibilità di successo, in cui è più facile distruggere la paura inoculata e disseminata dalla crisi all'interno del tessuto sociale. Lottare contro il «ritorno dei nazionalismi» e l'ascesa di nuove forme di fascismo in Europa significa prima di tutto lottare per sradicare questa paura.
Quando parlo di una «campagna costituente» non penso a un'unica campagna organizzata centralmente. Ciò di cui abbiamo bisogno è in primo luogo forgiare uno «spirito costituente» attraverso una molteplicità d'iniziative, articolate su diversi livelli e capaci di investire diversi luoghi e forum (dalla mobilitazione di piazza al Parlamento europeo). Ecco perché, ottimisticamente forse, scrivevo di un progetto di durata decennale. Mi rendo perfettamente conto che le prospettive per un progetto del genere, in questo preciso momento, non appaiono particolarmente incoraggianti. Esso dipende, per citare ancora l'articolo di Balibar da cui ho preso le mosse, da «molte condizioni, tutte difficili e il cui adempimento è improbabile».
È un monito essenziale rispetto alla difficoltà del compito che ci spetta: ma nulla dice (e Balibar lo sottolinea) contro la realistica necessità di farsene collettivamente carico. In fin dei conti potremmo concludere ricordando, con un po' di necessaria ironia, le parole di Max Weber, uno che di «realismo politico» se ne intendeva: «è senz'altro vero che non si raggiungerebbe il possibile se nel mondo non si tentasse sempre di nuovo l'impossibile».

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SCAFFALE
Da OpenDemocracy ai movimenti

Il testo di Etienne Balibar è stato pubblicato inizialmente sul quotidiano francese «Liberation». Il giorno dopo, d'accordo con l'autore, è stato pubblicato sul «manifesto» (4 maggio). Successivamente è uscito anche su quotidiani tedeschi, greci, spagnoli, mentre il sito «OpenDemocracy» ha aperto una sessione dedicati ai temi sviluppati dal filosofo francese (l'articolo di Sandro Mezzadra ha aperto questa nuova «sezione» del sito dedicata all'Europa). In quell'articolo Balibar illustrava lo stato dell'Unione europea dopo la stagione del governo dei tecnici (qualificata dal filosofo francese come una «rivoluzione dall'alto»). Balibar invita a prendere nuovamente le fila di un ordine del discorso «europeista» (ma sarebbe più corretto chiamarlo come un «cosmopolitismo radicale») che sfugga alla gabbia d'acciaio dell'austerità costruita dalla troika per mettere in salvo un neoliberismo in crisi di legittimità.
                                                                      

EUROPA
Una esplosiva crisi di sistema
COMMENTO - Etienne Balibar il manifesto 2013.05.04 - 01 PRIMA PAGINA


E ancora una volta, allarme generale! La vecchia «coppia» franco-tedesca, motore o freno a seconda dei pareri, è sull'orlo dell'implosione. Va detto ai nostri vicini quel che si meritano, anche se stanno per diventare i nostri padroni, o dobbiamo iniziare a pensare per noi, ad accettare i compromessi che dovrebbero evitare il peggio? Credo che sarebbe meglio capire che cosa stia succedendo rispetto all'ensemble europeo, le cui componenti, tutte, insieme si sgretoleranno o si salveranno. La costruzione europea si è bloccata sull'ostacolo del bilancio. Per l'opinione pubblica, è screditata. Ciononostante esiste un sistema politico unico, né nazionale né davvero federale, ma che accumula gli effetti negativi di ogni livello e che ormai comanda tutto. Risulta chiaro, osservando le recenti evoluzioni d'Italia e Francia.
L'Italia sta pagando, con un'ingovernabilità apparentemente irreversibile, la somma degli anni del berlusconismo e della «rivoluzione dall'alto» che sotto le ingiunzioni di Bruxelles e Francoforte ha portato al governo una squadra di tecnocrati strettamente legati alla grande banca internazionale. Cerca di cavarsela, con un'evoluzione dal parlamentarismo al presidenzialismo, ma il tentativo si compie attraverso un'unione nazionale fittizia, orfana di qualunque base popolare. La Francia, che le istituzioni della V Repubblica si dice salvaguardino dall'instabilità, ne subisce anche l'altra faccia. Eletto sulla promessa d'invertire lo sviluppo dell'insicurezza sociale, senza per questo potere, o volere, entrare in conflitto con un capitalismo finanziario che controlla ogni iniziativa, il Presidente Hollande è ridotto all'impotenza. Dato il fallimento dei suoi tentativi di essere all'altezza, federando «l'Europa latina» o trascinando i vicini in una guerra per combattere il terrorismo in Africa, non può che oscillare tra impopolarità e «sanzione» dei mercati, a rischio d'incappare in entrambi. Ingovernabilità da un lato, immobilità dall'altro: si chiama crisi di sistema.
Beninteso, la crisi ha, ogni volta, origini nazionali. Deriva però anche da condizioni europee e porta con sé conseguenze per l'Europa intera che, inevitabilmente, l'aggraveranno se non verrà attuata una soluzione d'insieme. Non tocca, oggi, solo le «periferie», ma due Paesi fondatori della comunità, i più potenti dopo la Germania. Dato il fallimento del ricorso alle istituzioni federali, poiché di fatto nessuno Stato lo voleva, le politiche continuano a essere decise unicamente in funzione dei rapporti di forza tra nazioni. È paralisi assicurata, se non l'esplosione. E i popoli che si allontanano dall'Unione ne saranno le prime vittime. Di questa situazione è importante capire le cause, se vogliamo delineare delle vie d'uscita. Sottolineerò due cause fondamentali. La prima si limita a una parola: disuguaglianze galoppanti. Sono innanzitutto sociali, non risparmiano nessun Paese (neanche la Germania), ma sono distribuite in modo altrettanto disuguale tra le regioni e gli Stati: una sorta di disuguaglianza nella disuguaglianza che la crisi ha drammaticamente aggravato, sottoponendo alcuni Paesi del Mediterraneo a una violenza simile a quella della guerra. Quest'esplosione della società è il contrario degli obiettivi proclamati dall'Unione. È inverosimile che i sistemi di rappresentanza vi resistano a lungo ed è irrisorio pensare che sia possibile rifondare la politica comunitaria senza rimediarvi con misure di salute pubblica. Il che ci porta alla seconda causa: il ritorno dei nazionalismi , cui oggi non sfuggono né i «dominanti», né i «dominati». Probabilmente il «progetto europeo» aveva sottovalutato la resistenza del nazionalismo, non solo per un fattore culturale, o per l'impronta delle grandi tragedie del Ventesimo secolo, ma per il fatto che le sicurezze e le solidarietà sociali si erano tutte costruite per mezzo della coesione nazionale. Di certo, però, la deriva dell'Europa verso un'unione monetaria al servizio di un ordine economico puramente concorrenziale ha scatenato al proprio interno la guerra di tutti contro tutti, dove i più forti schiacciano i più deboli, prima di ritrovarsi esposti allo choc di una globalizzazione di cui saranno solo le pedine. Contro evoluzioni di questo genere non ci sono rimedi facili, poiché è necessario che concorrano opinioni oggi ostili e l'inversione di tendenze che sono state sacralizzate. Motivo in più per porre da subito il problema di una rifondazione dell'Unione, in vista della costruzione di un'altra Europa. Questa - come giustamente sottolinea nel suo ultimo libro Ulrich Beck (da poco pubblicato in Italia da Laterza con il titolo Europa Tedesca , n.d.r - può nascere solo «dal basso» o da uno sviluppo senza ostacoli delle iniziative cittadine, che si estendono dal dibattito alla protesta e anche all'indignazione suscitata dagli effetti della crisi. E a condizione che non scivoli a sua volta verso il nazionalismo vittimario, ma si riveli capace di proporre alternative che abbiano un senso per la maggioranza dei cittadini del continente. Probabilmente sarebbe anche necessario che nascesse una leadership storica, una proposta politica udibile da tutti e da ciascuno nella propria lingua. Qualcuno ha evocato un New Deal europeo. Di certo, non lo aspetteremo da Angela Merkel. Ipotizzo però che debba arrivare dalla Germania, o ritrovarvisi sostituita, non in quanto «centro», ma poiché il primo dovere è quello di convincere la massa dei cittadini tedeschi a scambiare i benefici (relativi) che traggono dalla crisi e i vantaggi (provvisori) della loro superiorità economica con un interesse collettivo a lungo termine. Il che pone molte condizioni, tutte difficili e il cui adempimento è improbabile. Proprio per questo ho qui voluto insistere su quanto siano necessarie.

Traduzione di Marta Albertella Il testo del filosofo francese è stato scritto per il quotidiano francese Liberation, ma uscirà per volontà dello stesso autore, oltre che su «il manifesto, anche sul sito OpenDemocracy. L'obbiettivo è di rilanciare una discussione pubblica sullo stato dell'Unione europea.

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