Alla fine di un dibattito che ha attraversato l'intero Novecento, il significato ultimo della nozione di "teologia politica" continua a sfuggirci. Nonostante i tentativi di venirne a capo, parliamo ancora il suo linguaggio, restiamo ancora nel suo orizzonte. Il motivo, per Roberto Esposito, sta nel fatto che la teologia politica non è né un concetto né un evento ma il perno intorno al quale ruota, da piú di duemila anni, la macchina della civiltà occidentale. Al suo centro vi è l'articolazione tra universalismo ed esclusione, unità e separazione.
lunedì 27 maggio 2013
L'uno si divide in due. Il nuovo libro di Roberto Esposito sulla teologia politica
Roberto Esposito: Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, pagg. 234, euro 21
Risvolto
Alla fine di un dibattito che ha attraversato l'intero Novecento, il significato ultimo della nozione di "teologia politica" continua a sfuggirci. Nonostante i tentativi di venirne a capo, parliamo ancora il suo linguaggio, restiamo ancora nel suo orizzonte. Il motivo, per Roberto Esposito, sta nel fatto che la teologia politica non è né un concetto né un evento ma il perno intorno al quale ruota, da piú di duemila anni, la macchina della civiltà occidentale. Al suo centro vi è l'articolazione tra universalismo ed esclusione, unità e separazione.
Alla fine di un dibattito che ha attraversato l'intero Novecento, il significato ultimo della nozione di "teologia politica" continua a sfuggirci. Nonostante i tentativi di venirne a capo, parliamo ancora il suo linguaggio, restiamo ancora nel suo orizzonte. Il motivo, per Roberto Esposito, sta nel fatto che la teologia politica non è né un concetto né un evento ma il perno intorno al quale ruota, da piú di duemila anni, la macchina della civiltà occidentale. Al suo centro vi è l'articolazione tra universalismo ed esclusione, unità e separazione.
La tendenza del Due a farsi Uno attraverso la subordinazione di
una parte al dominio dell'altra. Tutte le categorie filosofiche e politiche
che adoperiamo, a partire da quella, romana e cristiana, di
persona, riproducono ancora questo dispositivo escludente. Perciò
il congedo dalla teologia politica - in cui risiede il compito della filosofia
contemporanea - passa per una radicale conversione del nostro
lessico concettuale. Solo quando avremo restituito al pensiero
il suo "posto" - relativo non al singolo individuo ma all'intera specie
umana - potremo sfuggire alla macchina che da troppo tempo imprigiona
le nostre vite.
Ateologia politica
“Basta con quel pensiero che ci tiene prigionieri”
Intervista a Roberto Esposito che in un libro affronta il rapporto tra religione e potere Contro una tradizione che ha identificato il debito con una colpa personale
Intervista di Leopoldo Fabiani Repubblica 27.5.13
«Tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati ». La
celebre definizione di Carl Schmitt ha segnato per tutto il Novecento la
riflessione filosofica sulla politica. “Teologia politica” è divenuto
così un paradigma irrinunciabile per comprendere non solo i rapporti tra
potere e religione, tra Stato e chiesa, ma tutta l’evoluzione della
civiltà occidentale.
Ma “teologia politica” è anche una “macchina” di pensiero dentro la
quale siamo da sempre imprigionati. La “cattura” non riguarda solo le
menti ma, nell’era della biopolitica, anche i corpi, per mezzo del
debito, figura centrale della “teologia economica”. È arrivato il
momento di liberarcene. Questo è il tema dell’ultimo libro di Roberto
Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del
pensiero (Einaudi, 234 pagine, 21 euro) che esce in questi giorni. Un
testo che mentre ricostruisce la genealogia di questa categoria
concettuale, ne mina allo stesso tempo le fondamenta. E sostiene che se
vogliamo uscirne non si tratta solo di abbandonare una millenaria
tradizione di pensiero, ma anche di ritrovare le ragioni profonde del
vivere insieme in una collettività.
Professor Esposito, l’idea della fede come “instrumentum regni” è solo
funzionale a una ideologia conservatrice o nasconde qualcosa di più
profondo?
«L’idea che senza valori religiosi dominanti non si tenga insieme una
società non è solo degli “atei devoti” come Giuliano Ferrara. Anche
pensatori raffinati come Massimo Cacciari o Mario Tronti credono che il
riferimento alle radici teologiche sia decisivo. Ecco dimostrato, se ce
ne fosse bisogno, quanto sia persistente e pervasivo questo modo di
pensare».
Altri però ritengono che viviamo nell’era della secolarizzazione, del relativismo, della morale “fai da te”.
«Ma questo non significa affatto che ci siamo “liberati”. Categorie come
“secolarizzazione”, “disincanto” “ateismo” sono concetti teologici
negativi o rovesciati. Esistono solo all’interno di quell’orizzonte che
si vorrebbe invece oltrepassare».
Possiamo fare un esempio di qualche concetto “teologico” operante nell’attualità politica di questi giorni?
«Se ne possono fare molti, pensiamo al dibattito recente sul
presidenzialismo. Si è sostenuto che siamo una società che non può fare a
meno della figura del padre. Ora, l’azione del presidente Napolitano è
stata un bene per tutti, ha trovato soluzioni, ha sbloccato una
situazione che era arrivata alla paralisi. Sul piano simbolico però c’è
qualcosa che non va. Perché la democrazia non deve essere un regime di
“figli”, bensì di “fratelli”. Non è vero che abbiamo bisogno di un
riferimento superiore, trascendente».
Ma in cosa consiste il meccanismo oppressivo che lei attribuisce alla teologia politica?
«È una tradizione di pensiero che taglia in due le nostre vite. Che
tende a realizzare l’unità attraverso l’emarginazione di una delle
parti. Che esclude mentre pretende di includere. L’uguaglianza,
storicamente, è stata sempre “tagliata”: tra bianchi e neri, uomini e
donne. Ecco, l’Occidente che sottomette il resto del mondo, la
globalizzazione che impoverisce tante parti di umanità».
Secondo lei è giunto il momento di uscire da questo “dispositivo” che ci
ha catturati e impedisce un’autentica libertà di pensiero. Ma come è
possibile riuscirci?
«Non è certo un compito facile, al contrario, è difficilissimo. Io credo
che la cappa che ci tiene prigionieri e che dobbiamo provare a rompere,
sia fondata sul concetto di persona. Più precisamente, sull’idea che il
pensiero appartenga al singolo, all’individuo. Dopo Cartesio, ci pare
ovvio. Invece occorre tornare a una tradizione che da Aristotele
arriva a Bergson e Deleuze, passando per Averroè, Dante e Spinoza. È una
catena che risale all’antichità dove il pensiero è visto come un luogo
che tutti possiamo attraversare, un patrimonio cui tutti possiamo
attingere. Il primo e più importante, si potrebbe dire, dei beni
comuni».
Arriviamo alla “teologia economica” dove la parte centrale del suo ragionamento si svolge attorno all’idea di debito.
«Intanto pensiamo all’ironia di definire i debiti degli stati con
l’espressione “debito sovrano” (concetto, quello di sovranità
eminentemente teologico). Oggi, chiaramente, la sovranità non appartiene
più ai singoli stati, ma alla finanza».
Cosa c’è di teologico nel concetto di debito?
«Walter Benjamin definiva il capitalismo “l’unico culto che non purifica
ma colpevolizza”. L’origine teologica di questo concetto è chiarissima.
Se pensiamo che nella lingua tedesca la stessa parola significa sia
debito sia colpa, capiamo molte cose. Comprendiamo perché i tedeschi
vivano se stessi come virtuosi e considerino ad esempio i greci non solo
indebitati, ma anche colpevoli. Ma oggi, attraverso il debito pubblico,
siamo tutti indebitati».
Siamo tutti “prigionieri” del debito?
«Nietzsche diceva che il debito ci ha reso tutti schiavi gli uni degli
altri. E non solo in senso simbolico. Il cerchio biopolitico che lega il
corpo del debitore al creditore ha origini lontane. L’istituzione
romana del “nexum” consegnava il destino della persona indebitata al suo
creditore, che ne poteva disporre liberamente, per la vita e per la
morte. Il mercante di Venezia di Shakespeare pretende di essere ripagato
con una libbra di carne da chi non può farlo col denaro. Ma anche oggi
il debito si paga con la vita. Pensiamo agli immigrati che devono
ripagare per sempre con il lavoro chi gli ha prestato i soldi per uscire
dai loro paesi. Pensiamo ai suicidi per debiti».
Se siamo arrivati a questo punto non è solo frutto della “macchina” teologica, ci sono anche responsabilità più recenti.
«Senza dubbio tutto questo processo è stato agevolato dalla governance
liberale, attuata a partire dagli anni di Margaret Thatcher e Ronald
Reagan, che non ci ha affatto liberato, anzi. Ha trasformato il welfare
in un peso insostenibile, teorizzando il “Lightfare”, lo stato leggero. È
l’ideologia dell’“ognuno per sé” che ha portato alla crisi e reso il
99% della popolazione più povera».
Per liberarci come individui, lei sostiene, bisogna agire collettivamente.
«Io credo di sì. Il meccanismo di sviluppo va cambiato, dobbiamo tornare
a pensare agli investimenti socialmente utili, non al guadagno
personale. In questo ci aiuta il concetto di “communitas”. Che significa
avere in comune un “munus”, parola che originariamente significava al
tempo stesso debito e dono. Nelle società arcaiche il debito era vissuto
come un legame sociale. Essere comunità non significa cercare di
sopraffarsi uno con l’altro, ma sentirsi vincolati da un dono di
fratellanza».
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