martedì 21 maggio 2013

Un mondo nuovo


Asia emergente vertice a Delhi
India e Cina L’accordo dei giganti ridisegna il mondo

Sono un terzo degli abitanti e un quinto del Pil mondiale

di Ilaria Maria Sala La Stampa 21.5.13

Qualche anno fa si parlava di «Cindia» più con il piacere di coniare neologismi pop che non per una qualche fondatezza logica nella definizione. Oggi, che per fortuna l’espressione pare tramontata, sembra che l’incontro al vertice fra il Primo Ministro indiano Manmohan Singh e la sua controparte cinese Li Keqiang, possa essere un passo concreto verso la riduzione delle distanze tra le due nazioni più popolate dell’Asia, unite da una frontiera da sempre contestata, con un potenziale di scambi commerciali e sostegno politico reciproco mai realizzato per quanto in crescita. I due Paesi hanno meno in comune di quanto si possa credere e nutrono una diffidenza reciproca che diminuisce, sì, ma con lentezza.

Ieri, mentre alcuni gruppi di esiliati tibetani riuscivano a spezzare i cordoni di polizia per manifestare contro il Primo Ministro cinese, i due leader hanno firmato una dichiarazione congiunta che si ripromette di affrontare con minor belligeranza le dispute territoriali sull’Himalaya e di intensificare il commercio e gli investimenti fra i due colossi asiatici.

Il documento, che contiene otto punti, esordisce con l’accordo sul pellegrinaggio Kailash Mansarovar Yatra, che prevede la visita da parte di devoti indiani ad alcuni templi tibetani, e garantisce maggiori facilitazioni nel passaggio e nelle infrastrutture che i pellegrini potranno trovare lungo la via. Gli altri punti si concentrano sul miglioramento delle transazioni economiche e dell’import-export fra i due Paesi, maggiori traduzioni reciproche di classici letterari e, tema caro all’India, la promessa cinese di inviare quotidiane informazioni all’India sul livello delle acque nel fiume Brahmaputra, che nasce in Tibet (dove è chiamato Yarlung Zangpo) e che sarà presto parzialmente bloccato da tre nuove dighe in costruzione dal lato cinese. Un accordo che lascia inevasa la richiesta indiana di creare una «commissione sull’acqua» fra India e Cina, ma che crea maggiore comunicazione fra i due partner.
L’accordo firmato da Singh e Li in modo indiretto affronta alcune delle questioni più spinose: quella tibetana innanzitutto (il Dalai Lama è ospitato dall’India da quando, nel ’59, è scappato dal Tibet occupato). Si legge nell’accordo: «Le due parti non consentiranno che i loro territori siano utilizzati per attività nocive all’altro», ma «i due Paesi mantengono il diritto di scegliere la propria via per lo sviluppo politico, sociale ed economico in cui i diritti umani fondamentali hanno la posizione a loro dovuta». Rispetto all’economia c’è la promessa di raggiungere scambi per 100 miliardi di dollari Usa da qui al 2015 e l’affermazione che «India e Cina hanno un’opportunità storica per lo sviluppo economico e sociale e la realizzazione di quest’obiettivo farà avanzare la pace e la prosperità in Asia e nel mondo. C’è abbastanza spazio nel mondo per lo sviluppo dell’India e della Cina, e il mondo ha bisogno dello sviluppo comune dei due Paesi che saranno partner e non rivali», dice con ottimismo il documento.
Un dettagliato sondaggio dell’opinione pubblica indiana del Lowy Institute e dall’Australian India Institute pubblicato proprio ieri mostra parte degli ostacoli da superare: se non sorprende che il 94% degli indiani reputa il Pakistan una minaccia alla sicurezza interna, è di rilievo che l’84% di essi dichiarino che anche la Cina è una minaccia. Se il Paese più amato dagli indiani è l’America (e quello meno amato il Pakistan) l’amore per la Cina, su una scala di 10, arriva a 4. Ma forse il nocciolo delle differenze sta qui: secondo altri recenti sondaggi la maggior parte dei cinesi si dice soddisfatta di avere oggi uno stile di vita superiore rispetto a cinque anni fa, mentre il 95% degli indiani dichiara di essere felice di vivere in una democrazia.


Cina e India, patto per “il bene del mondo”


Accordi economici e per i confini contesi: “Una stretta di mano sull’Himalaya” RAIMONDO BULTRINI, la Repubblica | 21 Maggio 2013 

Commercio, banche e armamenti ora “Cindia” spaventa l’America

La contromossa di Obama: missione di Kerry a New Delhi

di Federico Rampini


NEW YORK — A leggere la stampa di Stato cinese, ma anche le analisi preoccupate di alcuni strateghi di Washington, siamo alle grandi manovre di Cindia. La decisione del neo-premier cinese Li Keqiang di dedicare la sua prima visita all’estero all’India, ha fatto sobbalzare gli americani. A maggior ragione li allarma il tono adottato da Li nel primo incontro col suo omologo Manmohan Singh: «I nostri interessi comuni superano di molto i nostri punti di disaccordo». Davvero sta per materializzarsi Cindia, l’unione tra il dragone cinese e l’elefante indiano, cioè le due nazioni più popolose del mondo nonché i due pesi massimi nel club degli emergenti Brics? Dal punto di vista economico, le relazioni tra i due giganti asiatici procedono a gonfie vele. La Cina è diventata il primo partner commerciale dell’India, l’interscambio ha raggiunto i 66 miliardi di dollari l’anno scorso. L’obiettivo fissato dal ministero del Commercio di Pechino, di raggiungere 100 miliardi nel 2015, appare molto realistico e potrebbe perfino essere superato. Non a caso la missione di Stato che Li guida a New Delhi ha un carattere prevalentemente economico: al seguito del premier c’è una folta delegazione di imprenditori e banchieri, inclusi i top manager dei colossi delle telecom Huawei e Zte. Le complementarietà tra le due economie sono reali. La Cina ha molte lunghezze di vantaggio come potenza industriale, ma l’India esporta derrate agricole e soprattutto servizi avanzati come software. A confermare che Pechino sta sferrando una “offensiva della seduzione”, c’è lo sgarbo fatto al Pakistan che verrà visitato da Li solo dopo la tappa indiana. Un affronto per un alleato storico della Repubblica Popolare. Del resto Li è a New Delhi anche per firmare accordi di forniture di armi, essendo l’India divenuta il più grosso acquirente mondiale.

Ma se Cindia è una crasi efficace per descrivere le due maggiori nazioni del pianeta, di qui a trasformarla in un’alleanza geostrategica ci vuole altro. La recente tensione al confine del Ladakh, dopo la breve incursione di truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, ha ricordato a New Delhi che i rapporti di forze militari sono sproporzionatamente in favore della Cina. Anche dal punto di vista economico, la disparità è notevole almeno per adesso (nel lungo periodo, il vantaggio di Pechino potrebbe ridursi sia per l’invecchiamento della forza lavoro cinese, sia perché il regime autoritario è meno adatto a gestire le tensioni sociali legate allo sviluppo).

Tra le cause di una tensione latente tra le due nazioni, c’è l’acqua. Più ancora dell’energia — di cui Cina e India sono avidi acquirenti nel mondo intero — l’acqua è la risorsa scarsa che si contendono. I grandi fiumi che irrigano i due paesi nascono tutti dallo stesso “serbatoio” che è l’Himalaya. Con il cambiamento ambientale e lo scioglimento dei ghiacciai, nuove incognite possono minacciare la regolarità dei corsi di quei fiumi. Per questo le dispute territoriali, tutte in aree vicine all’Himalaya, non sono residui di nazionalismi arcaici bensì nascondono una posta in gioco molto reale. Non a caso uno dei contenziosi tra Pechino e New Delhi è l’ospitalità offerta dall’India al Dalai Lama e al governo tibetano in esilio: il Tibet è la “cassaforte idrica” della Cina. A irritare il governo Singh di recente c’è stata la decisione di Pechino di costruire una serie di dighe nella parte a monte del fiume Brahmaputra che irriga le regioni nordorientali dell’India.
Nella nuova versione del Grande Gioco — quello che oppose l’impero britannico e la Russia zarista per le zone d’influenza in Asia — oggi gli Stati Uniti considerano l’India un partner strategico, nel contenimento (o accerchiamento…) della Cina. George W. Bush cominciò a levare le sanzioni sulle vendite di tecnologia nucleare all’India. Barack Obama ha compiuto a Delhi e Mumbai uno dei viaggi più significativi del suo primo mandato, celebrando l’intesa tra le due maggiori democrazie mondiali. Obama segue da vicino le “manovre di Cindia” avviate dalla nuova leadership cinese: non appena sarà partito da Delhi il premier Li Keqiang, la Casa Bianca annuncerà la data del viaggio di John Kerry in India. Il segretario di Stato ci andrà sicuramente entro giugno.
Ieri, mentre il duetto tra Li e Singh occupava la scena a Delhi, due notizie dominavano l’attenzione di Washington. La prima: la ripresa di attacchi di hacker cinesi, riconducibili alle forze armate di Pechino. La seconda: l’incontro con Obama del presidente birmano Thein Sein. La Birmania è una “cerniera” tra India e Cina. Negli ultimi anni stava scivolando nell’orbita economico-militare cinese. Il disgelo democratico — ancora parziale — ha fornito a Obama l’occasione per risucchiare Myanmar verso un rapporto con gli Stati Uniti. Il Grande Gioco continua.

La rete cinese dall'India fino ai Caraibi
di Guido Santevecchi Corriere 22.5.13

PECHINO — C'è un nuovo «consenso strategico» tra la Cina e l'India, come annuncia il premier Li Keqiang di fronte al suo collega di New Delhi Manmohan Singh? Di fatto, il capo del governo cinese ha scelto il vicino-rivale per la sua prima missione all'estero; il tradizionale alleato Pakistan è solo la seconda tappa del viaggio. E i due Paesi sono già partner nel club dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che riunisce il gruppo di economie che crescono più rapidamente in un mondo ancora investito dalla crisi globalizzata.
Però i rapporti per decenni sono stati tesi. Ancora all'inizio di maggio, i militari cinesi e indiani si sono sfidati per tre settimane nella regione himalayana, dove nel 1962 i due Paesi si fecero guerra. Reparti dell'Esercito di Liberazione Popolare si sono spinti per 18 km in territorio controllato dagli indiani. Poi c'è il disappunto di Pechino perché New Delhi ospita il Dalai Lama, leader tibetano in esilio.
E soprattutto, c'è la rivalità economica. Il Prodotto interno lordo della Cina è sei volte più grande di quello indiano, l'interscambio commerciale vale oltre 66 miliardi di dollari l'anno, ma è sbilanciato a favore dei cinesi, che hanno un surplus di 28 miliardi. La Cina è il secondo partner dell'India, che rappresenta per Pechino solo il 12°. Ma i due giganti non si possono ignorare, i loro sistemi produttivi hanno bisogno l'uno dell'altro per bilanciare la crisi dell'Europa e la lentezza della ripresa Usa.
Così Li Keqiang ha giocato la carta dell'umiltà, tattica preferita della Cina che ama ancora definirsi «Paese in via di sviluppo». Il premier si è presentato portando «a un popolo di 1,2 miliardi di persone il saluto di un popolo di 1,3 miliardi di persone» e ha insistito che l'obiettivo di Pechino «è sempre di soddisfare le sette necessità di base quotidiane dei cinesi che sono: legna, riso, olio per cucinare, sale, salsa di soia, aceto e tè». Poi ha detto di capire le preoccupazioni indiane per lo squilibrio nella bilancia commerciale e ha promesso che l'accesso delle merci di New Delhi sarà facilitato, per raggiungere quota 100 miliardi di dollari di scambi nel 2015. Sono seguiti accordi sull'agricoltura, le risorse idriche, per lo sviluppo di zone industriali e la costruzione di infrastrutture. Si è discusso del progetto di aprire un corridoio commerciale attraverso Birmania e Bangladesh.
Non sembra un caso che proprio nel corso di queste cerimonie da Washington sia arrivato l'annuncio che il 7 e l'8 giugno Obama incontrerà il presidente Xi Jinping in California per un vertice tra la prima e la seconda economia del mondo.
Ma intanto Pechino continua ad allargare la sua rete, fino ai Caraibi: gli inviati (e i miliardi) cinesi sono arrivati in quello che George Bush chiamava «il terzo confine» degli Stati Uniti. Hanno stretto accordi con Grenada, Barbados, Giamaica. Il primo ministro di Grenada ha detto al Financial Times che «Pechino aiuta i Caraibi perché ha colto la frustrazione della regione per il disinteresse Usa». Colpisce questa avanzata cinese a Grenada: nel 1983 Ronald Reagan spedì nell'isola i Rangers dopo aver accusato il governo (golpista) locale di essersi venduto a cubani e sovietici. Ora la Cina compra tutto in blocco.
Alle Bahamas i cinesi stanno costruendo un resort da diversi miliardi di dollari; alla Giamaica hanno concesso 300 milioni per strade e ponti; ad Antigua hanno costruito uno stadio per il cricket. Questi investimenti non hanno significato economico per la Cina, perché i Caraibi non sono un gran mercato e non hanno particolari risorse naturali: si tratta di espansione politica.
La partita è appena all'inizio e la Cina conosce l'arte dell'attesa.

Cina-India, il confine invisibile della guerra
di Jaswant Singh* La Stampa 23.5.13

Mezzo secolo dopo la guerra sino-indiana del 1962, il confine tra la Cina e l’India rimane indefinito ed è una costante fonte di attrito tra i due Paesi più popolosi del mondo. Nel 1962, dopo tre settimane di combattimenti, si concordò una linea di controllo effettivo (Lac). Ma, dopo cinque decenni, la mappa dev’essere ancora tracciata. Di conseguenza, entrambe le parti inviano sistematicamente pattuglie fino al punto in cui ritengono passi il confine. L’ultimo episodio è un’incursione di tre settimane delle truppe cinesi in territorio indiano che ha avuto inizio ad aprile.
Trovarsi faccia a faccia nella terra di nessuno tra le due linee di confine riconosciute dalla Cina e dall’India è così comune che i militari dei due Paesi hanno sviluppato un modus vivendi e in genere invitano l’altro a ritirarsi pacificamente. Entrambe le parti hanno regolarmente rispettato il protocollo informale che si è evoluto nel corso degli anni.
Ma non questa volta. Nella zona di Daulat Beg Oldie, vicino all’altopiano di Depsang, nella regione del Ladakh dello stato di Jammu e Kashmir, una pattuglia di circa 15 soldati dell’Esercito di Liberazione Popolare è entrata nel territorio controllato dall’India e ha costruito un accampamento, preparandosi per un soggiorno prolungato.
Dallo strategico passo del Karakorum, nel Nord, vicino al Pakistan, la Lac si estende verso sud, lungo i crinali della catena dell’Himalaya orientale fino all’antica città monastica buddista di Tawang. Poi, ripercorre la vecchia linea McMahon tracciata nel 1914 - e respinta dalla Cina come un dettato imperiale - per separare l’India britannica da quello che allora era il Tibet. La LAC quindi serpeggia fino al punto in cui s’incontrano l’India, la Cina e la Birmania.
L’interesse strategico della Cina nel confine che separa l’India dall’irrequieto e dalla provincia ribelle dello Xinjiang è semplice da capire. Per l’India, Daulat Beg Oldie è un importante avamposto vicino all’ingresso del passo di Karakorum e la regione del ghiacciaio Siachen. Quindi, l’incursione della Cina in territorio indiano è stato l’errore di un comandante locale? O si tratta di un calcolo più complesso?
Il torreggiante passo del Karakorum faceva parte della vecchia via della seta che collegava il Ladakh e il Kashmir con lo Xinjiang – che ora è, come il Tibet, una «regione autonoma» della Cina. Come hanno di recente detto due osservatori, Daulat Beg Oldie era una sorta di punto di trasferimento delle merci da caricare sui pony «per il crudele viaggio attraverso il Saser La fino alla più ospitale valle del fiume Shyok» per arrivare a «Leh, Turtok, o Srinagar [in Kashmir]».
Non a caso il Parlamento indiano ha condannato severamente l’incursione cinese. Il governo, dopo un’iniziale perplessità, ha cercato invano di fare luce sulla presenza delle truppe cinesi. E ne è seguita un’escalation e l’India ha rilanciato. Il Financial Times ha citato Sun Hongnian, un esperto dei confini cinesi: «Per l’India, ogni metro di strada e ogni bunker in quella zona è una vittoria strategica sul territorio» che li porta «più vicino alla strada principale dalla nostra parte».
Il braccio di ferro si è concluso il 6 maggio, improvvisamente com’era iniziato. Il ministro degli Esteri indiano, dopo aver inizialmente definito l’incursione un «incidente localizzato», ha dovuto cambiare tono sotto la pressione parlamentare, ammonendo la Cina che l’India potrebbe dover riconsiderare la sua progettata visita a Pechino.
Tutto ciò è stato un tentativo cinese di ottenere, nelle parole di Henry Kissinger, una «deterrenza strategica»? O un passo deliberato verso la realizzazione della proposta fatta dal presidente cinese Xi Jinping al primo ministro indiano Manmohan Singh a marzo, a margine del vertice Brics in Sudafrica? Xi aveva detto a Singh di stare cercando «una soluzione equa, ragionevole e reciprocamente accettabile basata sulla reciproca comprensione e accettazione», aggiungendo significativamente: «Stabiliamo in tempi brevi un accordo di massima sui confini». L’incursione cinese era destinata a servire come una sorta di acceleratore diplomatico?
L’India dovrebbe fare tesoro della preveggente osservazione dell’ex primo ministro australiano Kevin Rudd: «La Cina, una nazione di realisti in materia di politica estera e di sicurezza, rispetta la forza strategica e disprezza l’indecisione e la debolezza». Dopotutto, una delle lezioni della guerra del 1962 è stata che una risposta incerta all’aggressione cinese è controproducente, soprattutto in situazioni come quella posta dall’incursione a Daulat Beg Oldie.
Una cosa sembra emergere in modo chiaro dal recente incidente: una nuova disposizione d’animo regna in Cina e continuerà a guidare la politica per i prossimi dieci anni sotto la guida di Xi. Le truppe cinesi a Daulat Beg Oldie servono a ricordare che la Cina non ha alcuna intenzione di permettere che questioni irrisolte di confine restino ignorate. Infatti, quasi in contemporanea con l’incursione dell’esercito, gli studiosi di un simposio cinese hanno messo in discussione la sovranità giapponese su Okinawa.
Sia che l’appello di Xi all’India per «definire rapidamente la questione dei confini» fosse solo un’esortazione o piuttosto un avvertimento, gli altri paesi asiatici non possono più permettersi di ignorare le proprie dispute di confine con la Cina. Come dimostra quello che è successo a Daulat Beg Oldie, i nuovi leader cinesi non sono interessati a mantenere lo status quo.

*Ex ministro indiano delle Finanze, degli Esteri e della Difesa, è l’autore di Jinnah: India - Partition – Indipendence Copyright: Project Syndicate, 2013. www.project-syndicate.org Traduzione di Carla Reschia

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