venerdì 14 giugno 2013
Di antichi sogni
W.V. Harris: Due son le porte dei sogni. L'esperienza onirica nel mondo antico, trad. di Cristina Spinoglio, Laterza, pagg. 354, euro 28
Risvolto
"Cominciamo nel quarto secolo d.C. in Egitto.
Vi piacerebbe comparire nei sogni altrui? Ecco cosa dovete fare. Rivolti
alla lampada sul comodino (a rigore, dovrebbe essere una lampada a
olio), pronunciate le seguenti parole: 'Cheiamopsei herpeboth. Fa' in
modo che MM, la figlia di NN, mi veda nei suoi sogni - ora, ora, presto,
presto'. Aggiungete poi il vostro messaggio personale. Ripetetelo
spesso. Queste, almeno, erano le istruzioni fornite da un papiro magico
greco - espresse naturalmente con la massima serietà, dato che non si
trattava di un gioco. La lettura di questi testi ci trasporta in un
mondo che, per lo meno a uno sguardo superficiale, è completamente
estraneo ai tempi moderni. Eppure anche oggi molti sono convinti che c'è
qualcosa di significativo nel contenuto dei loro sogni, proprio come i
Greci." Ma come è cambiata la cultura del sogno dai tempi di Omero alla
tarda Antichità? Cosa significavano i sogni? Come li leggiamo e li
interpretiamo con i nostri occhi di moderni quei sogni? Dall'Iliade ad
Aristofane, dal Vangelo di Matteo ad Agostino, William V. Harris
analizza il fenomeno del sogno nell'antichità, rintracciandone il tratto
distintivo nell'epifania di una figura autorevole, che dà istruzioni o
trasmette informazioni. Il sognatore e/o il narratore non solo
rivendicano di aver ricevuto istruzioni o informazioni da parte di enti
superiori, ma con questo sogno possono dare un senso alle azioni umane e
conferire prestigio.
Le porte dei sogni quando Omero scoprì l’inconscio
Riti esoterici, miti e terapia: così Greci e Romani spiegavano la vita onirica
di Maurizio Bettini
«Due sono le porte dei sogni fluttuanti, una è fatta di corno, l’altra
di avorio. I sogni che attraversano l’avorio tagliato sono ingannevoli,
portano vani messaggi; ma quelli che varcano la soglia di lucido corno
dicono il vero, quando un mortale li vede». Benché enigmatici, o meglio
proprio perché tali, questi versi dell’Odissea esprimono già
perfettamente l’ambivalenza, se non l’inquietudine, che caratterizza il
fenomeno onirico nel mondo antico. Quando ci si sveglia, infatti, come
si fa a sapere se ciò che si è “visto” (i Greci i sogni li “vedevano”,
non li “facevano”) è uscito dalle porte di avorio o dalle porte di
corno? Nessuno può dirlo. Il sogno è ambiguo, lascia intendere, ma non
dà certezze. Se premoniva o meno, e se la premonizione era fondata o
falsa, solo il tempo potrà confermarlo.
Ed ecco entrare in scena l’Enea di Virgilio. Compiuto il suo viaggio
oltremondano — che gli ha fatto incontrare l’ombra muta e sdegnosa di
Didone, quella affettuosa del padre, perfino i futuri eroi della città
di Roma — Enea si appresta finalmente a rivedere la luce: «Due sono le
porte del sogno» spiega il poeta «la prima, si dice, è di corno, da dove
le ombre vere hanno facile uscita; splende l’altra di candido avorio,
ma da qui i Mani inviano al cielo sogni ingannevoli. Anchise, parlando,
accompagna il figlio assieme alla Sibilla, e dalla porta d’avorio li fa
uscire».
Omero non ci aveva detto dov’erano le fatidiche porte, Virgilio ci
rivela che sono all’Ade. Le immagini che popolano le nostre notti altro
non sarebbero, dunque, se non simulacri sfuggiti dal regno dei morti?
Non basta. La cosa che più colpisce è un’altra: perché mai Enea, quando
abbandona l’Ade, viene fatto uscire dalle porte di avorio, quelle da cui
escono i sogni fallaci? Come si può immaginare questa oscura
precisazione virgiliana ha suscitato le spiegazioni più disparate. Forse
Virgilio aveva semplicemente sbagliato porta? Difficile crederlo. Dato
poi che, come sappiamo, le ombre false escono prima della mezzanotte,
secondo alcuni Virgilio avrebbe semplicemente inteso dire che Enea era
uscito dall’Elisio prima di allora.
Ma possibile che il poeta avesse escogitato un episodio così
affascinante, così enigmatico, solo per dire che ore sono? Proviamo
piuttosto a chiederci: se Enea esce dalle porte da cui escono i sogni
ingannatori, questo mondo dei morti l’ha visitato davvero? E ancora:
forse Virgilio intendeva addirittura insinuare il sospetto che non solo
il viaggio di Enea, ma lo stesso Ade da lui descritto altro non era se
non un sogno fallace? Se così fosse, ci troveremmo di fronte a uno dei
numerosi casi in cui la poesia dichiara la propria meravigliosa falsità.
Sia come sia, queste antiche porte danno ora il titolo a uno fra gli
studi più completi che il sogno dei Greci e dei Romani abbia mai
ricevuto: William V. Harris, Due son le porte dei sogni.
(“L’esperienza onirica nel mondo antico”, Laterza). Harris, professore
di Storia antica alla Columbia University, ha esplorato in lungo e in
largo l’universo di credenze, teorie, aneddoti ed epifanie in cui Greci e
Romani hanno racchiuso la propria esperienza onirica. Il fatto è che
nell’antichità il sogno ha interessato tutti. I poeti che ne narrano le
meraviglie e i medici che non solo elaborano teorie per spiegarne
l’origine, ma li trasformano addirittura in terapia. Elio Aristide, un
retore greco del II secolo d. C., ci ha anzi lasciato un minuzioso
diario delle sue esperienze terapeutiche presso il santuario/ospedale di
Asclepio, dove il mal di pancia si alterna con le visioni del dio, e
l’onirica prescrizione dell’assenzio con i bagni, sempre oniricamente
imposti, nell’acqua gelata. Ci si stupisce anzi che, a dispetto di ciò,
Aristide fosse campato fino a ottant’anni.
Poi naturalmente vi erano i filosofi, come Platone, che attraverso
l’impalpabile sostanza dei sogni cercavano di esplorare le profondità
dell’“anima”, e con loro gli interpreti come Artemidoro di Daldi che
elaboravano arzigogolati prontuari onirici capaci, alla maniera della
Smorfia, di fornire risposte alle domande di inquieti sognatori. Che
cosa significa sognare una capra? Niente di buono. Questi animali
infatti son tutti dannosi, né favoriscono nozze o amicizie. Non è forse
vero che le capre pascolano l’una lontano dall’altra e al pastore
procurano solo difficoltà, quando si tratta di radunarle?
«Capita spesso» spiegava ancora Artemidoro «che un’intera città o
un’intera comunità sogni la stessa cosa». Per quanto ciò possa sembrarci
strano, l’esperienza onirica antica non è solo individuale, può essere
anche collettiva. Difficile dire se questo misterioso potere del sogno
possa dar conto di un’altra singolare coincidenza. Da Cortina è uscito
un altro libro dedicato allo stesso tema: Il compagno dell’anima (“I
Greci e il sogno”), di Giulio Guidorizzi. Forse i due autori, o i due
editori, avevano ricevuto (in sogno) la medesima ispirazione? Fatto sta
che questo saggio di Guidorizzi — uno dei migliori conoscitori non solo
del sogno antico, ma della cultura greca in generale — non si sovrappone
affatto a quello di Harris, piuttosto lo completa. Tanto quanto il
primo procede attraverso una messe impressionante di dati, alternandoli
con i risultati della ricerca più recente nel campo della cultura antica
— non che con brillanti ironie anglosassoni — il secondo predilige
invece un discorso fluido, compatto, profondo nella sua apparente
semplicità.
L’accurato esame delle testimonianze greche emerge così da un tessuto
che serba memoria di Freud, di Jung, di Schnitzler, ovvero del Sogno
della camera rossa, il romanzo cinese del XVIII secolo. Quello in cui
Pao-Yu sognò di essere se stesso, nel suo stesso giardino, e di
incontrare due ancelle perfettamente simili alle sue, che si stupirono
di vederlo lì. «Pao-Yu, come hai fatto a venire fin qui? » gli avevano
chiesto. Allora Pao-Yu era entrato in una casa, perfettamente simile
alla sua, dove aveva visto un giovane addormentato. «Perché sospiri,
Pao-Yu, stai forse sognando? » avevano chiesto le ancelle al dormiente.
«Sì» aveva risposto il secondo Pao-Yu «stavo facendo un sogno molto
strano. Mi pareva di essere nel mio giardino…». E questo infinito gioco
di specchi rivela forse la natura più intima e più segreta del sogno.
Su Guidorizzo vedi anche qui
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