domenica 2 giugno 2013
Il secondo volume del Periphyseon e il De divisione naturae di Giovanni Scoto Eriugena
Giovanni Scoto Eriugena: Divisione della natura, a cura di Nicola Gorlani, Bompiani, Milano, pagg. 2.572, € 45,00
Risvolto
Il De divisione naturae costituisce una grande epopea metafisica intorno al concetto di natura considerato come la totalità delle realtà esistenti e non esistenti. L’articolazione dell’opera in cinque libri ripercorre la suddivisione della natura nelle sue quattro principali divisioni: la natura creante e non creata, cioè Dio inteso come causa del tutto, la natura creante e creata, cioè il Verbo di Dio all’interno del quale si individuano i principi generali della creazione, la natura non creante e creata, costituita dalla processione della seconda natura all’interno del mondo creato, ed infine la natura non creante e non creata cioè Dio considerato come fine ultimo cui tendono tutti gli esseri creati. Accanto a questa struttura, che ricalca le teorizzazioni dei filosofi neoplatonici, si trova un vasto commentario ai primi sei giorni della creazione secondo il racconto della Genesi, all’interno della quale l’uomo costituisce il centro di maggiore interesse in quanto, grazie alla sua funzione mediatrice, costituisce contemporaneamente la ragione della processione dalle cause negli effetti ed il punto di partenza grazie al quale la molteplicità del mondo materiale potrà ricongiungersi con il suo principio originario, cioè Dio.
Maria Bettetini Domenicale 02 giugno 2013
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Giovanni Scoto Eriugena: Periphyseon, II, a cura di Peter Dronke, traduzione di Michela Pereira, Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla, pp. LII-328, e 30
Il Paradiso è l’uomo
La teologia come racconto di Giovanni Scoto Eriugena È nella Resurrezione che si compie la nostra natura
di Giorgio Montefoschi Corriere 10.11.13
Nel primo dei cinque volumi che compongono il Periphyseon , in italiano: Sulle nature dell’universo — l’opera più ardita del pensiero medievale prima di Tommaso d’Aquino, scritta nel IX secolo non come un trattato teologico, bensì come un racconto immaginario, dall’irlandese Giovanni Scoto Eriugena, traduttore dal greco e dal latino, maestro alla corte carolingia di Carlo il Calvo — abbiamo letto che, con il termine Natura, si intende «il nome generale di tutte le cose che sono e di tutte quelle che non sono». La natura — spiega Eriugena, nutrito da Platone e dal neoplatonismo, come da Basilio, Gregorio di Nissa e Massimo il Confessore — è Tutto. Tutto è nella natura, compreso Dio che ne è il creatore, compreso il nulla. Esiste, infatti, una natura che crea e non è creata, viene prima dello spazio e del tempo, ed è Dio; una natura che è creata e crea (vale a dire: le cause primordiali, molto simili alle idee platoniche); una natura che è creata (dalle cause primordiali) e non crea (vale a dire: le cose, gli esseri viventi, gli animali, gli alberi, la terra, il mare, insomma gli effetti temporali); infine, ciò che non è creato e non crea (vale a dire: il nulla, nascosto, come le tenebre, nella luce di Dio).
Dio, dunque, è nel mondo, è il mondo che conosciamo, che ammiriamo per il suo miracoloso ordine e la sua bellezza, che percorriamo con il nostro movimento nel periodo limitato di tempo che va dalla nostra nascita alla nostra morte? Certamente, lo è, perché è l’artefice dell’universo, la causa di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Certamente lo è, perché, in quanto sommo Bene, inonda e fa partecipare di sé la natura umana che viene divinizzata dal suo inesauribile flusso creativo e amoroso (pur rimanendo se stessa), allo stesso modo per cui l’aria, illuminata dal sole, non sembra essere altro che luce e il ferro liquefatto dal fuoco non sembra essere altro che fuoco. Ma, in realtà, non lo è: perché è al di là dell’essere, è al di là del tempo, al di là dello spazio, al di là del movimento, e nella sua vera essenza noi non lo possiamo conoscere — lo possiamo conoscere solo metaforicamente, solo attraverso le sue manifestazioni, le sue teofanie — e tanto meno possiamo definirlo con le nostre parole umane: pallide approssimazioni di un mistero inconoscibile e ineffabile, di una essenza che è sempre più di quello che ci affanniamo a nominare.
Tutto ciò che è delimitato da lunghezza, larghezza, quantità — dice Eriugena, citando uno sei suoi autori preferiti: Dionigi Areopagita — è corpo ed è finito: Dio è incorporeo e infinito. Tuttavia, nella sua immensa bontà, nel suo infinito amore, così come si è distaccato da se stesso, scindendosi, scendendo nell’universo, mostrandosi nelle sue teofanie, Dio farà tornare l’universo a sé. Alla fine del mondo, la carne afflitta dalle tentazioni, mortificata dalla precarietà e dal limite, si trasformerà, e ogni essere naturale, ogni elemento della natura (compreso il male), sarà accolto nel seno di Dio, si confonderà con Dio. Sarà Dio: così come Dio è stato nell’universo. Al centro di questo progetto clamoroso, e per noi inaccessibile se prescindiamo dall’amore e fidiamo nelle forze della mente, ci sono Cristo, il Figlio di Dio incarnato, e l’uomo.
È il grande tema di tutto il Periphyseon e, in particolare, del secondo volume da poco uscito nella collana Mondadori-Fondazione Lorenzo Valla (con la cura di Peter Dronke e la traduzione di Michela Pereira, pp. LII-328, e 30). La razza dei mortali — dice Eriugena — viene per ultima: la sua apparizione è il culmine del processo cosmogonico. «L’essere umano — scrive Dronke — contiene in sé tutta la creazione. Viene introdotto per ultimo fra tutte le cose che esistono a motivo della sua capacità unica di mediare fra esse e congiungerle. È l’officina in cui il ritorno di tutte le cose alla loro origine divina può essere elaborato, reintegrando progressivamente ciò che era stato diviso, per raggiungere di nuovo alla fine l’origine nella sua completa unità».
All’inizio — sostiene Eriugena, seguendo il Simposio e il prediletto Massimo il Confessore — l’essere umano creato da Dio era indiviso: non c’erano il maschio e la femmina nel Paradiso terrestre. La divisione nei due sessi avvenne dopo la caduta. La riunificazione sarà possibile, perché il Figlio di Dio (il Principio in cui sono create tutte le cose), facendosi uomo ha «ricapitolato, radunando, tutte le cose che sono nel cielo e nella terra», risorgendo dalla morte. Lo stesso accadrà per noi. Così, quando l’umanità dell’essere umano sarà rinnovata, l’orbe terrestre sarà immediatamente riunito al Paradiso. Le loro diverse parti saranno unificate, spiritualizzate, nell’essere umano. Che diventerà simile agli angeli e congiungerà la realtà sensibile a quella intelligibile.
L’idea — mai prima espressa da nessun platonico, pagano o cristiano — che il Paradiso consista nella integrità della natura umana, che il Paradiso saremo noi risorti come Cristo risorto, è l’inaudita proposta di Giovanni Scoto Eriugena: articolata in pagine di una bellezza sconvolgente. E pone domande altrettanto sconvolgenti (per esempio: come sarà superata la divisione dei sessi? Ci riconosceremo? Saremo corpo o spirito?) alle quali Eriugena non dà risposte nette, trattandosi di un evento miracoloso. Ma tutto quello che — nel limite delle parole umane — dice a proposito della resurrezione di Cristo, colui il quale nella resurrezione ci ha preceduti, è di una forza persuasiva che lascia il lettore sgomento, come se sulla resurrezione non avesse mai letto nulla.
Cristo, infatti — dice Eriugena, come anche San Paolo — non resuscitò dai morti nel suo sesso corporeo, ma nell’essere umano semplicemente. Quando tornò dai morti in Paradiso e si intrattenne con i suoi discepoli, non mostrò altro che questo: e cioè che il Paradiso è la gloria della resurrezione. Infatti, il Paradiso non si distingue dalla terra per una collocazione spaziale, ma per la diversità della vita che si conduce e per la differenza della felicità.
«Infatti, nello stesso momento — sempre Eriugena — era nel Paradiso e dimorava su questa terra coi suoi discepoli. Non si deve credere che veniva da altrove per apparire ai suoi discepoli e che se ne andasse altrove quando non si mostrava loro, ma in un solo e identico spazio qualche volta appariva loro con l’aspetto che aveva durante la passione, per nutrire la loro fede, e trascorso lo spazio dell’apparizione momentanea, ritornava alla potenza intellettuale del corpo spirituale che oltrepassa ogni tempo e ogni spazio. Cristo, dunque, era simultaneamente nel Paradiso e nel mondo, mostrando che una e una sola è la ragione del mondo e del Paradiso e riunificando in se stesso il mondo e il Paradiso».
Eriugena sa di proporre un mistero (quello al quale i cristiani devono credere, in fin dei conti), che difficilmente può essere accolto dall’intelletto umano; e che la vera sapienza di Dio è l’ignoranza di Dio. Per questo, nel finale del secondo libro, ritorna sulla inconoscibilità di Dio e della Verità. Ma, con un’immagine meravigliosa, descrive il nostro travaglio, destinato a durare quanto la nostra vita. Ci paragona agli angeli che la sacra teologia raffigura, in prossimità di Dio, con delle ali che coprono i loro piedi e i loro volti.
Quelle ali sono il simbolo del timore che le potenze angeliche provano avvicinandosi al mistero. Le ali rappresentano anche le speculazioni che gli angeli, e gli uomini, fanno sul mistero. Il loro desiderio — frenato dal timore — è quello di superare queste speculazioni. Cercano l’infinito e tremano. Ma rimangono vicini a Dio, perché è in Dio che bramano gettare lo sguardo.
Eriugena, l’irlandese figurale che liricizzava il linguaggio teologico
Il pensiero di Eriugena sviluppa premesse della teologia
«negativa» di Dionigi pseudo-Areopagita (erroneamente
identificato col Dionigi che si convertì al cristianesimo dopo
aver sentito il discorso di san Paolo all’Areopago) e Pound ne
apprezzava pionieristicamente le molteplici sfaccettature
anche apparentemente contraddittorie, come da un lato la
capacità di liricizzare il linguaggio teologico con l’uso di
figurazioni simboliche e paradossi logici, dall’altro la
rivendicazione razionalistica con cui, ben prima del XII secolo di
Abelardo, contestava il tradizionale ricorso alle
auctoritates dimostrando la superiorità del procedimento
dialettico: un’anticipazione metodologica che, contro i luoghi
comuni, fece di quella stagione del medioevo un momento di dibattito
intellettuale più libero e spregiudicato rispetto ai secoli,
tardo-medievali e soprattutto moderni, in cui l’ipse dixit degli
aristotelici produsse invece la moltiplicazione dei Bellarmino
e dei Don Ferrante. Questo terzo libro prosegue il dialogo fra un
maestro creativo ma tendente alla divagazione e un allievo che
propulsivamente lo sollecita su questioni scomode ma ne
controlla la progressione del pensiero, talvolta limitandone le
punte più avventurose, secondo il modello platonico che diventa nel
medioevo schema didattico. Il punto di maggiore interesse e audacia
del testo è la tesi sull’auto-creazione di Dio nel momento di creazione
dell’universo: se Dio si identifica con la sua volontà e con ciò che
ha fatto, allora Deus se ipsum fecit, «Dio ha fatto se stesso».
E siccome la divinità è informe perché è oltre le forme, e la
materia è informe, allora la materia è quanto di più prossimo
all’informità della bontà divina, che nella sua trascendenza è detta
non-essere o nulla, ma in virtù della sua presenza nelle cose è Essere.
Come ricorda Dronke, il grande medievista anglo-tedesco cui sono
stati affidati introduzione e commento, Scholem paragonò queste
espressioni paradossali con le formulazioni cabalistiche del
XIII secolo, che descrivevano Dio come puro nulla, così come trovò
analogie fra lo spazio d’ombra che Eriugena presuppone all’interno
di Dio e la nozione di zumzum , «auto-contrazione» di Dio, che secondo
il rabbino Isaac Luria (XVI secolo) rende possibile un universo
finito tramite la produzione in Dio di uno spazio vuoto all’interno
del quale si forma e sussiste il cosmo. Su questo punto,
ristabilendo la corretta cronologia delle fonti, il saggio
introduttivo dimostra che è stato certamente Eriugena il primo
ideatore del concetto di autocreazione. E col tipico metodo di
Dronke, che prima di essere filosofico è comparatistico, queste
impegnative salite della mente sono accompagnate da citazioni
poetiche che sembrano testimoniarne la fortuna
extrafilosofica, in questo caso i versi di John Wilmot conte di
Rochester (1647–80): «Nulla! Fratello maggiore persino dell’ombra, /
Tu avevi un’esistenza prima che il mondo fosse fatto (…) Eppure
qualcosa comandò la tua forza possente».
Buona parte di questo libro eriugeniano gira, con percorso non
sempre coerente, intorno al paradosso dell’esistenza condizionata
e insieme eterna delle cose nel Verbo divino, che impone la soluzione
di una creazione eterna di se stesso da parte dell’increato. Ma il
maestro stesso, o almeno la figura narrativa che ne gioca il ruolo in
questo teatro del pensiero, ammette la difficoltà di
giustificare una simile acrobazia dialettica. E in effetti
questa fase dell’opera rivela incertezze di argomentazione
e perfino errori tecnici (ad esempio nella formula del diametro),
ma dimostra coraggio metodologico, come nella teoria
quasi-eliocentrica del cosmo che indusse a esaltare l’Eriugena come
precursore di Copernico, e che Dronke dimostra invece basata sul
fraintendimento di un passo di Calcidio, il commentatore cui si
deve la conoscenza del Timeo platonico nell’alto medioevo.
Ulteriore prorompente novità di questo terzo libro è la dottrina
sulle anime degli animali, un argomento che emerge in questi mesi
all’attenzione del pubblico, come nel volume di Li Causi e Pomelli
recensito su queste stesse pagine e dedicato ai filosofi greci.
Giovanni Scoto supera d’un balzo le prudenze degli antichi e arriva
a contraddire perfino Basilio e Gregorio di Nissa, sostenendo,
a rigor di logica, che se ‘animale’ è il genere mentre ‘razionale’
(l’uomo) e ‘irrazionale’ (le bestie) sono le specie, la durata
dell’anima non può che essere comune al genere e non differenziarsi
per specie. Se dunque l’anima dell’uomo sopravvive al disfacimento
del suo corpo, così dev’essere anche per quella degli animali. Lo
confermano i casi di facoltà della psiche animale che uguagliano
o superano quelle umane, come la capacità di riconoscimento dei
cani, la vendicatività dei cammelli, la memoria delle cicogne.
Anche gli animali dunque sono teofanie, manifestazioni di Dio:
e se c’è un’epoca pronta a comprendere questa tesi è l’attuale
inizio di nuovo millennio. Di questa posizione Dronke sottolinea
la disinvolta originalità e anzi l’unicità, affiancandola
elegantemente a una citazione del poeta Christopher Smart
(1722-’71), che angelifica il suo gatto Jeoffry. Ma dimentica che
l’atteggiamento della cultura cristiana nei confronti della natura
trova già una base scritturale nel passo della Lettera ai Romani in
cui san Paolo include tutta la creazione, animali compresi, nel
processo di redenzione del corpo.
Questa stessa audacia rivoluzionaria si esprime attraverso un
plurilinguismo greco-latino e una vertiginosa densità di
immagini nella produzione poetica di Scoto, finora misconosciuta.
L’unica antologia di poesia carolingia esistente in italiano
(1995) ne presentava un epigramma e tre poemetti, di cui la
poetessa-performer Rosaria Lo Russo aveva dato nel ’97 a Firenze una
memorabile lettura pubblica. Ora invece tutte le poesie
dell’Eriugena sono finalmente ordinate, tradotte e commentate con
impeccabile accuratezza nel volume: Scoto Eriugena, Carmi a cura di
Filippo Colnago (Jaca Book, pp. 209, euro 28,00), con una prefazione
di Giulio D’Onofrio che colloca questo sperimentalismo poetico
sulla strada che porterà al Paradiso dantesco e confessa la sua
emozione dinanzi alla capacità dell’irregolare irlandese nel
comprimere in pochi versi un circuito complesso di idee
e ragionamenti sprigionandone immagini emblematiche del
processo di pensiero. Tra i versanti più sorprendenti della
modernità di Scoto, il ‘Lucrezio del medioevo’, c’è infatti la
consapevolezza del risultato estetico di una rielaborazione
poetica del pensiero, e insieme della necessità di una sua
comunicazione in termini figurali. Ma l’abitudine al volo
dell’aquila non impedisce all’Eriugena di calcare con personalità
anche le scene più aspre della polemica intellettuale, come nella
celebre invettiva che cinicamente festeggia (o, per converso, si
augura) la morte di Incmaro, primate della chiesa franca ed
espressione del clero più istituzionale, che – scrive – fece una
sola cosa buona, e fu morire».
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