domenica 23 giugno 2013

Le lotte di classe della Cina e quelle nella Cina alla luce del paradigma populista-anticomunista. Una rassegna


Una colossale incomprensione del concetto di lotta di classe. Che inevitabilmente colloca il Manifesto dalla parte della restaurazione, nonostante la  patina di finto populismo neomaoista, paradossale per il giornale dei benecomunisti. Nel culto dell'icona mediatica anticomunista Ai Wei Wei non si capisce chi vince, se il Manifesto o il Corriere [SGA].

CINA · Un percorso di lettura sui cambiamenti teorici nel paese
Questioni di classe nella world factory
La scelta del modello neoliberista ha visto azzerato il riferimento alla teoria marxiana della realtà sociale
il manifesto 2013.06.22 - 11 CULTURA


APERTURA - Simone Pieranni

Può accadere che in un paese come in Cina, durante la fase rivoluzionaria, sia stato elaborato un concetto di classe commisurato con le caratteristiche della sua situazione sociale, e che nella fase della rimozione linguistica del concetto di classe (contemporaneamente o quasi alla rimozione anche in Occidente), sia stata invece creata una vera e propria classe? In Cina, sì, può accadere. Ora che il Dragone affronta la seconda fase del suo sviluppo neoliberista, dopo che come tutto il mondo, anche se in modo diverso, ha vissuto il suo 2008, ovvero l'anno che ha imposto il passaggio da un modello economico ad un altro e che secondo il noto intellettuale cinese Wang Hui chiude il Novecento cinese, ci si trova a chiedere quale significato abbia la parola «classe» ( jieji in cinese) e in che modo il concetto ad essa legato si è evoluto per arrivare ai nostri giorni. Da quando cioè Mao si chiese quali erano gli amici e quali i nemici, per forgiare un concetto di classe basato sulla condizione sociale più che sulla posizione dei singoli all'interno del modo di produzione, la storia cinese ha sancito un cambio di paradigma immenso. Da un lato sono stati abbandonati Mao e Marx, almeno ufficialmente, per passare a Weber, senza dirlo troppo in giro, contemplando una suddivisione tra strati sociali ( jieceng) , che fosse in grado di preparare la Cina alla nuova modernità occidentale e neoliberista. Ma proprio il processo economico neoliberista ha finito per provocare prima una proletarizzazione dei cosiddetti lavoratori migranti e infine una proletarizzazione incompiuta, che riporta di attualità il tema della classe, non solo nella riflessione che proviene da sinistra. Il 25 marzo sul Time , Michael Schuman titolava un suo articolo «La rivincita di Marx, come la lotta di classe sta formando il mondo». Schuman basa la propria analisi soprattutto sull'ineguaglianza - diffusa in tutto il mondo, in particolare in Cina, dove l'indice di Gini, per misurare il coefficiente di diseguaglianza sarebbe allo 0,61 secondo alcune ricerche pubblicate nei mesi precedenti - concentrandosi sul revival di Marx in Cina, utilizzando come espediente un artista. 


Il passato rimosso 
L'aggancio della Cina alla modernità neoliberista sembra contraddire, proprio per la creazione di un conflitto tipicamente marxista tra lavoratori e «borghesia», gli auspici di chi come Giovanni Arrighi - in Adam Smith a Pechino (Feltrinelli), ma anche ne Il Lungo XX Secolo (Il Saggiatore) - prevedeva che l'egemonia cinese potesse sganciarsi dal consueto modus operandi del capitalismo (in particolare dal modello egemone esercitato dagli Usa). Lo sviluppo cinese ha tuttavia finito per ricreare le stesse dinamiche «occidentali», seppure in un contesto differente. Secondo Pun Ngai e Chris King-Chi Chan «una nuova classe operaia cinese sta lottando per nascere, proprio nel momento in cui il linguaggio della classe è stato messo a tacere. La formazione di questa nuova classe nella Cina contemporanea è stata strutturalmente tenuta in scacco dagli effetti discorsivi e istituzionali» (Pun Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti , a cura e con introduzione di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, Jaca Book). Ma quali sono questi effetti discorsivi e istituzionali? La risposta investe necessariamente il concetto di classe, che il pensiero dominante evita di affrontare, tranne in alcuni ambienti che spesso vengono fatti ricadere nella generica definizione di Nuova Sinistra. Quest'ultima, per altro, dopo la batosta seguita alla caduta di Bo Xilai, risulta ad oggi sparpagliata e ormai priva di un corpo teorico unico.


La depoliticizzazione del partito
Per quanto riguarda l'eliminazione del termine «classe», si tratta di una vera e proprio rimozione storica. La Cina per agganciarsi al modello neoliberista ha dovuto abbandonare il discorso politico, trasformando il Partito Comunista in un metodo di governo da parte del potere economico. Si è trattato di un vero e proprio processo di depoliticizzazione generale, che ha modificato il Partito e la teoria politica stessa, compreso il concetto di classe. Fino alla morte di Mao il partito stesso era composto per lo più da contadini e operai. Come sottolinea Joel Andreas nel suo Red Engineers: The Cultural Revolution end the Origin of China's New Class, (Stanford University Press) il cambiamento «teorico» è stato anche pratico nelle file del Partito. Nel 1949, l'80 percento del Partito era composto da contadini. Come specifica Bo Yibo, il padre di Bo Xilai, il politico di «sinistra» epurato a pochi mesi dal diciottesimo congresso del Partito, «era naturale che il nostro Partito fosse composto da contadini e lavoratori che avevano appena abbandonato il campo di battaglia». Dopo la morte di Mao, Deng cominciò l'opera di erosione del passato. Fu poi Jiang Zemin con la sua teoria delle tre rappresentatività ad abbondare il Partito «classista» di Mao, trasformando il Pcc in un covo di burocrati, oggi miliardari. Proprio Mao del resto aveva dovuto creare un concetto di classe, che ha finito per uccidere il partito in fazioni, come conferma David S.G. Goodman, professore di scienze politiche specializzato in Cina dell'Università di Sidney. Recentemente con Beatriz Carrillo ha scritto China's peasants and worker: changing class identity. «Tra il settembre 1976 e l'aprile 1978 - afferma il docente australiano - ci fu una vera e propria rivoluzione culturale in termini personali, con un cambiamento del 65 per cento degli individui che occupavano posizioni di leadership all'interno del Partito, di cui la maggioranza erano "ritorni". All'epoca ci fu poco sviluppo teorico intorno al concetto di classe, anche se il minimo dibattito tendeva a puntare il dito contro la Banda dei Quattro». Con la crescita della Cina, in poco tempo, «la classe dei lavoratori comprese di non essere più la ruling class del paese», racconta Fred Engst nel suo ufficio dell'Università di Pechino dove insegna economia. Comincia così l'era degli «ingegneri rossi» per riprendere il discorso di Andreas, che porterà la sociologia cinese a concepire una divisione sociale in strati (dieci) capace di annullare le valenze di classe e preparare la Cina all'avvento dell'unica classe di cui oggi si parla sui media e in alcuni ambiti accademici: la classe media. Nel ventre della Cina la «classe media» costituisce il 10 percento della popolazione attiva, ma potrebbere rappresentarne il 40 percento in pochi anni. Crescono anche i fluttuanti, i lavoratori migranti, il soggetto protagonista di una migrazione storica e oggi a cavallo tra mondo rurale, senza essere agricoltori, e mondo urbano, senza essere cittadini. «Bisogna distinguere - spiega Fred Engst che sull'argomento ha scritto un paper, The Rise of China and Its Implications - tra chi arriva dalla campagna ed ha il sogno da piccolo borghese e chi invece è proletario cittadino e si sente completamente operaio». Allude agli operai di nuova generazione che vogliono essere definiti «operai e basta», come raccontano quando interpellati. Di fatto sono un esercito che si muove, scruta e si agita, nel cui cuore forse aleggia il nuovo sogno cinese: diventare laoban , boss, ovvero «classe», ma media.


RITRATTI - I suoi aforismi in un libro pubblicato da Einaudi, un documentario e tre mostre
Ai Wei Wei, l'epopea di un dissidente cinese

APERTURA - Arianna Di Genova il manifesto 2013.06.21 - 11 CULTURA

A Venezia, nella chiesa di sant'Antonin, ha allestito il set della sua prigionia, giorno per giorno One man show e sorvegliato speciale, con le sue performance è una spina nel fianco del governo di Pechino
Se fosse giapponese, i suoi aforismi sull'esistenza, la politica, l'etica e il sogno di un mondo migliore si chiamerebbero «haiku». Ma Ai Wei Wei è cinese e il suo libretto di pillole di saggezza (e vita vissuta) si va quindi necessariamente a collocare fra le massime di Confucio e quelle delle celebri pagine rosse di Mao. In Weiweismi, pubblicato da Einaudi per la collana Stile Libero (a cura di Larry Warsh, traduzione di Alessandra Montrucchio, euro 10) la società cinese e il suo sistema antidemocratico che ne governa il bisogno di essere al passo col capitalismo e con le leggi più spietate del profitto viene messo a nudo. E circola tra le «sentenze morali» l'ossessione rappresentata da un'unica parola ripetuta in molte pagine: libertà. Di espressione, di fare ciò che piace, di lavorare non proprio allineati e telecomandati dall'alto, di essere creativi, anche ribelli e magari capricciosi.
Il j'accuse di Ai Wei Wei parte naturalmente da sé, dalla sua prigionia, dal suo essere un sorvegliato speciale privato di molti diritti, ma si allarga oltre le proprie mura domestiche e finisce così per descrivere una società agonizzante, che tenta il controllo ferreo («sui computer del governo esiste un solo tasto, cancella») e che fa acqua in ogni sua parte, perché con l'avvento della Rete e dei Social Network non si può oscurare, a tempo indeterminato, nessuna connessione tra internauti. «Invito a essere cittadini ossessionati, a non smettere mai di fare domande e di chiedere conto. È la sola possibilità che abbiamo oggi di vivere una vita sana e felice», dice l'architetto del Nido, lo Stadio di Pechino diventato il simbolo delle Olimpiadi. Che pure racconta gli orrori accadutigli, causa strenua opposizione alle politiche del suo paese: «Può succedere che a mezzanotte vengano in casa tua e ti portino via. Ti mettono un cappuccio nero in testa, ti trascinano in un luogo segreto e ti interrogano per ore, cercando di convincerti a non fare più quello che stai facendo».
Uomo mediatico per eccellenza, Ai Wei Wei è una vera spina nel fianco in Cina: abituato ad essere un one man show, l'artista ha utilizzato tutti i mezzi a disposizione per continuare a parlare e a farsi notare, compreso l'esilarante ballo collettivo su colonna sonora del tormentone coreano Gangnam Style e, ora, un disco con canzone «metal» che è una parodia della sua prigionia. Nella chiesa di sant'Antonin di Venezia, a côté degli eventi mondani della Biennale, ha offerto una delle sue mostre più impressionanti: in neri bunker/diorama ha rappresentato i momenti clou della sua vita da carcerato. Lo spettatore, sbirciando da «buchi» delle pareti e fessure, si trovava complice di quella triste condizione. Il set teatrale comprendeva modellini di se stesso, delle guardie e degli oggetti quotidiani della cella. Di giorni così, l'artista ne deve raccontare ottantuno, tanti sono stati quelli della sua detenzione nel 2011. L'acronimo S.A.C.R.E.D che dà il titolo all'installazione sta ad indicare le iniziali del percorso/Via Crucis: Suppers, Accusers, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt. In Laguna, a presenziare, c'era solo la madre ottantenne, ad Ai Wei Wei è stato ritirato il passaporto e non può lasciare la Cina. Lui però «esce» comunque, a modo suo: alle Zitelle, presso Zuecca Project Space, lo fa con Straight: centocinquanta tonnellate di barre di acciaio che appartenevano alle strutture degli edifici scolastici crollati durante il terremoto di Sichuan, nel 2008. Vennero seppelliti dalle macerie circa cinquemila bambini, ma ufficialmente la Cina fornì pochissime notizie e mise a tacere la sofferenza degli abitanti e dei genitori che avevano perduto i loro figli. Con l'installazione Remembering - novemila zaini appartenuti agli studenti coinvolti nel sisma - l'artista aveva già ricordato quella tragedia. Ai Giardini, sempre per la Biennale, era invece ospite nel padiglione tedesco. Ha allestito una giungla con ottocento sgabelli riciclati, una impalcatura che impedisce di fatto il passaggio ai visitatori, ricreando uno spazio labirintico e ostruito nel suo libero accesso.
Insomma, più lo zittiscono, più la sua notorietà internazionale dilaga, abbattendo la recinzione che gli hanno cucito addosso. Quando Pechino fece distruggere il suo studio (era stato accusato di aver fatto costruire una struttura di duemila mq senza permessi), la festa d'addio che Ai Wei Wei organizzò fece il giro del mondo, trasformandosi in un vero e proprio Grande Fratello della dissidenza.
Prima, tanto per ricordare qualcuna delle sue apparizioni nel mondo dell'arte, con mille e uno lavoratori cinesi nel 2007 si era presentato in Germania e aveva messo in scena Fairytale per Documenta 12 Kassel: semplicemente, la libera partecipazione alla kermesse culturale di comuni cittadini e un film sulle loro testimonianze. Dormivano tutti nei laboratori di una ex fabbrica della Volkswagen, stipati otto per minicabine, in una dura prova di resistenza fisica e psicologica.
Alla Tate di Londra disseminò il pavimento con i Sunflower Seeds, cento milioni di semi di girasole in ceramica che si polverizzavano quando venivano calpestati dal pubblico. Il museo dovette correre ai ripari e vietare l'attraversamento della sala per non provocare allergie e problemi di salute con l'inalazione dei detriti.
Ora per chi volesse sapere tutto su Ai Wei Wei, è uscito anche un dvd più libro per Feltrinelli: Never Sorry della giornalista e regista Alison Klayman, premio speciale della giuria al Sundance Film Festival 2012. Il documentario inizia nel 2008, immortala la brutalità della polizia che non ha lesinato aggressioni fisiche (l'artista fu sottoposto a un intervento chirurgico d'urgenza) e riprende le installazioni più emozionanti di Ai Wei Wei, tessendo da vicino i fili questa sorta di solitaria «epopea di un oppositore».

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