Può accadere che in un paese come in Cina,
durante la fase rivoluzionaria, sia stato elaborato un concetto di
classe commisurato con le caratteristiche della sua situazione sociale, e
che nella fase della rimozione linguistica del concetto di classe
(contemporaneamente o quasi alla rimozione anche in Occidente), sia
stata invece creata una vera e propria classe? In Cina, sì, può
accadere. Ora che il Dragone affronta la seconda fase del suo sviluppo
neoliberista, dopo che come tutto il mondo, anche se in modo diverso, ha
vissuto il suo 2008, ovvero l'anno che ha imposto il passaggio da un
modello economico ad un altro e che secondo il noto intellettuale cinese
Wang Hui chiude il Novecento cinese, ci si trova a chiedere quale
significato abbia la parola «classe» ( jieji in cinese) e in che modo il
concetto ad essa legato si è evoluto per arrivare ai nostri giorni. Da
quando cioè Mao si chiese quali erano gli amici e quali i nemici, per
forgiare un concetto di classe basato sulla condizione sociale più che
sulla posizione dei singoli all'interno del modo di produzione, la
storia cinese ha sancito un cambio di paradigma immenso. Da un lato sono
stati abbandonati Mao e Marx, almeno ufficialmente, per passare a
Weber, senza dirlo troppo in giro, contemplando una suddivisione tra
strati sociali ( jieceng) , che fosse in grado di preparare la Cina alla
nuova modernità occidentale e neoliberista. Ma proprio il processo
economico neoliberista ha finito per provocare prima una
proletarizzazione dei cosiddetti lavoratori migranti e infine una
proletarizzazione incompiuta, che riporta di attualità il tema della
classe, non solo nella riflessione che proviene da sinistra. Il 25 marzo
sul Time , Michael Schuman titolava un suo articolo «La rivincita di
Marx, come la lotta di classe sta formando il mondo». Schuman basa la
propria analisi soprattutto sull'ineguaglianza - diffusa in tutto il
mondo, in particolare in Cina, dove l'indice di Gini, per misurare il
coefficiente di diseguaglianza sarebbe allo 0,61 secondo alcune ricerche
pubblicate nei mesi precedenti - concentrandosi sul revival di Marx in
Cina, utilizzando come espediente un artista.
Il passato rimosso
L'aggancio
della Cina alla modernità neoliberista sembra contraddire, proprio per
la creazione di un conflitto tipicamente marxista tra lavoratori e
«borghesia», gli auspici di chi come Giovanni Arrighi - in Adam Smith a
Pechino (Feltrinelli), ma anche ne Il Lungo XX Secolo (Il Saggiatore) -
prevedeva che l'egemonia cinese potesse sganciarsi dal consueto modus
operandi del capitalismo (in particolare dal modello egemone esercitato
dagli Usa). Lo sviluppo cinese ha tuttavia finito per ricreare le stesse
dinamiche «occidentali», seppure in un contesto differente. Secondo Pun
Ngai e Chris King-Chi Chan «una nuova classe operaia cinese sta
lottando per nascere, proprio nel momento in cui il linguaggio della
classe è stato messo a tacere. La formazione di questa nuova classe
nella Cina contemporanea è stata strutturalmente tenuta in scacco dagli
effetti discorsivi e istituzionali» (Pun Ngai, Cina, la società
armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti , a cura e
con introduzione di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto, Jaca Book). Ma
quali sono questi effetti discorsivi e istituzionali? La risposta
investe necessariamente il concetto di classe, che il pensiero dominante
evita di affrontare, tranne in alcuni ambienti che spesso vengono fatti
ricadere nella generica definizione di Nuova Sinistra. Quest'ultima,
per altro, dopo la batosta seguita alla caduta di Bo Xilai, risulta ad
oggi sparpagliata e ormai priva di un corpo teorico unico.
La depoliticizzazione del partito
Per
quanto riguarda l'eliminazione del termine «classe», si tratta di una
vera e proprio rimozione storica. La Cina per agganciarsi al modello
neoliberista ha dovuto abbandonare il discorso politico, trasformando il
Partito Comunista in un metodo di governo da parte del potere
economico. Si è trattato di un vero e proprio processo di
depoliticizzazione generale, che ha modificato il Partito e la teoria
politica stessa, compreso il concetto di classe. Fino alla morte di Mao
il partito stesso era composto per lo più da contadini e operai. Come
sottolinea Joel Andreas nel suo Red Engineers: The Cultural Revolution
end the Origin of China's New Class, (Stanford University Press) il
cambiamento «teorico» è stato anche pratico nelle file del Partito. Nel
1949, l'80 percento del Partito era composto da contadini. Come
specifica Bo Yibo, il padre di Bo Xilai, il politico di «sinistra»
epurato a pochi mesi dal diciottesimo congresso del Partito, «era
naturale che il nostro Partito fosse composto da contadini e lavoratori
che avevano appena abbandonato il campo di battaglia». Dopo la morte di
Mao, Deng cominciò l'opera di erosione del passato. Fu poi Jiang Zemin
con la sua teoria delle tre rappresentatività ad abbondare il Partito
«classista» di Mao, trasformando il Pcc in un covo di burocrati, oggi
miliardari. Proprio Mao del resto aveva dovuto creare un concetto di
classe, che ha finito per uccidere il partito in fazioni, come conferma
David S.G. Goodman, professore di scienze politiche specializzato in
Cina dell'Università di Sidney. Recentemente con Beatriz Carrillo ha
scritto China's peasants and worker: changing class identity. «Tra il
settembre 1976 e l'aprile 1978 - afferma il docente australiano - ci fu
una vera e propria rivoluzione culturale in termini personali, con un
cambiamento del 65 per cento degli individui che occupavano posizioni di
leadership all'interno del Partito, di cui la maggioranza erano
"ritorni". All'epoca ci fu poco sviluppo teorico intorno al concetto di
classe, anche se il minimo dibattito tendeva a puntare il dito contro la
Banda dei Quattro». Con la crescita della Cina, in poco tempo, «la
classe dei lavoratori comprese di non essere più la ruling class del
paese», racconta Fred Engst nel suo ufficio dell'Università di Pechino
dove insegna economia. Comincia così l'era degli «ingegneri rossi» per
riprendere il discorso di Andreas, che porterà la sociologia cinese a
concepire una divisione sociale in strati (dieci) capace di annullare le
valenze di classe e preparare la Cina all'avvento dell'unica classe di
cui oggi si parla sui media e in alcuni ambiti accademici: la classe
media. Nel ventre della Cina la «classe media» costituisce il 10
percento della popolazione attiva, ma potrebbere rappresentarne il 40
percento in pochi anni. Crescono anche i fluttuanti, i lavoratori
migranti, il soggetto protagonista di una migrazione storica e oggi a
cavallo tra mondo rurale, senza essere agricoltori, e mondo urbano,
senza essere cittadini. «Bisogna distinguere - spiega Fred Engst che
sull'argomento ha scritto un paper, The Rise of China and Its
Implications - tra chi arriva dalla campagna ed ha il sogno da piccolo
borghese e chi invece è proletario cittadino e si sente completamente
operaio». Allude agli operai di nuova generazione che vogliono essere
definiti «operai e basta», come raccontano quando interpellati. Di fatto
sono un esercito che si muove, scruta e si agita, nel cui cuore forse
aleggia il nuovo sogno cinese: diventare laoban , boss, ovvero «classe»,
ma media.
RITRATTI - I suoi aforismi in un libro pubblicato da Einaudi, un documentario e tre mostre
Ai Wei Wei, l'epopea di un dissidente cinese
APERTURA - Arianna Di Genova il manifesto 2013.06.21 - 11 CULTURA
A Venezia, nella
chiesa di sant'Antonin, ha allestito il set della sua prigionia, giorno
per giorno One man show e sorvegliato speciale, con le sue performance è
una spina nel fianco del governo di Pechino
Se fosse giapponese, i suoi aforismi
sull'esistenza, la politica, l'etica e il sogno di un mondo migliore si
chiamerebbero «haiku». Ma Ai Wei Wei è cinese e il suo libretto di
pillole di saggezza (e vita vissuta) si va quindi necessariamente a
collocare fra le massime di Confucio e quelle delle celebri pagine rosse
di Mao. In Weiweismi, pubblicato da Einaudi per la collana Stile Libero
(a cura di Larry Warsh, traduzione di Alessandra Montrucchio, euro 10)
la società cinese e il suo sistema antidemocratico che ne governa il
bisogno di essere al passo col capitalismo e con le leggi più spietate
del profitto viene messo a nudo. E circola tra le «sentenze morali»
l'ossessione rappresentata da un'unica parola ripetuta in molte pagine:
libertà. Di espressione, di fare ciò che piace, di lavorare non proprio
allineati e telecomandati dall'alto, di essere creativi, anche ribelli e
magari capricciosi.
Il j'accuse di Ai Wei Wei parte naturalmente da
sé, dalla sua prigionia, dal suo essere un sorvegliato speciale privato
di molti diritti, ma si allarga oltre le proprie mura domestiche e
finisce così per descrivere una società agonizzante, che tenta il
controllo ferreo («sui computer del governo esiste un solo tasto,
cancella») e che fa acqua in ogni sua parte, perché con l'avvento della
Rete e dei Social Network non si può oscurare, a tempo indeterminato,
nessuna connessione tra internauti. «Invito a essere cittadini
ossessionati, a non smettere mai di fare domande e di chiedere conto. È
la sola possibilità che abbiamo oggi di vivere una vita sana e felice»,
dice l'architetto del Nido, lo Stadio di Pechino diventato il simbolo
delle Olimpiadi. Che pure racconta gli orrori accadutigli, causa strenua
opposizione alle politiche del suo paese: «Può succedere che a
mezzanotte vengano in casa tua e ti portino via. Ti mettono un cappuccio
nero in testa, ti trascinano in un luogo segreto e ti interrogano per
ore, cercando di convincerti a non fare più quello che stai facendo».
Uomo
mediatico per eccellenza, Ai Wei Wei è una vera spina nel fianco in
Cina: abituato ad essere un one man show, l'artista ha utilizzato tutti i
mezzi a disposizione per continuare a parlare e a farsi notare,
compreso l'esilarante ballo collettivo su colonna sonora del tormentone
coreano Gangnam Style e, ora, un disco con canzone «metal» che è una
parodia della sua prigionia. Nella chiesa di sant'Antonin di Venezia, a
côté degli eventi mondani della Biennale, ha offerto una delle sue
mostre più impressionanti: in neri bunker/diorama ha rappresentato i
momenti clou della sua vita da carcerato. Lo spettatore, sbirciando da
«buchi» delle pareti e fessure, si trovava complice di quella triste
condizione. Il set teatrale comprendeva modellini di se stesso, delle
guardie e degli oggetti quotidiani della cella. Di giorni così,
l'artista ne deve raccontare ottantuno, tanti sono stati quelli della
sua detenzione nel 2011. L'acronimo S.A.C.R.E.D che dà il titolo
all'installazione sta ad indicare le iniziali del percorso/Via Crucis:
Suppers, Accusers, Cleansing, Ritual, Entropy, Doubt. In Laguna, a
presenziare, c'era solo la madre ottantenne, ad Ai Wei Wei è stato
ritirato il passaporto e non può lasciare la Cina. Lui però «esce»
comunque, a modo suo: alle Zitelle, presso Zuecca Project Space, lo fa
con Straight: centocinquanta tonnellate di barre di acciaio che
appartenevano alle strutture degli edifici scolastici crollati durante
il terremoto di Sichuan, nel 2008. Vennero seppelliti dalle macerie
circa cinquemila bambini, ma ufficialmente la Cina fornì pochissime
notizie e mise a tacere la sofferenza degli abitanti e dei genitori che
avevano perduto i loro figli. Con l'installazione Remembering - novemila
zaini appartenuti agli studenti coinvolti nel sisma - l'artista aveva
già ricordato quella tragedia. Ai Giardini, sempre per la Biennale, era
invece ospite nel padiglione tedesco. Ha allestito una giungla con
ottocento sgabelli riciclati, una impalcatura che impedisce di fatto il
passaggio ai visitatori, ricreando uno spazio labirintico e ostruito nel
suo libero accesso.
Insomma, più lo zittiscono, più la sua
notorietà internazionale dilaga, abbattendo la recinzione che gli hanno
cucito addosso. Quando Pechino fece distruggere il suo studio (era stato
accusato di aver fatto costruire una struttura di duemila mq senza
permessi), la festa d'addio che Ai Wei Wei organizzò fece il giro del
mondo, trasformandosi in un vero e proprio Grande Fratello della
dissidenza.
Prima, tanto per ricordare qualcuna delle sue
apparizioni nel mondo dell'arte, con mille e uno lavoratori cinesi nel
2007 si era presentato in Germania e aveva messo in scena Fairytale per
Documenta 12 Kassel: semplicemente, la libera partecipazione alla
kermesse culturale di comuni cittadini e un film sulle loro
testimonianze. Dormivano tutti nei laboratori di una ex fabbrica della
Volkswagen, stipati otto per minicabine, in una dura prova di resistenza
fisica e psicologica.
Alla Tate di Londra disseminò il pavimento con
i Sunflower Seeds, cento milioni di semi di girasole in ceramica che si
polverizzavano quando venivano calpestati dal pubblico. Il museo
dovette correre ai ripari e vietare l'attraversamento della sala per non
provocare allergie e problemi di salute con l'inalazione dei detriti.
Ora
per chi volesse sapere tutto su Ai Wei Wei, è uscito anche un dvd più
libro per Feltrinelli: Never Sorry della giornalista e regista Alison
Klayman, premio speciale della giuria al Sundance Film Festival 2012. Il
documentario inizia nel 2008, immortala la brutalità della polizia che
non ha lesinato aggressioni fisiche (l'artista fu sottoposto a un
intervento chirurgico d'urgenza) e riprende le installazioni più
emozionanti di Ai Wei Wei, tessendo da vicino i fili questa sorta di
solitaria «epopea di un oppositore».
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