di Roberto Esposito Repubblica 23.6.13
domenica 23 giugno 2013
"Non è detto che lo smontaggio delle dicotomie moderne abbia di per sé un esito di emancipazione". Roberto Esposito sul postmoderno
Perché
il pensiero è chiamato a fornire nuove chiavi interpretative per fare
luce sulle contraddizioni e i conflitti della globalizzazione
di Roberto Esposito Repubblica 23.6.13
Un
tempo il mondo era diviso in due. Non alludo tanto alla stagione della
guerra fredda, quanto a qualcosa di più profondo e resistente che ha
caratterizzato tutta l’esperienza moderna. Ad essere articolato in
maniera bipolare appariva tanto il regime del potere quanto quello del
sapere. Basti pensare alla distinzione classica tra pubblico e privato, a
sua volta derivata dalla più antica partizione tra sfera della polise
ambito dell’oikos. Non soltanto il processo di riproduzione della vita
biologica non interferiva con il governo della città, ma ne costituiva
il limite invalicabile. La stessa distanza separava il mondo in divenire
della storia da quello ripetitivo della natura, secondo la frattura
riprodotta nel corpo del sapere dalla divisione tra scienze naturali e
scienze umane. Alla divergenza cartesiana dires cogitans eres extensa
corrispondeva, nel pensiero politico, quella posta da Hobbes tra stato
naturale e stato civile. Quando, inaugurando una nuova forma di
riflessione dialettica, Hegel situava il conflitto tra servo e padrone
all’origine della vita dello spirito, condizionava la stessa possibilità
della sintesi ad uno scontro tra tesi ed antitesi.
Questa visione
dicotomica, che per diversi secoli ha orientato il nostro modo di
pensare, e dunque di agire, subisce prima una scossa e poi, negli ultimi
decenni, un vero e proprio collasso. Diverse le sue cause, che vanno da
mutazioni antropologiche ad altre di carattere sociale, politico,
tecnico. Se già all’inizio del secolo scorso la vita biologica faceva il
suo ingresso nei calcoli del potere, l’universo del lavoro sfonda i
confini dell’economia fino a divenire questione politica centrale.
Quanto poi alla dicotomia tra natura e storia, già messa in questione
dalla categoria darwiniana di storia naturale, è stata a sua volta
largamente smontata da procedure tecniche destinate a modificare anche
quelle che erano considerate invarianti naturali. Il colpo finale,
rispetto alla bipolarità tra mente e corpo, è venuto dalle nuove scienze
neurologiche. Per non parlare della sovrapposizione tra virtuale e
reale nello spazio immateriale della rete. Tutto ciò è stato in buona
parte anticipato nella riflessione europea lungo traiettorie oblique
rispetto agli assi portanti della filosofia moderna. Se la sostanza
unica di Spinoza, dotata dei due attributi del pensiero e
dell’estensione, giàrompeva con il dualismo cartesiano, il fronte
filosofico che lega Nietzsche a Bergson decostruisce insieme realismo e
idealismo. Soggetto e oggetto non costituiscono più potenze separate e
concorrenti, ma si compenetrano in un flusso continuo che può definirsi
“volontà di potenza” come “evoluzione creatrice”. Si tratta, comunque,
di un processo irriducibile all’Uno come al Due e costituito piuttosto
da una serie infinita di differenze. L’autore che compie questo percorso
è Gilles Deleuze. Quelle che la tradizione metafisica ha considerato
rigide dicotomie – tra essere e divenire, soggetto e oggetto, realtà e
apparenza – diventano per lui forme di un movimento generativo di
elementi molteplici. Tra l’Uno e il Due si inseriscono i molti, in una
combinazione plurale, e sempre mobile, di singolarità.
Eppure se la
forza di questi autori risiede nel potenziale critico che scaricano sul
dispositivo metafisico della separazione, la loro eredità non è priva di
contraddizioni e ambivalenze. Non è detto che lo smontaggio delle
dicotomie moderne abbia di per sé un esito di emancipazione. Né che una
costellazione di infinite differenze sia risolutiva di vecchie e nuove
forme di esclusione. Certo il mondo contemporaneo non è né unipolare né
bipolare, ma multipolare. Ciò tanto in filosofia che in politica. Il
crollo del sistema sovietico non ha determinato l’egemonia di una sola
potenza. La globalizzazione ha prodotto un tale sommovimento da
destituire di fondamento non solo i concetti di centro e periferia, ma
anche di interno ed esterno. Se quello che si è chiamato terzo mondo
penetra nel primo, questo vede crescere a dismisura le proprie
disomogeneità interne. Le derive localistiche che hanno portato a guerre
interregionali nell’ex blocco sovietico sono esse stesse l’esito
autoimmunitario di quella generale contaminazione costituita dalle
dinamiche di globalizzazione. Questa si presenta come un insieme informe
di universale e particolare, di integrazione e frantumazione. A tali
contraddizioni bisogna dare forma sul piano politico e, prima ancora,
filosofico. L’idea ingenua che il conflitto, innescato dalla
ineguaglianza delle condizioni, possa essere neutralizzato da meri
espedienti tecnici si è rivelata una illusione dannosa. Occorre
ripensarlo in termini politici all’interno di un mondo irriducibile sia
alla grammatica monoteistica dell’Uno che alla logica escludente del
Due.
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