sabato 29 giugno 2013
Sivaismo
Risvolto
Composti nel IX secolo, "Gli aforismi di
Siva" (Sivasutra) sono una delle opere basilari del cosiddetto Sivaismo
del Kashmir, o Trika, "Triade". Riscoperti solo nel Novecento, gli
insegnamenti delle scuole Trika - che rientrano nell'ambito più vasto
del Tantrismo e sono improntati a un non-dualismo radicale
(paramàdvaita, "supremo non-dualismo") - si sono andati rivelando i più
alti raggiungimenti della speculazione e della spiritualità indiana di
ogni tempo, e hanno attratto un numero crescente di studiosi e di
ricercatori, dall'India all'Europa agli Stati Uniti. Secondo
l'insegnamento essenziale del Tantrismo, il progresso spirituale deve
essere visto non già come un cammino di negazione e di rinuncia, ma come
una coltivazione e intensificazione di tutte le linee di energia che
animano l'esistenza ordinaria e, in primo luogo, l'individuo nella sua
fisicità e nelle sue pulsioni, compresa quella sessuale. Il mondo non
appare quale un fosco e incerto sogno da cui risvegliarsi al più presto,
ma come la spontanea espressione del divino, che per suo tramite si
manifesta liberamente. In miracoloso equilibrio, il Tantrismo kashmiro
si muove tra spiritualità, epistemologia e una avanzatissima
speculazione che apre l'esperienza religiosa e filosofica alla
contemplazione estetica - ed è proprio negli ambienti tantrici sivaiti
che il pensiero estetico si definisce nella sua forma più compiuta,
elegante ed estrema.
Il desiderio e l'ascesi principi del mondo secondo il dio Siva
Negli aforismi sacri ed eterni del tantrismo una energia che distrugge e ricrea l'universo
di Giorgio Montefoschi Corriere 29.6.13
Secondo quello che è l'insegnamento centrale del Tantrismo, scrive
Raffaele Torella nella bella ed esaustiva prefazione agli Siva sutra,
Gli aforismi di Siva (Adelphi) «il progresso spirituale non è più visto
come un cammino di negazione e di rinuncia, ma come una coltivazione e
intensificazione — fino al parossismo e alla trasgressione — di tutte le
linee di energia che animano l'esistenza ordinaria e, in primo luogo,
la persona individuale, anche nella sua fisicità e nelle sue
pulsazioni».
Siva — racconta ancora Torella — è un dio che viene da lontano, ama i
luoghi inaccessibili, e la notte. Egli è pura energia. Una energia
talmente dirompente che, dilagando, può anche distruggere. Siva,
infatti, è Creatore e Distruttore: insieme. Così come — in una unione
degli opposti inestricabile — è asceta e animato da un inestinguibile
desiderio sessuale, rappresentato dal lingam, il fallo eretto. L'ascesi
(tapas) di Siva, dalla quale mai vorrebbe essere distolto, può durare
anche migliaia di anni, nella solitudine più completa. Parvati, la
figlia dell'Himalaya, solo con grandi sforzi e tentazioni riesce a
distoglierlo e a unirsi a lui in matrimonio. Allora, la potenza sessuale
che il dio manifesta è tale che può travolgere l'universo, e far sì che
l'universo sia solo kama, desiderio. Al punto che, con il suo terzo
occhio, Siva (per tornare all'austera ascesi di cui sente la nostalgia)
incenerisce il desiderio; oscurando in tal modo il mondo. Sarà Parvati,
di nuovo — secondo una leggenda trasferita in una quantità di leggende
che le assomigliano, e valgono per altri esseri mitologici e umani — a
resuscitare la voglia di congiungersi.
L'adepto, colui che insegue Siva, vivendo in se stesso questa
contrapposizione degli estremi — l'ascesi più pura, il desiderio più
travolgente e violento — si trasformerà in Siva. Si identificherà in
Siva. E lo adorerà: solo in quel momento. Ma come, l'adepto, può
arrivare a questa identificazione? Gli Agama, le scritture divine,
dicono: con il rito, la conoscenza, lo yoga e la condotta. Rito e
conoscenza, vale a dire: fare e pensare, si rispecchiano, e
continuamente si rincorrono. Una parte non può fare a meno dell'altra.
Tuttavia — e questa è davvero la sublimità dell'induismo, mai capita
quanto sarebbe necessario dalla mentalità occidentale — l'agire, il
fare, è più importante del pensare. Esistono dei livelli dell'essere ai
quali nessun tipo di pensiero, anche il più spericolato, ha accesso. A
quei livelli, a quella sostanza, si accede solamente attraverso la
prassi. E la prassi è il rito.
Si narra che Gli aforismi di Siva furono trovati incisi in una roccia
del Kashmir (che ancora viene mostrata al visitatore) da un asceta di
nome Vasugupta, vissuto fra la fine dell'VIII e il principio del IX
secolo dopo Cristo. Negli Aforismi — che risulterebbero impenetrabili
senza il commento di Ksemaraja, un altro saggio asceta vissuto un paio
di secoli più tardi in quella stessa regione fiorente di scuole e templi
in cui convenivano yogi da tutta l'India — è indicato qual è il
tracciato necessario a identificarsi con la Realtà Suprema, e cioè Siva.
Dunque. La Realtà Suprema non è altro che coscienza. Però, non una
coscienza ferma. È una coscienza (spanda) che ha in se stessa una
inesauribile vibrazione. Questa vibrazione si propaga al mondo:
all'apparire. Che è illusione, sogno, dal momento che non esiste altro
che come coscienza. Con un procedimento che ricorda molto quello che
spiegano i testi cabbalisti, Siva, il Dio, si contrae, si macchia, e in
quel modo conosce se stesso riflettendosi nell'universo. L'adepto che
vuole diventare Siva, e percorre l'itinerario che consiste nel rito,
nella conoscenza, nello yoga e nella condotta, sentirà a un tratto
dischiudere se stesso. Sentirà che i suoi limiti bruciano e si annullano
come il fuoco. E lui, liberandosi dalla dolorosa trasmigrazione,
diventa coscienza pura.
La letteratura religiosa dell'India antica è principalmente una
letteratura «di commento». Anche la parola, dicono i saggi indiani con
grandissima parte di verità, è un limite. È uno dei limiti che meglio
descrivono la nostra prigione. Va detto, però, che lo sforzo estremo
compiuto dagli esegeti per penetrare nell'ineffabile, ed esplicarlo in
qualche modo, può raggiungere vette di bellezza e di intensità
straordinarie. Come nei commenti di Ksemaraja. Valga, per tutti, il
commento al sutra numero dodici, che recita: «Gli stati dello yoga sono
stupore». Questo, il commento di Ksemaraja: «Come uno che vede una cosa
fuori dell'ordinario prova un senso di stupore, così il sentimento dello
stupore, nel godere intensamente del contatto con le varie
manifestazioni della realtà conoscibile, continuamente si produce in
questo grande yogi con tutta intera la ruota dei sensi, sempre più
dispiegata, immota, pienamente dischiusa, in forza della penetrazione
nella sua più intima natura, unità compatta di coscienza e meraviglia
sempre nuova, estrema e straordinaria. È uno sgorgare continuo di
sbalordimento, sempre più intenso in quanto mai è saziato...».
Lo stesso sbalordimento che il viaggiatore prova nel piccolo museo di
Tanjavur (Tamil Nadu), di fronte ai meravigliosi bronzi estatici del Dio
creatore, distruttore, danzatore, mendicante, di epoca medievale.
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