Risvolto
Ottimista, federalista e filo americano. Ecco l'"altro" Camus
A un secolo dalla sua nascita e a quasi 54 anni dalla sua morte, conviene a tutti rileggerlo e riascoltarlo. Ecco una silloge dei suoi pensieri
Camus, punti fermi per evitare lo scontro di civiltà
Lo scrittore deve saper svelare anche i dubbi angosciosi del rivoluzionario Dietro i dubbi l’angoscia (la speranza) del vivere
di Albert Camus Corriere 31.10.13
La rivolta e l’intransigenza che l’avvicinano a Calvino
Camus è un mito, un amore, un partito preso. Piace senza se e senza ma, piace anche a chi ne ha sentito parlare senza averlo letto. È un contagio: a un secolo dalla nascita e a oltre mezzo secolo dalla morte, è vivo nell’aria morta della letteratura. Le sue frasi trafiggono la ragione come spade di gelida luce. Non possiamo sottrarci a Camus quando scrive: «Il senso dell’assurdo, alla svolta di una qualunque via, può cogliere qualunque uomo». Il suo fascino è in una geniale, apparente contraddizione perché, come ha scritto Montale, al solito ineguagliabilmente lucido, «il suo nichilismo non esclude la speranza, non dispensa l’uomo dal difficile compito di vivere e di morire con dignità». Solo un grande riesce a spiegare un altro grande con tale semplicità.
Albert Camus è dunque lo scrittore francese, l’intellettuale nel senso più pieno del termine, più coccolato, oltre che ammirato, dai lettori italiani. È anche una moda che resiste come raramente resistono le mode, è una bandiera. È l’espressione d’un gauchismo libero e ribelle di cui le nostre generazioni, le generazioni con i capelli bianchi, sentono la nostalgia. E i giovani, quanti fra loro hanno il suo nome sulle labbra? Credo che pensino a lui come a un altro scrittore, stavolta italiano, di statura diversa e meno manifestamente contagiosa. Intendo riferirmi a Italo Calvino. L’autore delle bellissime Lezioni americane come l’autore dello Straniero sono manifestamente quelli, fra i maestri del Novecento, che più piacciono alle nuove generazioni, alle loro impazienze di rottamatori del tempo perduto (quello di Pasolini, gettonatissimo, è un caso diverso). Che senso ha accostare Camus e Calvino? Non hanno niente in comune. O invece sì, qualcosa in comune ce l’hanno? Qualcosa che li riguarda come uomini, figli fino in fondo all’anima del loro tempo? Vediamo. Per entrambi la morte è arrivata prematuramente, a passi di lupo, consegnandoli al rimpianto della storia prima che le ombre dei ripensamenti crudeli, d’un uso e abuso della propria figura pubblica e della propria intelligenza, potesse guastarne l’immagine. Ecco che cosa hanno in comune, un modo di affrontare la vita impegnato e severo, che rispecchia una intransigenza all’occorrenza sfumata di moralismo. L’intransigenza delle generazioni che ereditarono dai padri, dai fratelli maggiori il maquis, la Resistenza, un mondo libero, ma da ricostruire dopo la barbarie nazifascista. Proprio in quella luce Camus e Calvino avrebbero fatto i conti anche con lo stalinismo, con un comunismo che aveva tradito i suoi ideali. I giovani sentono, leggendoli, che dietro le loro pagine c’è una svolta decisiva compiuta dalla letteratura del secolo breve. Un mutamento di prospettiva che li convince.
Il filosofo della libertà dagli ipocriti
Lo scrittore avrebbe compiuto oggi cent’anni Nelle sue opere si rintracciano un programma etico-politico una diagnosi impietosa dell’oggi e un’autentica idea del futuro
di Paolo Flores D’Arcais Repubblica 7.11.13
PUBBLICHIAMO parte dell’intervento che Paolo Flores d’Arcais ha pronunciato ieri a una conferenza organizzata dalla città di Bellinzona con la Radio televisione della Svizzera italiana. Il testo integrale dell’intervento sarà disponibile da domani sul sito www.micromega.net. in formato ebook (al costo di euro 2,99). Nello stesso ebook è presente l'intervista alla figlia di Camus, Catherine, Mio padre, solitarie, solidaire. Per celebrare il centenario, dalla mezzanotte del 6 novembre alla mezzanotte del 7 novembre, tutti i 'navigatori' del sito possono scaricare gratuitamente l’ebook.
Considero Camus uno dei rarissimi 'filosofi del futuro', la cui impostazione di pensiero e il cui programma eticopolitico possano costituire un vero e proprio promemoria per una 'filosofia dell'avvenire' che provi a realizzare, all'insegna di un autentico realismo esistenziale, tanto Feuerbach («Io sono, anche quando penso, anche in quanto filosofo, un uomo insieme con altri uomini» e «la vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l'io e il tu») che Marx («I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo»).
Provo a trasmettere questa convinzione con qualche rapsodica citazione accompagnata da glosse amargine. (...) La scelta etico-politica di Camus nasce come indignazione di fronte a due evidenze intollerabili e concrete che in termini tradizionali potremmo definire una materiale e una spirituale. Cominciamo da quest'ultima: «Il grande peccato della società borghese è stato di fare di questa parola [libertà] una mistificazione senza contenuto».
L'ipocrisia, questo il peccato inespiabile della società borghese.Le promesse non mantenute, le parole tradite. I borghesi sono i farisei, i sepolcri imbiancati della nostra epoca. Quelli che ammantano le Costituzioni delle parole che incantano, che mobilitano, che guidano le rivoluzioni, che spingono fin al sacrificio della vita, o all'esilio, alla prigione, alla tortura (...), ma che immediatamente dopo calpestano nella vita politica quotidiana, nei gesti e nelle iniquità del potere, i valori con cui avevano 'rovesciatoil mondo'. C'è un dipinto/icona nella grande arte francese moderna, La libertà che guida i popolidi Delacroix, quella bellissima donna fiera e a seno nudo, che resta il 'J'accuse' contro ogni potere che l'ha infangata e umiliata. Del resto, gli editoriali di Camus suCombatcostituiscono la testimonianza e la cronaca giornaliera, talvolta ora per ora, dell'ultimo grande tradimento, quello delle speranze sollevate dalla Liberazione.
Dunque, la lotta contro l'ipocrisia, per la realizzazione dei valori scritti nelle parole umiliate e offese. Il carattere attualissimo di questa strategia politica che sembra poggiare su una modestissima istanza etica, recentemente lo si è potuto constatare due volte: nella lotta dei dissidenti contro i regimi comunisti dell'est, quando, a partire dalla lucida intuizione dei polacchi Kuron Modzelewski e Michnik, e con Havel in Cecoslovacchia, e via via amacchia d'olio, ci si limita a pretendere l'applicazione della legge che 'loro' hanno imposto, e che in teoria garantisce le più grandi libertà ai lavoratori nei 'paradisi' in fieri del 'socialismo'. Inchiodando così i regimi alla loro contraddizione, facendo delle parole del regime l'arma sovversiva e libertaria contro le sue pratiche totalitarie di potere.
Oggi, in condizioni meno drammatiche e soprattutto meno visibili, più anestetizzate, la stessa cosa accade nelle società occidentali. Le Costituzioni contro il potere, le Costituzioni come programma politico di cambiamento radicale. Del resto, cosa c'è di più estremista della triade 'Libertà, eguaglianza, fratellanza', dove ogni valore successivo è l'interprete autentico di quello precedente? Scolpito a lettere d'oro in tutti gli edifici pubblici e calpestato senza ritegno nelle politiche sostantive del privilegio e della menzogna? Della nostra Costituzione repubblicana non aggiungo, poiché lo hanno già fatto i cittadini scendendo in piazza qualche settimana fa per chiederne la realizzazione.
E veniamo all'intollerabile evidenza materiale: «La cupidigia, l'egoismo infinito, la cecità soddisfatta, i bassi privilegi delle nostre classi dirigenti» condannano «la viltà della società borghese». Camus scrive queste righe nel periodo dell'immediato dopoguerra, quando i sacrifici della ricostruzione non venivano ripartiti secondo 'equità' se non nelle retoriche dei politici e della stampa conservatrici. Eppure quelle diseguaglianze, che negli anni sessanta e settanta avrebbero visto significative limitazioni, grazie al combinarsi del boom economico e dell'onda lunga del sessantotto, sono ingiustizie da dilettanti rispetto al loro disfrenarsi incontrollato e spudorato che sta travolgendo le democrazie della crisi finanziaria.(...) Tiriamo allora la prima somma: per Camus, rifiutare l'ipocrisia e volere la democrazia significa automaticamente essere di sinistra. «Sono nato in una famiglia, la sinistra, nella quale morirò». Di questa famiglia, tuttavia, gli è «difficile non vedere il decadimento». Ancor più difficile non considerare questeparole come una diagnosi impietosa dell'oggi. Perché la sinistra di cui era «difficile non vedere il decadimento » era ai tempi di Camus quella comunista. Quella di una minacciata rivoluzione, che però tradiva già nel suo progettarsi, perché «anche e soprattutto quando si dichiara materialista, è solo una smisurata crociata metafisica». Che all'inizio si manifesta attraverso i suoi martiri, e perciò si confonde con la rivolta autentica, ben presto, però, «sopraggiungono i preti e i bigotti». Contro quella sinistra Camus appoggerà ogni dissenso nell'est, e nel 1956 sintetizzerà così il dovere di una sinistra autentica «L'Ungheria sarà per noi ciò che fu la Spagna vent'anni fa».
Ma la sinistra di oggi, il cui 'decadimento' è peggio che tracollo, e per la quale le parole di Camus contro l'ipocrisia borghese sarebbero a malapena sufficienti, è ormai diventata parte integrante dell'intreccio politico-finanziario-corruttivo (con crescenti 'dependance' mafiose) che caratterizza, in dosaggi diversi, ogni establishment occidentale. (...) Camus militante di sinistra, senza se e senza ma, e dunque senza nessuna accondiscendenza per chi i valori della rivolta tradisce, infanga, dimentica. Il primo di quei valori è il rifiuto della menzogna. «La libertà consiste in primo luogo a non mentire». La menzogna, infatti, distrugge «la complicità e la comunicazione scoperte attraverso la rivolta ». Perfino profetico, infine, il Camus che vede il tradimento comunista della rivolta e l'ipocrisiaborghese contro la democrazia condividere un cinismo morale che sembra rendere possibile una «fusione della società poliziesca con la società mercantile». (...) Ma l'intransigenza etica e la dirittura politica, irrinunciabili, non hanno in Camus mai la iattanza della certezza, anzi. «È possibile fare il partito di quelli che non sono sicuri di avere ragione? Sarebbe il mio». In totale consonanza con un verso del suo grande amico René Char, tra i più grandi poeti del secolo, e 'capitaine Alexandre' nella Resistenza: «Il dubbio si trova all'origine di ogni grandezza». Ecco perché, allora «la misura non è il contrario della rivolta». Anzi, «se la rivolta potesse fondare una filosofia, sarebbe una filosofia dei limiti, dell'ignoranza calcolata e del rischio». L'uomo incerto, l'uomo del relativo, e che perciò si impegna. Poiché nulla è garantito, poiché tutto è esposto allo scacco, e dunque ciascuno è responsabile di quel poco di senso - fragile, parziale, definitivamente provvisorio - che possiamo consegnare all'esistenza.
Quel finto attentato organizzato dal Kgb
Un libro rilancia una tesi senza riscontri: l’autore della “Peste” fu uccisodi Giuseppe Dierna Repubblica 7.11.13
È imbarazzante dover difendere il Kgb, ma ci sono troppe cose – be’, diciamo: tutte - che non quadrano nel volume di Giovanni CatelliCamus deve morire,per credere davvero che il feroce apparato sovietico possa aver organizzato l'incidente automobilistico in cui il 4 gennaio 1960 è morto Albert Camus insieme al suo editore Michel Gallimard, mentre moglie e figlia di quest'ultimo ne uscivano quasi illese.
Qual era (qual è) la tesi sostenuta? Sulla base di una quindicina di righe annotate nel 1980 nel proprio diario dal poeta e traduttore ceco Jan Zábrana (che dice di aver avuto l'informazione da «un uomo che conosce parecchie cose »), Catelli sostiene che un intervento di Camus suFranc-Tireur del marzo 1957 in difesa degli insorti ungheresi e di condanna del cruento intervento sovietico aveva indotto l'allora ministro Dmitrij Šepilov – esplicitamente chiamato in causa – a ordinare la sua eliminazione fisica.
È chiaro che Zábrana va a memoria, e anche maldestramente. Šepilov viene infatti da lui definito ministrodegli Interni,mentre era agli Esteri, ma soprattutto sia lui che Catelli (che corregge senza dir nulla l'errore e parla di 'esattezza assoluta') sembrano ignorare il successivo destino del presunto carnefice di premi Nobel che, accusato di aver ordito - insieme al più noto Molotov - un tentativo di colpo di Stato, viene destituito già nel luglio del '57 e spedito come ambasciatore in Mongolia. E gli era andata anche bene che le destituzioni non passassero più per il plotone d'esecuzione, ma sembra lo stesso poco probabile che dall'impervia Mongolia egli potesse gestire stragi di cittadini francesi. Del resto gli interventi pubblici di Camus sull'Ungheria erano finiti nell'ottobre del '57 (con un'appendice nel dicembre '58), e il filosofo era ormai interamente assorbito dal turbolento evolversi della situazione nella sua Algeria. Nel '60 erano scomparsi entrambi dalla scena, e la vendetta inutile e tardiva.
E come sarebbe stato compiuto l'attentato? Scrive Zábrana: «pare avessero danneggiato un pneumatico dell'auto, utilizzando un marchingegno che con l'alta velocità lo aveva tranciato o perforato». Il suo informatore sembra più un assiduo frequentatore dei film di James Bond, e certo gli dev'essere rimasta impressa la nota sequenza inMissione Goldfinger, lì dove Bond fa uscire dalla ruota della sua Aston Martin dei coltellini rotanti che squarciano i copertoni della sua inseguitrice, anche se nel caso di Camus viene non meno fantasiosamente prospettato un meccanismo che blocchi o faccia scoppiare la gomma dall'interno.
Con pericolosa reazione a catena, già un paio di anni fa la notizia (diciamo: la farlocca congettura) era lievitata in rete, per cui lo scrittore Catelli diventava, in pochi passaggi, uno 'slavista', e infine un più affidabile 'universitario', mentre la fonte di Zábrana, lo sconosciuto «che conosce parecchie cose», si trasformava con delirante automatismo prima in un 'agente sovietico' e infine in uno che frequenta i piani alti del Potere. Dal canto loro, i maggiori biografi di Camus (Olivier Todd, Herbert Lottman, Michel Onfray) avevano all'unisono bollato come priva di fondamento tale ipotesi.
Ma torniamo a questo fantomatico informatore che – annota Zábrana - «si era rifiutato di dirmi come aveva ottenuto l'informazione, ma sosteneva che era del tutto sicura e che lui sapeva con assoluta certezza che era andata proprio così». Informatore e garante allo stesso tempo. Per chi in quegli anni ha frequentato i paesi dell'Est, l'uomo 'informato su fatti segreti' era una figura ricorrente. Giovanotti ben informati assicuravano che Jaroslav Hašek, quand'era in Russia sul finire della Guerra Mondiale, aveva ordinato fucilazioni in massa di suoi connazionali. Per capire l'epoca e il tipo di circolazione delle notizie basta d'altronde leggere, nel diario in questione, poche pagine prima, lo “scoop” di un amico che confida a Zábrana – da fonti certe – che il Pulitzer quell'anno l'avrebbe avuto Milan Kundera. Ma il Pulitzer è un premio per americani.
Insomma, il diario di Jan Zábrana, ricco peraltro di interessanti notazioni, era uscito a Praga nel 1992 (poi di nuovo nel 2001), e lì in questi vent'anni nessuno – conoscendo bene l'epoca, ansiosa e un po' paranoica, che le aveva generate – mai aveva pensato di prendere sul serio le 15 righe sul 'delitto Camus'. E che poi queste – come subdolamente lamenta Catelli - manchino nella versione francese e italiana (uscita col titoloTutta una vitapresso la :duepunti edizioni) non stupisce affatto, avendo il curatore Patrik Ourednik scelto solo un centinaio delle originarie millecento pagine. Quelle credibili.
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