Stefano Pivato è il rettore della mia università. Non mi si accusi di piaggeria però, perché ci siamo tolti il saluto alcuni anni fa e tuttora comunichiamo per lo più solo per insultarci (sua colpa, a mio avviso, quella di aver trasformato una speranza di rinnovamento della nostra università in un incubo baronale che regge il confronto con il feudalesimo degli anni precedenti e che marcia in piena coerenza con l'ispirazione complessiva della controriforma dell'università italiana). Tuttavia un libro interessante è un libro interessante, e dunque complimenti [SGA].
Stefano Pivato:
I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda,
Il Mulino
Risvolto
L’accusa di mangiare i bambini è stata – ed è ancora,
non avendo mai veramente abbandonato il linguaggio della comunicazione
politica – l’invenzione in assoluto più fortunata della propaganda
anticomunista. Una leggenda fiorita sulla verità degli episodi di
cannibalismo registrati in Unione Sovietica durante le terribili
carestie degli anni Venti e Trenta. Il libro racconta come questo slogan
abbia in realtà le sue radici nella battaglia che nel Novecento la
politica ha iniziato a condurre in merito all’infanzia e al suo
controllo: fra Chiesa e Stato laico ancora a fine Ottocento, fra
organizzazioni cattoliche e comuniste nel secondo dopoguerra. Una
battaglia fatta di notizie false, come quella della deportazione di
migliaia di bambini siciliani in Urss durante la guerra, di manifesti
truculenti, di evocazioni che fanno appello a timori ancestrali e
finiscono per costruire l’efficace spauracchio dell’«orco» comunista.
Leggende
Roberto Beretta Avvenire 17 gennaio 2014
«Quando i comunisti mangiavano i bambini»
Un libro dello storico Stefano Pivato spiega com’è nata la leggenda. Anni 20: carestia in Urss, poi casi (veri) di antropofagia. La notizia (falsa) di rapimenti rilanciata dalla Rsi. La guerra fredda, le elezioni e i manifesti di Boccasile
Corriere della Sera 04 gennaio 2014
Ma perché i comunisti mangiano i bambini?
Quell’orco nato nel Natale del ’43
di Simonetta Fiori Repubblica 10.11.13
Oggi dicono che accada il contrario, che siano i bambini a mangiarsi i
comunisti, o quel che resta di loro. Ma quella dell’orco rosso,
terrifico divoratore dell’infanzia, non è una favola che si possa
facilmente liquidare. Perché come tutte le leggende racconta molti dei
pregiudizi, degli odi e dei timori di una comunità. E nel nostro caso
racconta la storia di un Paese che fatica a crescere, ancora prigioniero
d’una credulonità contadina e di un’eccitazione emotiva comprensibile
solo in tempo di guerra. Un’Italia che ancora non riesce a chiudere
completamente con una delle invenzioni più fortunate e resistenti della
comunicazione politica novecentesca. La bestia di Pollicino ridipinta
con le sembianze mongole di Stalin. O, più in generale, la leggenda dei
comunisti che si nutrono di carne tenera.
Lo specchio moltiplicatore del web la riproduce ovunque nella scena
planetaria. Basta un click perché si riverberi in tutte le lingue del
mondo. Uno storico da sempre attento alla mentalità, Stefano Pivato, s’è
preso la briga di andare a contare i siti sull’argomento, stupefatto
dall’enorme diffusione del mito. Ma soltanto da noi può vantare un
record che attiene alla durata e soprattutto al suo radicamento, non
solo nei recessi dell’immaginario popolare ma nella dignità ufficiale
della sfera pubblica. Ed è il bel saggio di Pivato a farcelo notare (I
comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, Il Mulino). Dal
ventennio nero a quello azzurro, dagli articoli di Mussolini a quelli
contemporanei delGiornale, da Guareschi a Berlusconi, passando per
Cossiga che regala gustose bamboline di zucchero al neopremier D’Alema,
il ceto politico e intellettuale italiano si mostra affezionato a uno
degli archetipi più perturbanti della vulgata anticomunista. E se non
mancano le ragioni storiche — la lunga esperienza del fascismo che di
quel mito fu l’iniziale propagatore e la presenza in Italia del più
grande partito comunista d’Occidente — bisognerebbe però affidarsi a un
bravo psichiatra collettivo per risalire alle cause di una patologia
ancora corrente.
A svuotarne il senso originario non sono bastate neppure le armi della
satira, che ha risposto con oltre cinquant’anni di ritardo a un accorato
appello di Pietro Ingrao rivolto all’intellighenzia italiana: «Ci sarà
mai uno scrittore che sappia bollare questi seminatori di discordia?».
Ci ha provato Paolo Villaggio in uno dei suoi racconti surreali,
immaginando un ingolosito Togliatti che ordina bambini fritti, mentre
Nenni appesantito da una fastidiosa gastrite ne ordina uno crudo,
«possibilmente ancora vivo». E se Gaber cantava «Qualcuno era
democristiano perché i comunisti mangiavano i bambini», più di recente
Crozza ne ha ricavato un personalissimo albero alimentare: «Fassino è la
dimostrazione che i bambini non fanno ingrassare». Ma soltanto sette
anni fa Palazzo Chigi doveva chiedere scusa al governo di Pechino per
una gaffe del premier, che aveva evocato prelibati bolliti di neonati in
salsa cinese.
Come tutte le leggende, anche questa dell’antropofagia comunista parte
da un elemento di realtà, che però viene stravolto nell’estro cupo della
propaganda. E l’origine va cercata nelle pratiche cannibaliche fiorite
in Urss tra gli anni Venti e Trenta nei luoghi delle carestie. Figli
sbranati per fame. Costolette umane servite al mercato nero. Vedove che
rivendicano la carne del marito morto. E genitori allucinati che per
nutrire i primogeniti sacrificano i minori. Tragedie della fame che con
passo biblico sono state narrate da Koestler, da Salamov, da Grossman e
da una preziosa letteratura storiografica che ha fatto luce sulle grandi
carestie sovietiche e più tardi sull’assedio di Leningrado. Storie
terrificanti che però ci parlano non di comunisti vocati al cannibalismo
per cieca fede, bensì di povera gente vittima del comunismo, condannata
a farsi bestia anche in conseguenza della sciagurata collettivizzazione
forzata delle campagne voluta da Stalin. Quello dell’antropofagia — ci
ricorda Pivato — è un fenomeno trasversale alle diverse nazionalità,
dettato da condizioni eccezionali e non dal credo politico. Il regime
sovietico tentò di soffocarlo con il carcere e le fucilazioni. Ma la
propaganda di Mussolini fu abile nel trasformare la disperazione in
ideologia, promuovendo la cannibalizzazione a metafora di un sistema
vorace. In questa operazione fu certo aiutata dalle prime notizie —
queste sì veridiche — che giungevano dall’inferno comunista, tra i gulag
e le esecuzioni di massa. E il clima di forte emotività portato dalla
guerra avrebbe fatto il resto.
L’orco comunista arrivò in Italia nel Natale del 1943. Le famiglie
furono raggelate da un articolo comparso sulla prima pagina deLa Stampa.
“I ragazzi e bimbi italiani saranno deportati in Russia. Partiranno
dalla Sicilia per un viaggio lungo lungo, che per i più non avrà
ritorno”. Anche qui la fantasia dei cronisti galoppò a briglia sciolta.
Scene di disperazione nei porti dell’isola. Donne straziate dal dolore.
Padri suicidi insieme ai figli, strappati con la morte a un destino
crudele deciso niente meno che da Vysinskij, procuratore generale delle
grandi purghe staliniane. La notizia ballò per giorni e giorni, con
tanto di naufragio di una delle navi e una crescente corresponsabilità
di alleati inglesi e americani. I disegni di Walter Molino sullaDomenica
del Corriere e i manifesti della Repubblica Sociale provvidero a
fornirne una documentazione iconografica. Naturalmente si trattava di
una “bufala”, una delle più clamorose costruite dal fascismo durante la
guerra. Nessun bambino italiano fu deportato in Unione Sovietica. Ma la
favola era già scritta, nutrita dai timori ancestrali di una comunità
scossa dalla guerra. Nell’immaginario nazionale era entrato il terribile
Moloch rosso.
La storia però resterebbe incompleta se non aggiungessimo che in Italia
l’orco esisteva già da tempo. E non con il volto peloso di Stalin ma in
abiti talari, «simbolo di un fagocitante cannibalismo cattolico ».
Pivato evoca le tavole di Galantara — irriverente vignettista
anticlericale — che sul finire dell’Ottocento riproduceva «preti e frati
con sembianze feroci dietro le sbarre di una prigione». O anche
«nell’atto di stritolare tra le mani fanciulli indifesi ». O ancora «con
bocche smisurate pronte a inghiottire frotte di scolaretti». Era in
gioco il controllo dell’educazione dei bambini, che con la nascita dello
Stato italiano era stata affidata alle scuole laiche. La satira
cattolica non restò certo a guardare, sfigurando in panciute fattezze i
nemici della sinistra accusati di furto di tessere. Un appetito bestiale
si stava impadronendo dell’iconografia e del linguaggio pubblico
italiano, presto tradotto nelle sembianze di lupi, pescecani, avvoltoi,
piovre e serpenti scagliati contro il nemico. Cominciava così quella
«zoologia del terrore» che avrebbe caratterizzato la cannibalizzazione
politica del Novecento.
Da qui arriva anche il nostro orco comunista, che attraversa indenne il
XX secolo. Fino a far capolino nelle redazioni e nelle istituzioni
pubbliche del nuovo millennio. Anche quando i comunisti non ci sono più.
E quel polveroso Barbablù rischia di diventare la favola triste di un
paese mai diventato adulto.
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