venerdì 17 gennaio 2014

Arte e saccheggio

Sergio Romano: L'arte in guerra, Skira

Risvolto
“Queste brevi cronache di ciò che è accaduto in poco più di duecento anni in Europa e negli Stati Uniti aiuteranno forse a capire meglio avvenimenti più recenti come l’incendio della biblioteca di Sarajevo, il pericolo che incombe sui monasteri ortodossi del Kosovo, la distruzione talebana dei giganteschi Buddha nella valle di Bamiyan, il saccheggio del museo di Baghdad e di alcuni siti archeologici della Mesopotamia dopo la guerra del 2003, quello del Museo nazionale del Cairo e di altri musei provinciali egiziani dopo l’inizio delle rivolte arabe, gli irreparabili danni subiti dalla Grande Moschea di Aleppo e dal vecchio quartiere cristiano della città. In queste pagine vi sono i grandi musei, le grandi collezioni, i grandi saccheggi e, per l’arte dell’odiato nemico, i grandi roghi. Tutti sono un omaggio alla potenza dell’arte.” Sergio Romano Il libro ripercorre alcuni momenti e casi storici in cui l’arte ha dovuto “fare la guerra” ed è divenuta terreno di conquista: la Rivoluzione francese, l’era napoleonica, il Risorgimento italiano, i saccheggi coloniali, la politica artistica di Hitler, la Guerra civile spagnola, i vizi e le virtù del grande collezionismo, la Prima e la Seconda guerra mondiale, la politica delle restituzioni dopo la fine di un conflitto. Può forse servire a comprendere perché l’arte possa essere amata, concupita e spregiudicatamente conquistata, ma anche odiata, perseguitata e distrutta. Non è soltanto il più desiderabile ornamento della nostra vita, ma anche un attributo del potere; ed è quindi inevitabilmente destinata a diventare preda, bottino, simbolo di legittimità da trasmettere e da ereditare. Ma anche destinata, quando si identifica con il nemico, a fare la sua stessa fine. Sergio Romano, storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano, è editorialista del “Corriere della Sera”. Sua la rubrica “Lettere al Corriere”. Il suo ultimo libro è Morire di democrazia, Longanesi, 2012.

Saccheggi e rapine: la guerra dell’arte
Imperi e collezionisti all’inseguimento dei capolavori Sergio Romano racconta la storia di un’ossessione
di Arturo Carlo Quintavalle Corriere 17.1.14
Il turista che viaggia per musei lo sa bene, ma forse non vuole rendersene conto: «La proprietà (dell’arte) è un furto». No, non è una affermazione neo o post-marxista, ma una constatazione di fatto. Se avete viaggiato nelle grandi capitali, poniamo a Parigi fra il Musée de l’Homme e il Louvre, a Londra fra British e Victoria and Albert, a Washington alla National Gallery, a New York al Metropolitan, e potremmo continuare con la Berlino della Museum Insel e con centinaia di altri luoghi simbolici della storia della cultura, sapete bene che le grandi raccolte, quelle imperiali inglesi, o prussiane, o francesi, e ancora quelle dei grandi collezionisti statunitensi nascono da precise vicende storiche: la sconfitta e la scomparsa di Stati minori, o di nobili famiglie, dunque guerre guerreggiate in passato, guerre economiche, oggi. 
Sergio Romano si colloca in prospettiva storica, forse proprio per mettere a confronto due modi e due tempi del depredare, oggi diremmo del collezionare. Comincia infatti da Vivant Denon, che univa insieme, recandosi in Egitto con la spedizione napoleonica del 1798-1801, una grande esperienza dell’arte occidentale dall’antichità al Rinascimento e oltre, a una forte attenzione per la civiltà dell’Egitto. 
La sua storia è singolare: Napoleone gli mette a disposizione una intera compagnia di soldati e lui, Denon, con quella, viaggia dalle piramidi di Giza a Tebe e al Sud, disegnando, analizzando i monumenti della regione e ponendo le basi di quello che sarà per cento e più anni il totale saccheggio della terra dei faraoni, portato avanti da inglesi, francesi, tedeschi, italiani e altri ancora. Lo provano le grandi raccolte di antichità egizie nei musei dell’Occidente. Lo stesso si dica per l’arte cinese, giapponese, medio ed estremo-orientale. L’arte dunque è simbolo del potere di chi la possiede e così Denon, seguendo il programma napoleonico, pensa il Louvre come luogo dove concentrare l’intera storia dell’arte del mondo. Il progetto non riesce, Napoleone è sconfitto e dal 1815 Denon è costretto a restituire; ma, ad esempio, su cento capolavori portati via dal Vaticano, Antonio Canova ne ritrova solo una settantina; lo stesso accade a parte delle migliaia di opere «prelevate» in Europa dalle armate francesi. Se i musei diventano il simbolo del potere e le opere d’arte sono le matrici delle culture, delle lingue, dei popoli, chi desidera tagliare la radice di quelle memorie deve trasferire altrove dipinti, sculture, libri, archivi e magari eliminare quello che non rapina. 
Passiamo a vicende più recenti: Hitler vuole creare, con l’aiuto di Hermann Göring, una raccolta dell’arte dell’intero Occidente, ma insieme distruggere la storia dei Paesi occupati, quella della Polonia, quella dell’Unione Sovietica, e vuole favorire un’arte «pura»: «Il compito dell’arte non è quello di frugare nella sporcizia per amore della sporcizia, di dipingere l’essere umano solo in condizione di decomposizione». L’arte dunque non sarà, nel Reich, degenerata; entartete , nota Romano, vuol dire «estraniata, allontanata dalla propria specie», quindi è degenerata l’arte ebraica, ma anche quella moderna, e ancora quella bolscevica, e quella cristiana: lo spostamento dall’analisi delle forme al rifiuto delle ideologie è significativo. 
Qualcuno dei più vecchi fra gli storici dell’arte, figli o nipoti dei pochi soprintendenti impegnati in Italia fra 1943 e 1945 nella tutela di fronte alle rapine naziste, ha sentito il racconto di quei camion militari venuti per portare in Germania i nostri capolavori, un racconto che coincide con la parallela lotta per conservare i tesori di Francia, ad esempio quelli concentrati, migliaia di pezzi, al Jeu de Paume a Parigi e salvati da una funzionaria, Rose Valland, e dai partigiani che bloccarono le truppe della Wermacht. Nel dopoguerra Rodolfo Siviero, figlio di un sottufficiale dei carabinieri, laureato in Storia dell’arte, borsa di studio nel 1937 a Berlino, nel 1946 diventa plenipotenziario del governo De Gasperi per il recupero delle opere d’arte; Siviero va a Monaco di Baviera, dove gli americani depositano 6.775 quadri e sculture razziati dai nazisti in mezza Europa e ritrovati nelle cave di sale di Altaussee (Salisburgo): rientrano così in Italia il Discobolo Lancellotti , la Danae di Tiziano e molte altre opere. Ma non tutto torna. Eclatante il caso delle opere prese dai sovietici in Germania come riparazione dei danni di guerra e poi solo in parte restituite alla Ddr. Manca all’appello, fra l’altro, il tesoro di Priamo, quello che Heinrich Schliemann aveva scoperto nel 1873 a Troia e portato a Berlino: sta ancora a Mosca. E mai sono state restituite migliaia di opere rubate a collezionisti ebrei, molti scomparsi nei campi di concentramento. 
Esiste un nesso stretto fra potere economico e compravendita del passato, che attraversa l’intero Occidente nel secolo americano. Perché è indubbio che il ‘900 vede il maggior spostamento di opere d’arte da ogni parte del mondo agli Stati Uniti: sono le grandi collezioni dei Mellon, Morgan, Frick, Rockefeller e ancora quelle della National Gallery di Washington, dell’Art Institute di Chicago, del Metropolitan di New York, molte delle quali si consolidano tra lo scorcio dell’800 e poi fra le due guerre e dopo. È interessante ragionare sulle conseguenze di questa enorme concentrazione di modelli simbolici nei nuovi Paesi. Come i marmi prelevati da Lord Elgin e portati dal Partenone a Londra, ridisegnano in Inghilterra la cultura neoclassica, così le grandi collezioni del passato favoriscono la crescita di un «impero» dell’arte contemporanea che gli Usa impongono, almeno dal tempo dell’Espressionismo astratto. A questo punto, finito il razzismo dell’arte degenerata, sono a confronto due ideologie, quella dell’immagine e dunque dell’arte come strumento di moltiplicazione della cultura, e quella del rifiuto dell’arte in quanto mezzo di corruzione usato dall’Occidente nei confronti dei differenti «orienti». Non l’arte, ma l’ideologia dell’arte è un furto.


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