lunedì 20 gennaio 2014

Borges e la politica

I pugnali di J. L. Borges

Lo scrittore e il dialogo con la violenza Le armi da taglio della giovinezza, l’abbaglio per Videla nella vecchiaia

di Carlo Antonio Biscotto il Fatto 18.1.14


In occasione della pubblicazione di “Professor Borges: A Course on English Literature”, il New York Times ha riproposto un’intervista dello scrittore argentino sul tema della violenza
Di tanto in tanto critici letterari o giornalisti si dilettano a elencare i grandi dimenticati dal Nobel. Immancabilmente Jorge Luis Borges figura al primo posto di questa particolare classifica di giganti della letteratura ignorati dall’Accademia svedese. Non sembra che, in vita, lo scrittore argentino se ne sia rammaricato più di tanto. Borges era uno scrittore e, più che altro, un uomo non comune. Per tutta la vita, ad esempio, intrattenne un dialogo, non solo letterario, con la violenza. Una volta parlando con un intervistatore della sua infanzia nel quartiere di Palermo, a Buenos Aires, disse: “Dare del vigliacco a qualcuno era il peggiore degli insulti. Ero ancora un ragazzino quando mio padre mi mise in mano un pugnale e mi insegnò a usarlo e a farmi rispettare a dispetto dei problemi che avevo con la vista e di un aspetto non proprio da gladiatore”. Forse per questo le armi da taglio – spade, pugnali, stiletti – hanno avuto per Borges un misterioso, talismanico significato in qualche modo legato all’onore e alla virilità. Da ragazzo, negli Anni 20, Borges frequentava i barrios più malfamati di Buenos Aires non disdegnando la compagnia di delinquenti dal coltello facile che ai suoi occhi rappresentavano gli autentici creoli, ovvero gli spagnoli arrivati per primi nelle colonie del Nuovo Mondo, con la loro cultura intrisa di onore, machismo, fierezza.
DA GIOVANE Borges dedicò moltissimo tempo al tentativo di scrivere un poema epico capace, per dirla con le sue parole, di rendere pienamente omaggio “alle mie tante Buenos Aires, di parlare con il mondo, con Dio e con la morte”. Borges voleva consegnare al lettore il riflesso dell’essenza della città, come aveva fatto James Joyce con Dublino, e voleva con questa opera regalare all’Argentina una identità culturale duratura e riconosciuta nel mondo. Alla fine purtroppo abbandonò il progetto.
Borges è stato uno scrittore profondamente e totalmente argentino. I suoi interessi metafisici e i dotti riferimenti letterari celano talvolta questa sua radicata ”argentinità”, ma l’interesse per la storia e la politica dell’Argentina era tale che fino alla morte rimase convinto che il suo destino personale fosse inestricabilmente legato a quello del suo Paese. La sua famiglia non era ricca, ma era illustre, specialmente da parte di madre. Molte vie di Baires sono dedicate a suoi antenati, in particolare al bisnonno materno Isidoro Suarez, eroe della battaglia di Junan del 1824, decisiva per l’indipendenza dalla Spagna. La battaglia fu combattuta sulle Ande con le spade e le lance. “No retumba un solo tiro”, non si sentì nemmeno uno sparo, scrisse Borges in una poesia dedicata al bisnonno. Il nonno paterno morì in battaglia nelle guerre indiane.
E NELLE POESIE scritte in onore dei suoi illustri antenati tornano continuamente le spade, le armi da taglio, le gole tagliate, gli schizzi di sangue, il “fragore delle lance nell’infuriare della battaglia”. Il pugnale torna anche nella sua famosa Poesia congetturale nella quale il narratore è un altro famoso antenato di Borges, Francisco Laprida, avvocato e uomo politico assassinato nel 1829, per ordine del caudillo del momento, con una coltellata alla gola. In realtà – come spiegò lo stesso Borges – la poesia non intendeva celebrare la morte violenta, ma era piuttosto la risposta angosciata dello scrittore al colpo di Stato filo-nazista del 1943 in Argentina. In quegli anni Borges fu apertamente antifascista, ma il suo antifascismo non era immune da contraddizioni che gli venivano continuamente ricordate. Culturalmente era nazionalista e politicamente era liberale, ma ai nazi-fascisti non poteva in alcun modo perdonare l’antisemitismo. Proprio in quegli anni, dopo essere stato violentemente attaccato dai nazionalisti di estrema destra, scrisse un breve saggio nel quale metteva in ridicolo l’antisemitismo e il bigottismo dei nazionalisti. ”Vorrei avere qualche antenato ebreo”, disse più volte anche per l’ammirazione che nutriva per il pensiero e la letteratura ebraici.
A guerra finita, pur favorevole a una democrazia di tipo europeo, non nascose il timore che il “progressismo” liberal finisse per fare dell’Argentina una parodia del Nord America o dell’Europa impedendone una maturazione culturale autonoma. Nel 1946 definì il peronismo “la nostra vernacolare imitazione del fascismo” con i lavoratori al posto delle camicie nere di Mussolini. E tuttavia non seppe resistere alla tentazione di ritenere che l’Argentina avesse bisogno di una dittatura illuminata che guidasse il popolo verso la democrazia e finì per appoggiare la giunta di Videla in Argentina e quella di Pinochet in Cile. Una macchia indelebile per la reputazione di Borges. Nel 1976, ospite di riguardo di Pinochet in Cile, disse che “come era accaduto in Cile, solo la spada dell’onore avrebbe potuto tirar fuori l’Argentina dal pantano in cui si trovava”. E alludendo alla guerriglia che in Argentina combatteva la dittatura del generale Videla, tirò in ballo ancora una volta la spada: “Preferisco la spada, la spada lampeggiante alla furtiva dinamite” del nemico. E in Spagna definì la giunta di Videla “un governo di soldati, di gentiluomini, di gente perbene”.
LA MITOLOGIA dell’onore, che coltivava da quasi mezzo secolo, gli impedì di vedere che il regime di Videla era un vero e proprio “regno del terrore”. Borges commise l’imperdonabile errore di dare lustro con il suo nome prestigioso a una versione di Stato fascista ben peggiore del peronismo che aveva condannato. Non c’era il culto della personalità del peronismo, che tanto aveva infastidito Borges, ma al suo posto c’era un patriottismo feroce e omicida che sfregiò ogni connotato di civiltà e segnò nel profondo la società argentina. Quando la censura allentò le maglie e Borges venne a sapere delle atrocità di cui si era macchiata la giunta, si pentì del sostegno accordato e definì i membri della giunta “banditi”, “folli”, “criminali”.

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