domenica 26 gennaio 2014

L'"antisemitismo metafisico ed eterno" come arma irresistibile di ricatto morale e politico


Come è noto, fu anzitutto Hannah Arendt a confutare questo mito. Intanto, il suprematismo della destra israeliana è sempre più immerso nel conflitto di civiltà [SGA].

Daniel Goldhagen: The Devil that never Dies, Little, Brown & Company, pagg. 486, dollari 30

Risvolto

Antisemitism never went away, but since the turn of the century it has multiplied beyond what anyone would have predicted. It is openly spread by intellectuals, politicians and religious leaders in Europe, Asia, the Arab world, America and Africa and supported by hundreds of millions more. Indeed, today antisemitism is stronger than any time since the Holocaust. 


In THE DEVIL THAT NEVER DIES, Daniel Jonah Goldhagen reveals the unprecedented, global form of this age-old hatred; its strategic use by states; its powerful appeal to individuals and groups; and how technology has fueled the flames that had been smoldering prior to the millennium. 

A remarkable work of intellectual brilliance, moral stature, and urgent alarm, THE DEVIL THAT NEVER DIES is destined to be one of the most provocative and talked-about books of the year.



Un micidiale libro-accusa di Daniel Goldhagen, lo storico che scrisse il celebre I volenterosi carnefici di Hitler: "Nel mondo arabo e in Europa molti vogliono eliminare Israele"
Fiamma Nirenstein - il Giornale Dom, 26/01/2014


Memoria e psichiatria
Göring, nazista sotto esame
Il dottor Kelley, americano, si concentrò sul capo della Luftwaffe: ne concluse che non esiste «una mente», quel che accadde potrebbe ripetersi
di Vittorio Lingiardi Il Sole Domenica 26.1.14

Il nazista è Hermann Göring, prigioniero di guerra. Detenuto a Mondorf-les-Bains, nel Lussemburgo, dove gli americani avevano creato un centro per gli interrogatori il cui nome in codice era «Ashcan», ossia immondezzaio; poi trasferito a Norimberga e lì processato. Obeso e tossicomane, legatissimo alla moglie Emmy e alla figlia Edda, Göring si avvia alla prigionia accompagnato da un maggiordomo, una dozzina di valigie con le cifre e una cappelliera rossa. Per il colonnello Andrus, responsabile dell'Aschan, è uno «sciattone lezioso». «Il personale carcerario impiegò un intero pomeriggio per esaminare il contenuto dei bagagli», frugando tra medaglie militari tempestate di gemme, anelli di diamanti e rubini, gioielli decorati di svastiche, biancheria intima di seta, occhiali, tagliasigari, centinaia di pasticche di paracodeina, creme di bellezza e un bastone d'avorio tempestato di diamanti dono del führer. Non è il bagaglio di Liberace, ma di uno dei più efferati criminali nazisti che, condannato a morte dal tribunale di Norimberga, riuscirà a eludere la sorveglianza strettissima e si toglierà la vita con una dose di cianuro di potassio.
Lo psichiatra è il brillante, ambizioso, eccentrico, spregiudicato capitano Douglas M. Kelley. Inviato dall'esercito americano come supervisore psichiatrico, Kelley intuisce la grande occasione della sua vita: esisteva una «personalità nazista» che giustificasse la scelleratezza di questi criminali? In seguito Kelley avrebbe dichiarato, probabilmente esagerando, di aver dedicato almeno ottanta ore a ciascuno dei ventidue imputati, tra cui il governatore della Polonia, poi suicida, Frank; il vice del führer, paranoico e simulatore di amnesia, Hess; l'ideologo del partito, Rosenberg; il ministro degli Armamenti, Speer; il governatore della Franconia, stupratore e pornografo incallito, Streicher; il ministro degli Esteri, von Ribbentrop. Concentrandosi però, «per dovere scientifico e preferenza», su Göring, il capo della Luftwaffe.
Le decine di colloqui, test di Rorschach, test di appercezione tematica, scale Wechsler-Bellevue somministrati (i famosi scatoloni che Kelley avrebbe portato con sé in California e che ancora appartengono al figlio Doug) lo spingono però a concludere che non esiste una «mente nazista», come scriverà in 22 Cells in Nuremberg: A Psychiatrists Examines the Nazi Criminals. In questi super-nazi e nelle loro personalità non ci sarebbe nulla di «speciale»: ciò che è accaduto sotto il Terzo Reich potrebbe accadere ancora e in ogni Paese. Una tesi che presenta elementi comuni agli esperimenti condotti negli anni 60 e 70 da Stanley Milgram o da Philip Zimbardo (L'effetto Lucifero. Cattivi si diventa?) e all'idea arendtiana della «banalità del male». Che forse Kelley, sensibile al potere carismatico del reichsmarschall, troppo spesso confonde con una sua visione della «genialità del male». Ed ecco l'idea attorno a cui Jack El-Hai, giornalista di storia e di scienza, costruisce il libro: «Il nazista era un manipolatore esperto, e le capacità e la competenza psichiatrica non impedirono a Kelley di subire il suo fascino. In realtà, quegli incontri tra le pareti umide e scrostate della cella misero uno di fronte all'altro due individui egocentrici e molto sicuri di sé». Verso Göring, oggetto di studio e doppio mostruoso, Kelley sviluppa un sentimento ambivalente al punto da utilizzare lo stesso metodo per suicidarsi. Lo farà circa vent'anni dopo, con una manciata di cianuro, platealmente, istericamente in cima alle scale di casa, davanti alla moglie, al padre, al figlio Douglas. Dopo l'esperienza di Norimberga, il dottor Kelley, pur con fortune alterne, era diventato un noto professore di psichiatria e un autorevole criminologo. Il suo suicidio (come anche quello di Göring: chi gli fornì la fiala?) rimane inspiegato, se non come l'eruzione di una follia rabbiosa e megalomane faticosamente nascosta per tutta la vita. Un disturbo mentale non diagnosticato in un uomo ormai stritolato dagli impegni professionali e posseduto dall'alcol.
Nel reportage romanzato di El-Hai c'è un altro personaggio-chiave: il tenente psicologo Gustave Gilbert, giovane ebreo fresco di laurea alla Columbia. Dopo l'esperienza di Norimberga, avrebbe dovuto scrivere un libro con Kelley, ma lo psicologo è tradito dallo psichiatra che il libro se lo scrive da solo. Una volta lasciato l'esercito, anche Gilbert si affretta a pubblicare un libro sul nazismo destinato al grande pubblico, a cui segue, nel 1950, un secondo volume: The Psychology of Dictatorship. Le tesi di Gilbert sono opposte a quelle di Kelley. Gli imputati di Norimberga non sono individui comuni, bensì psicopatici, soggetti con personalità abnormi e pericolose. Noi diremmo che forse hanno ragione entrambi: esiste uno stato "nazista" della mente, ma non una mente "storicamente" nazista, nel senso del Terzo Reich. È lo stato mentale malato di individui gravemente paranoici, narcisisti, psicopatici, sadici che, in condizioni storiche o ambientali "adatte", possono agire in modo organizzato e crudele, spesso credendo di lavorare per la Storia o per la Patria.
El-Hai esplora con buona prosa e qualche frettolosità le menti oscure di due uomini che hanno trascorso insieme, in carcere, cinque mesi «indimenticabili»: il nazista e lo psichiatra. Ne faranno un film di successo, temo cogliendo più il carattere fictionalizzabile dei "personaggi" che la loro tragica testimonianza del male. Se il film sarà come il libro ne ricorderemo le atmosfere, il plot avvincente di due uomini allo specchio, il buono e il cattivo che tendono a fondersi. Per lo studio storico e politico, la riflessione culturale delle follie naziste di virilità, l'analisi del processo di disumanizzazione, raccomandiamo i libri di Arendt (La banalità del male, Le origini del totalitarismo), Browning (La strada verso il genocidio, Uomini comuni), Goldensohn (I taccuini di Norimberga), Goldhagen (I volonterosi carnefici di Hitler), Theweleit (Fantasie virili). E su tutti, l'intervista di Gitta Sereny a Franz Stangl, comandante del campo di Treblinka: In quelle tenebre.
Jack El-Hai, Il nazista e lo psichiatra, traduzione di Roberta Zuppet, Rizzoli, Milano, pagg. 300, € 19,50

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