lunedì 24 febbraio 2014

Tradotti gli scritti di Unamuno sulla Prima guerra mondiale


Miguel de Unamuno: Agonia dell'Europa. Scritti della grande guerra, Medusa Edizioni

Risvolto
Nel settembre 1917, una ristretta delegazione di intellettuali spagnoli veniva invitata ufficialmente a visitare il fronte di guerra italiano. Così, grazie a questa iniziativa propagandistica del nostro governo, Miguel de Unamuno, l'esponente di spicco di quella delegazione, ci ha potuto lasciare pagine sorprendenti e poco note sulla sua particolare esperienza di guerra nelle terre friulane: una sorta di diario in cui si racconta con prospettiva inedita sia il paesaggio umano e geografico della guerra antiaustriaca, sia il clima di esasperazione retorica della propaganda ufficiale. Unamuno stesso si fece evidentemente convincere dal mito della rigenerazione nazionale italiana; i colloqui con generali come Cadorna e Capello, con scrittori come Borgese, Soffici e Ojetti, e in parte i suoi stessi pregiudizi che si era portato dalla Spagna neutrale lo indussero a credere che l'Italia stesse combattendo uno di quegli scontri cruciali per l'autodeterminazione dei popoli; uno di quei conflitti capace di cementare davvero l'unità spirituale di una nazione e, più in generale, dell'Europa stessa. Proprio come è stato raccontato a lungo anche nella vulgata dell'eroismo patriottico. Il reale, però, presenta sempre il suo conto; e così anche Unamuno, fervido sostenitore del conflitto - dell'agonia come momento di comunione tra individuale e collettivo, presto intuisce la brutale diversità di questa guerra.

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Unamuno e Bobbio Prospettive umanistiche dell’Europa

Corriere 17.11.14
Per Miguel de Unamuno, che la Spagna non partecipasse alla Prima guerra mondiale non era frutto di lodevole saggezza. Era la dimostrazione di un’arretratezza economica e civile. L’esiguo sviluppo industriale vietava di partecipare a una grande «guerra industrializzata» il cui esito, più che dalle armi, dipendeva «dalla conversione bellica delle arti e delle industrie pacifiche». Inoltre, si legge nel libro L’agonia dell’Europa (Medusa, pp. 126, e 14,50), governo e conservatori temevano gli effetti rivoluzionari della guerra. Temevano che nella guerra si giocasse anche «il futuro interno del Paese». Si trattava di una neutralità, quindi, «forzata e vergognosa». Quella guerra, secondo Unamuno, opponeva il militarismo aggressivo dei regimi autoritari e conservatori, l’imperialismo di «popoli predatori», che conservavano lo spirito brutale dei popoli barbarici, alle democrazie e ai loro eserciti non di professionisti, ma di «un popolo civile in armi». 
Il nazionalismo domina, in effetti, l’orizzonte politico di Unamuno, che ne distingue due tipi assai diversi: quello che rivendica un diritto nazionale, riconosce e rispetta il diritto internazionale ed esclude lo spirito di conquista, e quello che si trasforma in aperto imperialismo, disconosce il diritto nazionale e il diritto internazionale e si nutre dello spirito di dominio. Questo nazionalismo imperiale è da lui respinto anche nella tradizione spagnola dell’Inquisizione, dei conquistadores , della monarchia assolutista. La stessa Società delle Nazioni non lo soddisfa: essa si limita ad associare nazioni esclusiviste, chiuse nei loro confini, facili al protezionismo. In ultimo, la sua visione esprime un nero pessimismo: «La guerra ha distrutto molto — uomini, sentimenti, valori... — e la pace non sembra in grado di ricostruire granché; anzi, forse non ricostruirà proprio niente, o quasi». 
Pessimismo giustificato. Norberto Bobbio registrava nel 1984 con amarezza il verificarsi dei rischi adombrati da Unamuno. Nel 1945, diceva, «l’Europa era distrutta. Si era da se stessa distrutta». Solo in seguito si era scoperto che, «nonostante tutto, era sopravvissuta». E ciò grazie ai suoi «intellettuali migliori che ne avevano serbato la memoria, ne avevano ricostruito la storia, ne avevano mantenuto vivo lo spirito». Ne era stata rafforzata la spinta all’unità europea mentre, con la «guerra fredda», l’Europa era di nuovo divisa in due campi. Umberto Campagnolo, fondatore della Società europea di cultura, ritenne allora necessario «salvaguardare l’unità spirituale dell’Europa» con una pratica assidua del dialogo e che «questo fosse il compito specifico degli uomini di cultura», il loro «compito “politico”». 
Con Campagnolo Bobbio consentì appieno. L’Europa doveva, per lui, riprendere «coscienza della sua più profonda vocazione che l’ha portata a esplorare la terra, a prendere contatto coi mondi in sé chiusi di altre civiltà e che sola può rendere possibile l’unificazione del mondo verso la quale sembra sia fatalmente orientato il destino dell’uomo»: unificazione intesa come «un’opera morale nel senso più rigoroso del termine» e condotta nel segno dell’«idea universale dell’uomo». E in questo senso valeva «il concetto dell’Europa come civiltà dell’universale». 
Così, la guerra del 1914 aveva lasciato Unamuno scettico e sfiduciato, buon profeta di nuove sciagure dell’Europa, che si erano puntualmente verificate. La guerra del 1939 aveva, invece, convinto Bobbio circa un rinnovato destino «universale» dell’Europa, rimesso soprattutto all’«Europa della cultura», autonoma e diversa da quella politica degli Stati e dei partiti. 
Astrattezza utopistica? Forse, ma certo più aperta alla vita e alla storia di quanto non fosse la delusione di Unamuno per l’inconcludenza della «Grande guerra». 

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