lunedì 31 marzo 2014

Il feticismo delle merci diventa guida etica

Copertina
Almeno secondo quanto si capisce dalla recensione. Ovviamente, all'apologia del feticismo delle merci non si risponde con il populismo pauperista, atteggiamento che va respinto in quanto antimoderno. Noi siamo per lo sviluppo massimo delle forze produttive e per una soggettività ricca di bisogni e talenti [SGA].

Emanuele Coccia: Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, il Mulino

Risvolto
Per secoli i muri hanno raccontato la storia. Oggi che gli dèi sono caduti, e la storia sembra una lunga sequenza di errori, i muri delle città non hanno smesso di essere luogo di celebrazione e di insegnamento. Dove troneggiavano divinità, eroi o eventi del passato, appaiono ora oggetti comuni e di uso quotidiano: la morale a cielo aperto della città contemporanea, la pubblicità, continua a parlarci del bene, ma lo fa attraverso auto, telefoni, rasoi, vestiti, cibo, e quanto siamo abituati a chiamare merci.

Emanuele Coccia
 insegna Filosofia all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. Ha curato «Angeli. Ebraismo, cristianesimo, islam» (con G. Agamben, 2010). Con il Mulino ha pubblicato «La vita sensibile» (2011).


Angelo Crespi - il GIornale Mar, 06/05/2014 


Perché le “cose” ci rendono felici

Vivere in un’epoca piena di oggetti e di merci è una benedizione, secondo il filosofo Emanuele Coccia
di Maurizio Ferraris Repubblica 30.3.14



NELLO stesso anno 1882 in cui, da Genova, Nietzsche annunciava la morte di Dio e il trionfo del nichilismo, sul Gil Blas Zola pubblicava Al paradiso delle signore, storia al cui centro c’è uno dei primi grandi magazzini. Felicità delle donne, si dice in epoca ancora molto maschilista. Ma in realtà paradiso anche degli uomini, che negli oggetti trovano almeno altrettanta felicità. Il nichilismo - questa l’ipotesi di Emanuele Coccia in Il bene nelle cose, il Mulino - è non tanto confermato, quanto piuttosto scongiurato dalla felicità insita negli oggetti, e il fatto di vivere in un’epoca così piena di merci deve essere visto come una benedizione. In fondo, già nella nona Elegia duinese Rilke suggeriva di mostrare all’angelo «come può essere felice una cosa». Ma a favore dell’idea di vedere il bene solo nelle persone e non nelle cose militano molti pregiudizi tradizionali, dalla iper-valutazione del soggetto umano come fonte unica di valori, all’antropocentrismo di molte religioni, all’idea kantiana che l’unica cosa buona al mondo sia la volontà buona, le intenzioni. Ovviamente non c’è convinzione più falsa.
Così come è difficile sottoscrivere sino in fondo le filippiche che per decenni si sono scagliate contro il consumismo e l’alienazione. Ma, a ben vedere, proprio l’argomento della finitezza dei soggetti è tra quelli che depongono con più forza a vantaggio degli oggetti. Come sapevano benissimo i Faraoni, che si facevano seppellire circondati da oggetti, e si facevano imbalsamare, trasformandosi a loro volta in cose, gli oggetti dureranno molto più del nostro oblio.
Ed è un buon segno che sempre più numerosi siano i filosofi che guardano alla ricchezza degli oggetti: dalla cosiddetta “teoria orientata agli oggetti” proposta dal realismo speculativo americano, alla riflessione sugli oggetti sociali così diffusa nella filosofia contemporanea, alla riscoperta della sensibilità, cioè della via fondamentale attraverso cui incontriamo gli oggetti, alla ridiscussione della natura iperconcettuale dell’arte nel Novecento.

Rappresentante di una nuova generazione di filosofi, Coccia ha saputo dare una versione estremamente originale della filosofia dell’oggetto, con una attenzione più pronunciata nei confronti della morale e della politica rispetto all’ontologia, all’estetica e alla metafisica, che sono i campi tradizionali di applicazione. Con un percorso che si rivela come la maturazione dei suoi interessi fondamentali di lungo periodo: la filosofia medievale. E forse ancora di più la grande “Teoria dell’oggetto” di Alexius Meinong, che Coccia tradusse una decina di anni fa, anche in considerazione del fatto che il tema dell’oggetto è in Meinong strettamente connesso con il tema del valore, cioè con la portata morale dell’appello che ci viene dalle cose. È la conferma che per capire davvero il presente, per dire cose originali sull’oggi, è sempre meglio prendere le cose da lontano.

La morale dimenticata delle merciNel mondo dei segni. La critica al consumismo rimuove il fatto che i manufatti arredano la vita sociale e dei singoli. Allo stesso tempo danno forma a una morale pubblica. Un’intervista con il filosofo e antropologo Emanuele Coccia, autore del recente volume «Il bene nelle cose» per il Mulino— Michele Spanò, il Manifesto 22.4.2014


«Dopo aver chiuso que­sto libro, con­ti­nue­rete a odiare la pub­bli­cità ma in un modo molto più intel­li­gente, più per­so­nale, più intimo». Così, sulle colonne di Libé­ra­tion, Mar­cela Iacub pre­sen­tava l’ultimo libro di Ema­nuele Coc­cia ([/ACM_2]Il bene nelle cose. La pub­bli­cità come discorso morale, il Mulino, pp. 142, euro 12). E se la giu­ri­sta fran­cese aveva ragione di sot­to­li­neare l’esperienza tra­sfor­ma­tiva pro­vo­cata dalla let­tura di un libro tanto sin­go­lare, pec­cava forse nel con­cen­trarsi su un esito così nega­ti­va­mente mar­cato come l’odio. La let­tura del libro di Coc­cia per­mette infatti di rico­no­scere in quelle cose che sono le merci nulla di meno che l’oggetto pri­vi­le­giato della morale (di oggi e di ieri): se esse non sono da amare né da odiare, è per­ché esse andranno insieme cono­sciute e rico­no­sciute come la super­fi­cie e il mezzo di un discorso pub­blico e ubi­quo sulla pos­si­bi­lità di essere felici. Dai muri delle città che abi­tiamo e attra­ver­siamo, un’infinita distesa di réclame fa segno, gra­zie e attra­verso alle merci, a una vita altra e migliore, qui e adesso. Ema­nuele Coc­cia ha scritto così, in una prosa scin­til­lante, un grande libro sul pre­sente e sul possibile. 

Hai scritto un libro che farà alzare le soprac­ci­glia a molti. Sostieni – con­tro parec­chio senso comune, molta ideo­lo­gia e quasi tutta la sto­ria della filo­so­fia – che il nostro rap­porto con quelle cose che chia­miamo merci è ciò che defi­ni­sce, oggi più che mai, lo spa­zio della morale. Come spie­ghi l’apparente para­dosso che fa sì che il nome di merce impli­chi un impli­cito giu­di­zio morale nega­tivo allor­quando – è quello che mostri – essa incarna, almeno in Occi­dente, l’ultimo nome del bene? 

Si tratta in realtà di un falso para­dosso: non c’è alcuna dif­fe­renza sostan­ziale tra il discorso pub­bli­ci­ta­rio, che rico­no­sce nelle cose pro­dotte, scam­biate e con­su­mate la fonte più imme­diata della feli­cità (cioè il Bene) e chi al con­tra­rio parla di merci come la causa ultima di ogni alie­na­zione o si sforza di rico­no­scere nel nostro amore per esse la ragione strut­tu­rale della nostra inca­pa­cità di rag­giun­gere la feli­cità. In entrambi i casi le cose, le merci sono iden­ti­fi­cate come cause morali e non come realtà moral­mente indif­fe­renti, oggetti pura­mente eco­no­mici o mate­riali. Gli uni e gli altri par­lano delle cose come delle inten­sità morali, fanno morale a par­tire dalle cose, dalle merci. E in que­sto senso la filo­so­fia cri­tica è solo una forma di pub­bli­cità risen­tita; la cri­tica al con­su­mi­smo è la filo­so­fia di pub­bli­ci­tari di cat­tivo umore che si sfor­zano di comu­ni­care quanto le cose più comuni pos­sano essere causa del male e non del bene comune. A me inte­res­sava capire per­ché per gli uni e per gli altri, improv­vi­sa­mente, le cose – di cui nella morale occi­den­tale si par­lava poco (o se ne par­lava solo per dire che non se ne deve par­lare in morale) – sono diven­tate le vere pro­ta­go­ni­ste della vita morale. Improv­vi­sa­mente, per par­lare di feli­cità biso­gna par­lare delle cose che ci cir­con­dano, che usiamo, che pro­du­ciamo, che sogniamo. È nor­male del resto che sia così: più di un secolo fa Georg Sim­mel aveva già notato che in città ci sono più cose che uomini. La città è oggi lo spa­zio delle cose più che degli uomini ed è giu­sto che si pensi alla feli­cità, anche poli­tica, a par­tire dai pro­ta­go­ni­sti della vita urbana: le cose. Ed è qual­cosa che l’antropologia dice da anni: Daniel Mil­ler lo mostra per­fet­ta­mente nel volume Cose che par­lano di noi. Un antro­po­logo a casa nostra. 

Il bene nelle cose è anche, tra molto altro, un sag­gio di antro­po­lo­gia urbana: i muri e, più in gene­rale, lo spa­zio urbano «tatuato» di réclame, sono infatti cru­ciali a «sor­reg­gere» il tuo argo­mento. Qual è il rap­porto tra spa­zio pub­blico e discorso pub­bli­ci­ta­rio e quali i tratti di uni­cità di una città che parla di sè espo­nendo un infi­nito cata­logo di merci? 

A dif­fe­renza di quello che si è soliti scri­vere o pen­sare a me sem­bra che il discorso pub­bli­ci­ta­rio sia una sorta di modello for­male, reto­rico e strut­tu­rale dello spa­zio pub­blico e non una sua dege­ne­ra­zione. Ed è nor­male che sia così. Con l’arrivo di tele­vi­sione, tele­foni cel­lu­lari, inter­net e social net­work la natura dello spa­zio pub­blico è radi­cal­mente cam­biata: quello pub­blico, per esem­pio, non è più uno spa­zio che si oppone al pri­vato. Al con­tra­rio, è pro­prio soli, a casa, davanti a un tele­vi­sore o a un com­pu­ter che si è più espo­sti al discorso comune della società civile vei­co­lato dai diversi media. Per que­sto la comu­ni­ca­zione pub­blica non può che avere la forma della comu­ni­ca­zione pub­bli­ci­ta­ria e sopra­tutto la comu­ni­ca­zione dell’intimo non può che avere la forma della comu­ni­ca­zione pub­bli­ci­ta­ria: lo spa­zio della pub­bli­cità è lo spa­zio per eccel­lenza dell’intimità collettiva. 

Peter Szendy una volta ha scritto che per capire cosa sia una merce biso­gna capire che cos‘è una can­zo­netta. Io aggiun­ge­rei che per capire che cos’è oggi lo spa­zio pub­blico biso­gna pen­sare a un walk­man o a un iPod. Lo spa­zio pub­blico ha oggi la forma di un discorso intimo, la natura di un segreto sus­sur­rato alle orec­chie, che nes­suno oltre te può ascol­tare. Lo spa­zio pub­blico era nato per com­bat­tere gli arcana impe­rii, i segreti dello stato, ora è diven­tato lo spa­zio della cir­co­la­zione dei segreti sus­sur­rati, non da per­sona a per­sona, ma in modo ano­nimo, lo spa­zio dell’intimità ano­ni­ma­mente con­di­visa. È quello che Face­book ha capito: lo spa­zio del sus­surro e della con­fi­denza ano­nima è diven­tato la via d’accesso all’universale per eccel­lenza. La pub­bli­cità è stata la prima ad aver capito que­sto muta­mento strutturale. 

Nel libro riper­corri, dal tote­mi­smo al feti­ci­smo, una serie di bla­so­nate teo­rie sul ruolo della merce. Sem­bra quasi – e que­sta impres­sione diviene più forte allor­ché chiami in causa l’oggetto arti­stico – che l’idea di dis­so­ciare la morale dall’agency operi come uno dei più pro­fondi e impli­citi inter­detti della cul­tura occi­den­tale. Per­chè, in altre parole, è così dif­fi­cile pen­sare il bene nelle cose? 

In realtà al divieto teo­rico di pen­sare il bene come cosa, oggetto materiale,si sono sem­pre accom­pa­gna­tisi, pra­ti­che, realtà che anda­vano in dire­zione oppo­sta. L’arte ne è un esem­pio ecla­tante; ma ogni forma di culto e di vene­ra­zione si com­pie quasi esclu­si­va­mente per inter­po­sto oggetto, attra­verso la media­zione delle cose. Di fatto la rivo­lu­zione indu­striale e il capi­ta­li­smo sono stati, tra mille altre cose, una radi­ca­liz­za­zione di que­sto movi­mento, lo sforzo di ritro­vare nelle cose, in tutte le cose pro­dotte, scam­biate, imma­gi­nate una fonte morale, un immane ten­ta­tivo di mora­liz­zare la mate­ria, in tutte le sue forme. È per que­sto che l’arte nella moder­nità è dive­nuta un para­digma essen­ziale: l’arte è stata la sola sfera in cui è stato lecito amare in maniera smo­data le cose in quanto incar­na­zione del bene. Quanto è cam­biato ora è che que­sto amore si è esteso a tutte le cose: la moda, il design ma anche lo svi­luppo dell’industria infor­ma­tica ci hanno abi­tuato a pen­sare ogni cosa come fonte di feli­cità e di per­fe­zione. La dif­fi­coltà sta pro­prio in que­sta universalità. 

Nel pas­sato la filo­so­fia aveva pen­sato nel con­cetto di bene lo spa­zio in cui tutte le cose si fon­dono in unità: il bene è il luogo in cui tutte le dif­fe­renze si stem­pe­rano, il luogo della fon­da­zione della comunità.Coincidendo con tutte le cose mate­riali pro­dotte e desi­de­rate da cia­scuno ora il bene è diven­tato lo spa­zio in cui ogni cosa si distin­gue da tutto il resto, il luogo in cui cia­scuno diverge dagli altri e pro­prio in que­sta dif­fe­renza trova la sua per­fe­zione. Il bene è ciò che separa e distin­gue le cose, non ciò che le unisce. 

Hai appo­sto una «post­fa­zione» al volume – «Per un ipper­rea­li­smo morale» – che sem­bra un vero e pro­prio mani­fe­sto per una filo­so­fia futura che sia dav­vero una filo­so­fia del pre­sente. Per­chè ti sem­bra così urgente imma­gi­nare una morale non mora­li­stica? E cosa ha da gua­da­gnare un filo­sofo a diven­tare un «bricoleur»? 

Non si tratta di uscire dal mora­li­smo. Si tratta solo di sepa­rare con cura l’osservazione curiosa e sim­pa­te­tica dei costumi umani – ovvero dei modi e delle forme attra­verso cui pro­viamo a essere felici – dal risen­ti­mento un po’ limi­tato che per secoli si è scam­biato per morale. E non si tratta tanto di diven­tare un bri­co­leur, quanto di rico­no­scere che in fatto di morale non si può andare oltre il bri­co­lage. I modi di inven­zione della feli­cità sono sem­pre imper­fetti, e non pos­sono che esserlo. La morale è sem­pre un bri­co­lage, per­ché è sem­pre uno spa­zio di inven­zione e di spe­ri­men­ta­zione incerta ed effi­mera. Non abbiamo la più pal­lida idea di come essere felici, veniamo al mondo con que­sto desi­de­rio e le cono­scenze rice­vute sono molto spesso inap­pro­priate, a volte per­ché si rife­ri­scono a una feli­cità diversa da quella che vogliamo, altre per­ché nella tra­smis­sione di mano in mano que­sti saperi si sono cor­rotti. E pas­siamo decenni a sco­prire, spe­ri­men­tare, inven­tare, senza sapere bene dove andare, facen­doci spesso molto male. Oggi più che mai non pos­siamo fare altro che sperimentare. 

Le due gene­ra­zioni che ci hanno pre­ce­duto hanno distrutto tutto l’universo morale basato su fami­glia e lavoro in cui l’umanità aveva vis­suto per secoli. Non pos­siamo ere­di­tare nulla del pas­sato, il mondo morale cam­bia sotto i nostri occhi giorno dopo giorno e spazza via le capanne di costumi accu­mu­lati da padri, nonni, ante­nati. Siamo inven­tori, spe­ri­men­ta­tori, pri­mi­tivi che si scon­trano con un nuovo mondo, e accu­mu­lano tec­ni­che, sco­prono giorno dopo giorno che la terra arriva molto più lon­tano di quanto ci è stato detto. Che cosa signi­fica amare una volta che il matri­mo­nio, la fami­glia non esi­stono più? E cosa signi­fica agire, fare quando il lavoro non è più l’orizzonte defi­ni­tivo dell’esistenza. Sono tempi duri, ma c’è anche una luce che nes­suno prima di noi ha visto, la luce pura degli ele­menti, il fuoco vivo nelle sue forme più pure. Siamo i primi, dopo cen­ti­naia di gene­ra­zioni, a poterlo vedere di nuovo. E a dover costruire con quello e solo con quello. Le mani si bru­ciano in fretta, ma la posta in gioco è enorme. Per que­sto oggi più che mai dob­biamo avere il corag­gio del bri­co­lage e rifiu­tare ogni risen­ti­mento nei con­fronti del possibile.

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