Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch:
La cultura dell’egoismo. L'anima umana sotto il capitalismo, Elèuthera
Risvolto
Non capita spesso di leggere a distanza di
anni le lungimiranti previsioni di chi sa leggere il suo tempo e così
anticipare l'esito dei processi in atto. Ed è appunto quello che fanno
due pensatori disincantati come Castoriadis e Lasch in questa
conversazione del 1986 sulla modernità e i suoi costi. Una modernità già
ostaggio di quella logica capitalista che ha invaso l'intero campo
dell'esistenza umana, tanto che a essere messe in discussione sono
soprattutto le ricadute morali, psicologiche e antropologiche di quel
capitalismo di tutti i giorni che si è tradotto in una nuova cultura
dell'egoismo. In un mondo abitato da estranei chiusi nella loro
intimità, ha avuto libero gioco il processo di atomizzazione sociale che
ha sancito la fine tanto dei legami comunitari quanto di uno spazio
pubblico in cui esercitare una democrazia non corporativa. Nulla di cui
stupirsi, ci avvertono con decenni di anticipo gli autori: sono gli
esiti necessari e prevedibili di un mondo in cui l'anima umana è
plasmata dal capitalismo. Postfazione di Jean-Claude Michéa.
Narcisismo virus dell'Occidente
Il
greco-francese Castoriadis e l'americano Lasch collegano la crisi dello
spirito pubblico al tramonto delle grandi narrative come il marxismo
di Sebastiano Maffettone Il Sole 24Ore Domenica 16.3.14
Contrariamente alle nostre abitudini, in questa rubrica non recensiamo
un saggio ponderoso di filosofia politica ma due brevi operette di
occasione il cui contributo alla filosofia politica appare comunque
significativo. Il primo dei due libricini in questione pubblica – per i
tipi di Eleuthera – un'intervista televisiva congiunta (27 maggio 1986)
di Michael Ignatieff a due pensatori di tutto rispetto internazionale,
il greco-francese Cornelius Castoriadis e l'americano Christopher Lasch.
Il tema dibattuto coincide sostanzialmente con la crisi dello spirito
pubblico nel mondo occidentale. Per entrambi i pensatori, questa crisi
dipende dal tramonto delle grandi narrative come il marxismo.
Per
Lasch, la conseguenza consiste in una diffusa perdita del noi in favore
dell'io. Per Castoriadis, però, anche l'individuo è una costruzione
sociale e quindi la perdita del pubblico implica anche la presenza di un
sé disturbato. Lasch chiama questo sé "io minimo", e lo ritiene affetto
da pervasivo narcisismo. Per entrambi gli autori poi l'effetto duraturo
della perdita del pubblico ha a che fare con un montante egoismo
generalizzato, nel cui ambito la vita trascorre in orizzonti angusti e
senza speranza. Un interessante corollario di questa tesi lo si può
ritrovare nel fatto che i movimenti più recenti di emancipazione - per i
neri, le donne e così via – sono per così dire tutti settoriali e non
richiedono mobilitazione in nome di valori universali: solo se sei donna
o nero puoi partecipare a pieno titolo e condividere gli
ideali.
Quest'ultimo punto costituisce un ideale trait-d'union con le
tesi di Juergen Habermas così come riportate nelle interviste-colloquio
di Enrico Filippini, pubblicate ora da Castelvecchi, riprendendo quelle
di Repubblica nel 1986 e Espresso nel 1976 (a cura di Alessandro Bosco,
con un saggio di Giacomo Marramao). La perdita del pubblico, di cui si
diceva, viene reinterpretata da Habermas in termini di «colonizzazione
del mondo della vita» da parte di sistemi economico-sociali aggressivi e
spersonalizzanti.
I meccanismi di controllo impliciti in questi
sistemi conducono a una distruzione sistematica della comunicazione.
Contro tutto ciò deve operare la ragione critica orientata
all'emancipazione. La rinascita della comunicazione non-distorta sarà
poi il segno della liberazione progressiva in atto del mondo della vita.
Come si vede, Habermas non esita qui a riprendere temi classici di
filosofi radicali come Nietzsche e Heidegger. Sua intenzione è però
spostare l'enfasi di questi pensatori dal dominio estetico al dominio
etico-politico. Heidegger e Nietzsche, agli occhi di Habermas, non si
sono mai occupati delle forme istituzionali della ragione perdendo così
l'opportunità di trasformare il loro approccio in una critica
sostanziale della società.
Il virus dell’individualismo
Saggi. «La cultura dell’egoismo» di Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch per Elèuthera. Il dialogo tra i due filosofi sulle ragioni della sconfitta della sinistra avvenuto negli anni Ottanta mantiene una sorprendente attualità
Alberto Giovanni Biuso, il Manifesto 1.3.2014
Il 4 e il 27 marzo del 1986 la televisione britannica Channel 4 mandò in onda una conversazione tra Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, moderata da Michael Ignatieff. Sono trascorsi 28 anni e l’analisi delle ragioni profonde della crisi della sinistra in Europa è ancora attuale. E questo non è un buon segno. I due studiosi concordano, infatti, nell’individuare un elemento di tale crisi che da allora si è dispiegato sino a non essere più neppure avvertito. Si tratta dell’individualismo liberale che ha contagiato la cultura di sinistra sino a trasformarla alla radice.
Castoriadis e Lasch partono dalla consapevolezza aristotelica che «quel che noi chiamiamo individuo è in un certo senso una costruzione sociale» (La cultura dell’egoismo. L’anima umana sotto il capitalismo, postfazione di Jean-Claude Michéa, elèuthera, pp. 68, euro 8), che «nella società attuale non stiamo più producendo individui capaci di incarnare la visione aristotelica. […]Abbiamo perso quell’ideale?». Sì, la sinistra lo ha perso, sostituendo la lotta di classe con una ideologia dei diritti umani di evidente impronta liberale, non certo marxiana. Invece che affiancarsi alla lotta di classe, la lotta contro le discriminazioni ha sostituito la lotta di classe, segnando in questo modo la fine della sinistra.
I dispositivi concettuali di questa autodissoluzione sono consistiti nella negazione delle invarianti antropologiche, nella rinuncia a ogni identità collettiva a favore dei diritti del singolo, nell’illusione della crescita illimitata, alla quale sono legati quelli dello «sviluppo sostenibile» e dell’equa distribuzione dei profitti del capitale. Si esprime qui una certa ironia verso coloro che al materialismo delle identità corporee preferiscono quella che Michéa definisce «l’ideologia neospiritualista». Di sinistra sarebbe piuttosto «il rifiuto della riduzione degli esseri umani allo statuto di ’atomi isolati privi di consapevolezza generale’ (Engels)». La sinistra del XXI secolo ha dunque rinunciato alla critica nei confronti di un mondo dominato dall’iperindividualismo e ha accettato come inevitabile e ricca di opportunità «una ’società dei consumi’ basata sul credito, sull’obsolescenza programmata e sulla propaganda pubblicitaria».
È sulla base di tale consapevolezza che Castoriadis e Lasch «erano giunti ad avere lo stesso sguardo disincantato sulla triste evoluzione delle moderne sinistre occidentali e su quello che fin dal 1967 Guy Debord definiva ’le false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato’». Un disincanto che li induce ad affermare che ormai «da lungo tempo il divario destra-sinistra, in Francia come nel resto del mondo, non corrisponde più ai problemi del nostro tempo, né riflette scelte politiche radicalmente opposte». Ma per entrambi la possibilità della libertà nell’eguaglianza è sempre aperta. Castoriadis, in particolare, insiste sulla natura «tragica» della libertà poiché essa non possiede limiti esterni sui quali fare affidamento ed è fondata invece sulla pratica dell’autonomia, il cui modello rimangono per lui sempre i Greci. Nelle loro tragedie, infatti, «l’eroe muore a causa della sua hybris, della sua superbia, perché trasgredisce in un contesto dove non esistono limiti predefiniti. Questa è la nostra condizione». La negazione del limite sta a fondamento della presunta razionalità liberale, il cui principio di crescita indefinita contrasta con la realtà dei limiti del pianeta, il cui principio di opportunità per tutti confligge con la realtà del profitto che moltiplica soltanto se stesso.
Questo libro non si limita a una critica argomentata e convincente dell’individualismo di sinistra. Propone alternative praticabili, fondate sul fatto che tradizione e mutamento devono essere viste e vissute in una logica non oppositiva ma inclusiva. Un programma politico di sinistra deve «definire le istituzioni concrete grazie alle quali una ’società libera, egualitaria e decente’ (George Orwell) possa conferire tutto il proprio senso a questa dialettica creatrice tra il particolare e l’universale. (…) Ecco dove sta tutta la differenza fra una lotta politica che, sulla scorta di quella degli anarchici, dei socialisti e dei populisti del XIX secolo, mirava innanzitutto a offrire agli individui e ai popoli i mezzi per accedere a una vita realmente autonoma e un processo storico di perpetua fuga in avanti (sotto il triplice pungolo del mercato ‘autoregolato’, del diritto astratto e della cultura mainstream) che quasi più nessuno, quanto meno tra le file delle nostre sfavillanti élite, si cura di padroneggiare a fondo e che potrà solamente condurre (ancorché santificato con il nome di Progresso) a una definitiva atomizzazione della specie umana». Non si può dire che non fossimo stati avvertiti.
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