domenica 2 marzo 2014
L'Unico Dio e i suoi profeti
Risvolto
A poche settimane dall’inizio della più grave crisi globale degli ultimi
decenni, nel novembre del 2008 la regina Elisabetta II, in visita alla
London School of Economics, si rivolge agli eminenti economisti riuniti
nell’antico e glorioso centro di ricerca interrogandoli sui motivi del
disastro: com’era possibile che nessuno lo avesse saputo prevedere?
Secondo Felix Martin, saggista ed economista britannico, la risposta al
quesito della regina, tanto diretto e spiazzante da suscitare imbarazzo
nel Gotha dell’economia mondiale, risiede in un enorme equivoco sulla
vera natura del denaro.
Tra le più grandi idee dell’uomo – fondamentale in ogni epoca della
storia da quando le prime monete vennero coniate, nel cuore del
Mediterraneo, oltre duemilacinquecento anni fa –, il denaro secondo
Martin sarebbe, allo stesso tempo, l’invenzione più fraintesa. Da
filosofi e antichi sovrani, così come da teorici, uomini della finanza e
policy makers contemporanei.
Il denaro non è affatto una cosa, un oggetto materiale dotato di un
valore in sé, naturale e immutabile, bensì una tecnologia sociale,
caratterizzata da una forte valenza politica: una serie di idee e
procedure che organizzano quel che produciamo e consumiamo, oltre ai
modi stessi in cui ci troviamo a convivere.
Illuminante è l’esempio, con cui il libro si apre, di un modello
d’economia alternativa come quello dell’isola di Yap, nell’Oceano
Pacifico, riscoperto ai primi del Novecento da alcuni studiosi del
sistema monetario tra cui il giovanissimo John Maynard Keynes: nello
sperduto isolotto, la valuta è costituita da grossi dischi forati di
pietra, che indicano il saldo dei debiti e dei crediti di un individuo o
di una famiglia e non hanno alcun bisogno di venire spostati, né di
essere presentati a garanzia dello scambio di beni. L’aneddoto dimostra
che, al fondo, il denaro non è affatto una merce di scambio, come il
pensiero economico ha sostenuto fin dai tempi di Aristotele, ma una
rappresentazione simbolica del valore di altri beni.
Traendo storie e vividi esempi da ogni epoca della storia dell’uomo,
Felix Martin ci porta infine a rivedere completamente la nostra
concezione del denaro, indicando la strada per uscire dalla crisi in cui
versa l’economia attuale: una rivoluzione del modo di pensare che deve
essere compiuta non da un unico ente sovrano, da uno Stato o da una
Banca Centrale, bensì da coloro che lo usano, cioè da tutti noi.
N.V. ovvero rendere Mandeville una noia mortale [SGA].
La favola delle api ha 300 anniUn alveare ancora scontento
di Nicla Vassallo Il Sole 2.3.14
Medico
eccellente a quanto pare, Bernard de Mandeville passa alla storia per
lo spirito sarcastico e polemico, spirito presente in diverse sue opere
letterarie, e, in particolare in una, pregnante di filosofia, di una
filosofia che ha scandalizzato, e forse prosegue con lo scandalizzare:
vi si sostiene che la società economicamente fiorente dipende da tutta
una serie di vizi privati, generati dall'egoismo individuale, che
vengono, per ipocrisia, denunciati, mentre dovrebbero venir esaltati in
quanto necessari, per l'appunto, alla prosperità pubblica. Ciò, si badi
bene, non implica che lo stesso Mandeville propugni i vizi, che va
narrando, inerenti alla convivenza umana; leggendolo e rileggendo è anzi
chiaro il suo mero intento descrittivo di una certa società. E su ciò
tornerò per accennare al concorso delle scienze empiriche.
L'opera a
cui mi riferisco, The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest, risale al
1705, e nel 1714 viene ripubblicata, in forma arricchita, col titolo
che la rende famosa e imprescindibile, Fable of the Bees: or, Private
Vices, Public Benefits (La favola delle api ovvero, vizi privati
pubblici benefici): questa è la ragione per cui ne celebriamo ora il
tricentenario, nonostante seguiranno altre edizioni rivedute e
trascorreranno altri anni prima che Mandeville giunga a giudicare
definitiva la versione della sua "favola".
Parecchie le motivazioni
per rileggere quest'opera, insieme a A Modest Defence of Pubblic Stews
(a favore della legalizzazione della prostituzione) e a An Inquiry into
the Origin of Honour. Non tanto per il suo cosiddetto libero pensiero,
pensiero a cui può venir ascritto di tutto e di più, quanto per il suo
presunto illuminismo, un illuminismo inglese che tra i suoi illustri
rappresentanti annovera David Hume, Alexander Pope, Adam Smith, Jonathan
Swift, illuminismo che, oltre finire erroneamente subordinato a quello
francese, si trova a confrontarsi con la tesi, avanzata dallo stesso
Mandeville, per cui l'essere umano consiste in un aggregato di passioni,
di emozioni disorganizzate e incorreggibili. Subordinazione palese,
come risulta da due recenti saggi.
Non menziona mai Mandeville,
Genevieve Lloyd, nel peraltro notevole Enlightenment Shadows (Oxford
University Press, Oxford), pur soffermandosi su Hume e Smith, pur
riflettendo sulle intersezioni delle emozioni con l'intelletto, nonché
sul significato etico di immaginare se stessi nelle situazioni altrui.
Anthony Pagden, invece, a Mandeville dedica alcune pagine preziose,
sebbene sempre limitate, in un volume corposo e avvincente (The
Enlightenment and Why It Still Matters, Oxford University Press,
Oxford), che con accuratezza, garbo, potenza difende l'illuminismo, di
cui dovremmo farci custodi, soprattutto nella tutela delle nostre
attuali visioni cosmopolite. Ma forse non è un particolare segno
d'illuminismo contestare, come fa Mandeville, l'ipocrisia insita nella
denuncia dei vizi privati, se si tratta di vizi funzionali alla sfera
pubblica, quando, a meno di non sposare il cinismo, non si possa
pretendere, perlomeno in politica, di rinunciare del tutto all'ipocrisia
stessa? David Runciman lo precisa bene in Political Hypocrisy: The Mask
of Power, from Hobbes to Orwell and Beyond (Princeton University Press,
Princeton), in cui, non a caso, un intero capitolo viene dedicato
proprio a Mandeville.
Di più. Rileggere Fable of the Bees significa
non solo confrontarsi con le diverse interpretazioni che individuano nel
suo autore il classico rappresentante del «laissez-faire» – cosa che
non risulta affatto scontata. Senza tralasciare Aristotele e la sua
discussione sul carattere del denaro, Aristotele da cui, tra l'altro, si
avvia ogni discorso contemporaneo sulle virtù, e di conseguenza sui
vizi, rileggere Fable of the Bees significa soprattutto confrontarsi con
uno dei primi testi che indaga in modo ampio, sottile, dirompente le
tematiche del commercio, del mercato, dell'economia, in relazione alla
natura umana e societaria, oltre che al potere politico, domandandosi
come viene intesa l'economia: scienza naturale o scienza sociale? (Si
veda, in proposito, Margaret Schabas, The Natural Origins of Economics,
The University of Chicago Press, Chicago).
Il Discours sur l'origine
et les fondements de l'inégalité parmi les hommes di Jean-Jacques
Rousseau, che disprezza apertamente Mandeville, è successivo, così come
Das Kapital di Karl Marx, entrambi agli antipodi delle teorie
rintracciabili nella Fable of the Bees, in cui invece trovano
ispirazione, tra i tanti, un Adam Smith o, più recentemente, Ayn Rand,
iniquamente ignorata o snobbata da troppi filosofi. Benché Rand sostenga
un egoismo di tipo razionale, mentre in Mandeville a emergere è un tipo
psicologico di egoismo, Jay W. Richards assimila i nostri, accusando
sia Mandeville, sia Rand di non comprendere che l'interesse privato
dell'individuo include quello altrui, ovvero l'interesse pubblico,
poiché ognuno di noi è un essere sociale.
Benché aborra l'argumentum
ad homimen, e invero mi pare di non impiegarlo, credo che qui si annidi
una sorta di contraddizione in termini, dato che Jay W. Richards
risulta al contempo un sostenitore del disegno intelligente, un filosofo
analitico e l'autore di Money, Greed, and God: Why Capitalism is the
Solution and Not the Problem (Harper Collins, New York).
Non mi
interessa tanto comprendere (richiederebbe lo spazio di un intero
volume) se la parabola dell'alveare mandevilliano, ove a funzionare
risultano le ineguaglianze tra gli individui, non le uguaglianze,
rappresenta quanto alla società finisce coll'accadere, nel bene o nel
male, bensì rammentare che natura e interessi egoistici degli esseri
umani, al di là di quali benefici pubblici producano e di come ciò
avvenga o debba avvenire (si pensi, in proposito, anche alle teorie di
Thomas Hobbes) urgono di un importante distinguo, prima di poter
teorizzare oltre, per giungere, per esempio, a evidenziare che chi pensa
e si comporta da egoista finisce con l'autocontraddirsi.
Un
distinguo tra descrittivo e normativo. Difatti, nel caso si proponga un
egoismo di tipo psicologico, stando a cui ogni individuo mira
principalmente al proprio benessere, si avanza una tesi descrittiva,
che, come tale, necessita dell'avallo delle scienze empiriche e così
occorre ricorrere a queste ultime per comprendere se Mandeville abbia
ragione o torto. Diverso sarebbe se in lui rintracciassimo tesi
normative, quali "un'azione è eticamente o razionalmente giusta se e
solo se massimizza il proprio interesse personale". Sempre che non si
consegnino i concetti di etica e razionalità nelle mani delle scienze.
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