martedì 4 marzo 2014

Tradotto il romanzo di Pierre Lemaitre sui reduci della Prima guerra mondiale


Pierre Lemai­tre: Ci rivediamo lassù, Mon­da­dori, pp. 454, euro 17,50

Risvolto
Sopravvissuti alla carneficina della Grande Guerra, nel 1918 Albert e Edouard si ritrovano emarginati dalla società. Albert, un umile e insicuro impiegato che ha perso tutto, proprio alla fine del conflitto viene salvato sul campo di battaglia da Edouard, un ragazzo ricco, sfacciato ed eccentrico, dalle notevoli doti artistiche. Dopo il congedo, condannati a una vita grama da esclusi, decidono di prendersi la loro rivincita inventandosi una colossale truffa ai danni del loro paese ed ergendo il sacrilegio allo status di opera d'arte. "Ci rivediamo lassù" è il romanzo appassionante e rocambolesco che racconta gli affanni del primo dopoguerra, le illusioni dell'armistizio, l'ipocrisia dello Stato che glorifica i suoi morti ma si dimentica dei vivi, l'abominio innalzato a virtù. In un'atmosfera crepuscolare e visionaria, Pierre Lemaitre orchestra la grande tragedia di una generazione perduta. 



Fughe picaresche dalla grande macelleria 
Pierre Lamaitre. La prima guerra mondiale è lo sfondo dove tessere la trama di un rinnovato «realismo sociale». Una intervista con lo scrittore francese, in Italia per presentare il romanzo «Arrivederci lassù»

Guido Caldiron, il Manifesto 4.3.2014 


«Non sono cre­sciuto con i rac­conti di trin­cea dei nonni. Però quando ero bam­bino, negli anni Cin­quanta, a Auber­vil­liers, ban­lieue nord di Parigi, c’erano quelli che chia­ma­vamo “gueu­les cas­sées”, i vec­chietti rima­sti inva­lidi o sfi­gu­rati com­bat­tendo nella Prima guerra mon­diale che ven­de­vano i biglietti della lot­te­ria. Me li ricordo bene, alcuni mi incu­te­vano molto paura per le loro ferite. Più tardi, da adulto, mi è capi­tato spesso di pas­sare davanti a qual­che monu­mento eretto alla memo­ria dei caduti. Una mat­tina, sarà stato poco più di una quin­di­cina d’anni fa, di fronte a uno di que­sti “sacrari” sta­vano cele­brando l’anniversario della Grande guerra. C’erano il sin­daco, quat­tro o cin­que con­si­glieri comu­nali, qual­che pom­piere e pra­ti­ca­mente nes­suno ad assi­stere. In una piazza deserta veni­vano scan­diti i nomi dei “morti per la Fran­cia”. Una scena tri­stis­sima. Ho pro­vato un sen­ti­mento di pro­fonda ingiu­sti­zia per la sorte di quei ragazzi cre­pati al fronte e poi trat­tati così. Credo di aver deciso allora di scri­vere que­sto libro». 

In Ita­lia per par­te­ci­pare al «Festi­val de la fic­tion fra­nçaise», Pierre Lemai­tre evoca così la genesi di Arri­ve­derci lassù (Mon­da­dori, pp. 454, euro 17,50), il romanzo che gli ha fatto vin­cere il pre­mio Gon­court e che in Fran­cia ha già ven­duto oltre 500mila copie. Un libro che mescola l’attenzione per il lato in ombra delle vicende tran­sal­pine con un grande affre­sco di respiro sto­rico e sociale. 

Scam­pati a stento alla morte nelle trin­cee, due gio­vani sol­dati, Albert, pro­le­ta­rio e intro­verso, e Edouard, esu­be­rante e di estra­zione bor­ghese, inse­guono la loro rivin­cita orga­niz­zando una truffa che ha per oggetto pro­prio la nuova «indu­stria» dei sacrari dedi­cati ai caduti fio­rita dopo quella che Lemai­tre stesso defi­ni­sce come «la macel­le­ria senza nome del 14–18». Una sto­ria pica­re­sca dove all’orrore della guerra, descritto minu­zio­sa­mente fin dalle prime pagine, si risponde con l’ironia e con una cri­tica radi­cale del nazio­na­li­smo. Non a caso, l’ufficiale plu­ri­de­co­rato che rap­pre­senta il prin­ci­pale anta­go­ni­sta dei due gio­vani, è descritto come un vero e pro­prio cri­mi­nale di guerra. 

Per­ché uno dei più apprez­zati scrit­tori euro­pei di noir ha deciso di cimen­tarsi con un altro genere narrativo? 

Mi ver­rebbe da dire che in realtà ho solo spe­ri­men­tato un altro aspetto del mio lavoro. In effetti non credo che il mio modo di pro­ce­dere, a parte le lun­ghe gior­nate pas­sate in biblio­teca e su inter­net a cer­care docu­menti e gior­nali d’epoca per docu­men­tarmi sul primo dopo­guerra, sia cam­biato gran­ché rispetto al pas­sato. Arri­ve­derci lassù si apre su un duplice omi­ci­dio com­piuto da un uffi­ciale per spin­gere i suoi sol­dati ad attac­care le trin­cee tede­sche. Il clima non è poi così lon­tano da quello del noir. Diciamo che per scri­vere que­sto romanzo mi sono libe­rato dell’abito del poli­zie­sco, ma ho con­ser­vato il meglio, direi il cuore stesso del noir, vale a dire l’azione e i rapidi cambi di scena. 

“Arri­ve­derci lassù” è uscito in Fran­cia alla vigi­lia delle com­me­mo­ra­zioni per il cen­te­na­rio della Grande guerra. L’anniversario l’ha spinta verso que­sto tema? 

Direi pro­prio di no. Quella guerra e la sorte toc­cata a tanti gio­vani, spesso poco più che ado­le­scenti, che una volta tor­nati a casa dalle trin­cee si sono visti rifiu­tare ogni aiuto e soste­gno dalla Fran­cia, fa parte da tempo del pic­colo museo per­so­nale del mio imma­gi­na­rio. Ma c’è anche dell’altro. Ho scelto di rac­con­tare il clima dif­fi­cile del primo dopo­guerra per­ché sono stato col­pito dalla simi­li­tu­dine tra quel periodo e quello che stiamo vivendo ora. Certo, la società fran­cese di oggi non è para­go­na­bile a quella di allora, anche se si ha l’impressione di cogliere qui e là riso­nanze sini­stre. Penso in par­ti­co­lare all’emarginazione in cui vivono tanti gio­vani e alla pre­ca­rietà che con­trad­di­stin­gue le loro esi­stenze. Dopo la Prima guerra mon­diale il pro­blema era che degli ex com­bat­tenti non si sapeva più che cosa fare. Oggi, un fran­cese su due teme di finire come un bar­bone: senza sti­pen­dio, né casa, né affetti. Non hanno tutti i torti. C’è sem­pre più gente che ha fatto tutti i sacri­fici che gli sono stati richie­sti, o impo­sti, e alla fine fini­sce lo stesso per per­dere tutto per­ché viene licen­ziata e si ritrova a tirare avanti in qual­che modo con i pochi soldi della disoc­cu­pa­zione. Una con­di­zione, quella del disoc­cu­pato, che è solo il primo passo verso la piena esclu­sione sociale. Come nel 1918, per molti non sem­bra esserci più posto tra noi. 

La denun­cia delle ingiu­sti­zie subite sem­bra ritor­nare in quasi tutti i suoi romanzi, in modo par­ti­co­lare in quest’ultimo e in «Lavoro a mano armata». La let­te­ra­tura può ren­dere giu­sti­zia ai più deboli o addi­rit­tura ven­di­care i torti che hanno subito? 

È vero, l’ingiustizia sociale è un tema cen­trale in tutto il mio lavoro. Atten­zione: sono solo uno scrit­tore, qual­cuno che rac­conta delle sto­rie più o meno bene, non voglio che mi si prenda troppo sul serio. Però è que­sta visione del mondo che non esi­te­rei a defi­nire «poli­tica» che mi accom­pa­gna da sem­pre quando scrivo. E se anche non serve a gran­ché, se non cam­bia ciò che sta intorno a me o «lo stato delle cose pre­senti», non credo che modi­fi­cherò mai que­sto mio approc­cio alla realtà. Detto que­sto, devo però ammet­tere che nes­sun libro è mai riu­scito dav­vero a cam­biare qual­cosa nella vita di un indi­vi­duo, tanto meno a ren­der­gli giu­sti­zia. O almeno non ce l’hanno fatto sapere! 

Una volta tor­nati dal fronte, Albert e Edouard sten­tano a tro­vare un posto nella società. Ad altri, come al loro ex tenente, di fami­glia ari­sto­cra­tica, per quanto deca­duta, va deci­sa­mente meglio. Nean­che nei periodi di crisi siamo tutti uguali? 

Diciamo che la mia pro­ve­nienza let­te­ra­ria, la scuola di cui mi con­si­dero un erede, anche se poco più che prin­ci­piante, è quella costruita dai grandi romanzi dell’Ottocento, penso soprat­tutto ad autori come Vic­tor Hugo e Ale­xan­dre Dumas, che per far pas­sare un mes­sag­gio forte, come accade ad esem­pio ne I mise­ra­bili, ricor­re­vano ad una rap­pre­sen­ta­zione della realtà basata su con­tra­sti molto netti, con­trap­po­si­zioni evi­denti e quasi sche­ma­ti­che. Si tratta di «romanzi sem­pli­fi­ca­tori», nel senso che si basa­vano su oppo­si­zioni molto vigo­rose, fron­tali, tra per­so­naggi e situa­zioni. Tutto ciò può dare l’idea di una sorta di lotta di classe per­ma­nente, in cui i potenti, dall’alto, si con­trap­pon­gono ai più deboli che stanno sem­pre in basso. Per­so­nal­mente, però, ciò che mi inte­ressa dav­vero non è tanto il con­tra­sto tra ric­chi e poveri, quanto piut­to­sto mostrare come pro­prio l’emergenza di que­ste ingiu­sti­zie sociali macro­sco­pi­che riveli come il sistema stesso sia in panne. Se a tavola non c’è più posto per tutti, allora il pro­blema non è solo che qual­cuno ha avuto una fetta troppo grossa, ma che l’intera baracca è da rimet­tere a posto. 

L’anniversario della «Grande guerra» non è stato indenne dalla reto­rica, cosa cui sfugge invece il suo romanzo che affronta l’orrore per­fino con iro­nia. I suoi reduci non vogliono essere eroi? 

Credo poco o per niente nell’eroismo e molto di più al san­gue freddo e alla for­tuna, cioè al fatto che si pos­sono anche com­piere dei gesti eroici, ma per puro caso. Non solo, con Arri­ve­derci lassù ho cer­cato di costruire una sorta di con­tro­canto alla cul­tura dell’estrema destra fran­cese, oggi molto popo­lare, che cerca di met­tere in rilievo i pre­sunti aspetti eroici della nostra sto­ria nazio­nale. E que­sto anche quando non ce n’è pro­prio alcuna trac­cia. Pro­ce­dendo con il mio metodo da gial­li­sta, ho scelto di rac­con­tare invece le pagine meno esal­tanti e più con­trad­dit­to­rie di quel periodo. Più che i trionfi, le scon­fitte, la vigliac­che­ria più che l’eroismo, le cose di cui ver­go­gnarsi più che quelle di cui andare even­tual­mente fieri. E i miei per­so­naggi, piut­to­sto che ad essere cele­brati da un monu­mento alla memo­ria, hanno pun­tato fino all’ultimo a restare vivi. Alla mito­lo­gia patriot­tica, che cela ogni sorta di inte­ressi ed è pronta a spe­cu­lare su qua­lun­que cosa, non ho fatto alcuna con­ces­sione. Il mio romanzo si chiude con una dedica ai caduti di ogni nazio­na­lità della guerra 1914–1918–

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