venerdì 21 marzo 2014

Una cura omeopatica e inefficace: la democrazia pop di David Graeber per rimuovere la questione del socialismo

David Graeber: Progetto Democrazia, il Saggiatore

Risvolto

Si può definire democratico un sistema politico che tutela i più ricchi e abbandona il 99% della popolazione? Gli strumenti di questa democrazia, la democrazia liberale, non sono in grado di affrontare e risolvere la crisi in atto. È necessario un cambiamento sociale per realizzare una democrazia reale e riportare al centro del dibattito la disuguaglianza economica.

David Graeber osserva come non siano più l’industria e il commercio a determinare la ricchezza, bensì la pura speculazione con la creazione di complicati strumenti finanziari. Lontana dall’economia reale, la finanziarizzazione del capitalismo è una vera e propria collusione tra governo e istituzioni finanziarie mirata a indebitare una percentuale sempre più alta di cittadini e ad arricchirne una sempre più esigua.

I governi non riflettono più il volere del popolo né il consenso popolare. È quindi impossibile parlare ancora di democrazia. Le lobby influenzano qualunque decisione, i rappresentanti dei cittadini finiscono per rappresentare più i finanziatori che gli elettori: questa è la convinzione di David Graeber e del movimento Occupy Wall Street che, nel settembre 2011, catturò l’attenzione del mondo a Zuccotti Park, a metà strada fra Wall Street e il World Trade Center. Per circa due mesi, senza usare violenza ma con determinazione, senza partiti e senza leader, le proteste degli attivisti raccolsero il consenso della maggioranza degli americani, infuriati contro banchieri e alta finanza.
Partendo da Zuccotti Park, Graeber accompagna i lettori in un’esplorazione della democrazia, rileggendone provocatoriamente la storia per capirne l’attualità – dalla nascita ad Atene alla fondazione degli Stati Uniti d’America, alle rivoluzioni del xx secolo, ai movimenti del xxi – e presenta un modello nuovo di democrazia reale, partecipata e orizzontale conquistata attraverso un consenso diffuso nelle decisioni e l’azione diretta. Dopo aver denunciato i meccanismi perversi all’origine della crisi economica di Europa e Stati Uniti in Debito. I primi 5000 anni, con Progetto democrazia Graeber vuole recuperare lo spirito ugualitario della vera democrazia contro l’arroganza del privilegio finanziario e politico.

David Graeber (1961) è un antropologo e un attivista. È stato professore a Yale; attualmente occupa la cattedra di Antropologia alla London School of Economics di Londra. In Italia, ilSaggiatore ha pubblicato Debito. I primi 5000 anni (2012).                                                      


La politica è una geografia mobile, non solo un reality 

Storia sociale. «Progetto Democrazia» di David Graeber per il Saggiatore. Il massimo teorico di Occupy Wall Street si interroga sui processi decisionali e sul senso dell’agire collettivo. I partiti devono ripartire dalla loro sconfitta. Tessendo connessioni simili al web e con leadership condivise.Pierfranco Pellizzetti, il Manifesto 21.3.2014 

Nono­stante l’epoca media­tiz­zata nel pro­fondo sia indotta a pen­sarlo, la poli­tica non è sol­tanto agire comu­ni­ca­tivo. Ovvia­mente, ci si rife­ri­sce non tanto e non solo alla poli­tica «tec­no­lo­gia del potere» (il cui prin­ci­pio guida è l’efficacia: linea Machia­velli), bensì al para­digma alter­na­tivo del «discorso pub­blico par­te­ci­pato deli­be­ra­ti­va­mente» (in cui pre/vale l’istanza alla «virtù»: linea Era­smo da Rot­ter­dam): la sco­perta fatta nel corso delle rivo­lu­zioni set­te­cen­te­sche che la società è pla­stica, dun­que modi­fi­ca­bile gra­zie alla poli­tica, tanto da poter accan­to­nare le ari­sto­cra­zie di san­gue (Ancien Régime); messa in mora dall’emergere nello spa­zio aperto della demo­cra­zia egua­li­ta­ria di nuove ari­sto­cra­zie, que­sta volta del denaro (Plutocrazie). 
Comun­que sia, que­sta poli­tica si arti­cola in tre ambiti rigo­ro­sa­mente inte­ra­genti: «stra­te­gico» (defi­ni­zione del dove e come andare, con chi andarci e per­ché), ovvia­mente «comu­ni­ca­tivo» (pro­mo­zione delle pro­prie ragioni, mobi­li­ta­zione dei con­sensi) e – ultimo ma non ultimo – «orga­niz­za­tivo» (strutturazione/stabilizzazione dell’impegno attra­verso un sog­getto dedicato). 
L’enfasi sulla comu­ni­ca­zione ha dif­fuso la falsa impres­sione della natura per­for­ma­tiva della dichia­ra­zione — per cui il dire è già di per sé l’atto com­piuto – sic­ché stra­te­gia e orga­niz­za­zione sono finite nel dimen­ti­ca­toio. Seb­bene siano pri­ma­rie con­di­zioni di suc­cesso per ogni poli­tica. D’altro canto, per far tor­nare in auge l’agire stra­te­gico occor­rerà spez­zare l’incantesimo che affligge il campo poli­tico – buona parte della sini­stra com­presa — per cui siamo immersi nel «pre­sente immo­bile del migliore dei mondi pos­si­bili» trat­teg­giato dall’ideologia Neo­Lib. Men­tre la risco­perta dell’agire orga­niz­za­tivo pre­sup­pone la presa di coscienza che – come diceva il mas­simo con­su­lente nove­cen­te­sco dell’establishment, Peter Druc­ker – «l’organizzazione è l’habitat umano». Sic­ché le mito­lo­gie spon­ta­nei­sti­che di que­sti anni pos­sono indurre un sen­ti­mento di tene­rezza in chi ha ormai una certa età (e dun­que ricorda con affetto i miti della sua gio­vi­nezza, dall’assemblearismo all’autogestione), senza per que­sto dimen­ti­care che pro­prio nel con­fu­sio­ni­smo disper­sivo sono affon­date tante spe­ranze gene­rose e – di con­verso — hanno tratto ali­mento le rea­zioni più feroci. Eppure la que­stione non sem­bra interessare. 
Anche nell’ultimo sag­gio del mas­simo teo­rico di Occupy Wall Street — David Grae­ber (Pro­getto Demo­cra­zia, per il Sag­gia­tore) — il pro­blema di dege­rar­chi­ci­giz­zare la deci­sione non rie­sce a oltre­pas­sare il con­fine del bon ton in mate­ria di scam­bio di enun­ciati: «L’essenza del pro­cesso di crea­zione del con­senso sta nel fatto che, quando si tratta di pren­dere una deci­sione, tutti dovreb­bero avere lo stesso peso e nes­suno dovrebbe sen­tirsi vin­co­lato». Ciò pre­messo, come Grae­ber pensi di gestire pro­blemi com­plessi deve ancora esserci spie­gato. Resta aperta la que­stione di come strut­tu­rare pro­cessi che diano senso, signi­fi­cato e con­ti­nuità all’azione col­let­tiva. Ossia misu­rarsi con la que­stione orga­niz­za­tiva, pren­dendo atto che ogni epoca ha tro­vato un para­digma domi­nante, che impron­tava di sé l’intero habi­tat umano, rece­pendo le logi­che dell’attore sociale di mag­gior suc­cesso. All’inizio dell’Ottocento, l’esercito prus­siano, che ispira la costru­zione di un appa­rato buro­cra­tico imper­so­nale. Ben pre­sto sarà la rivo­lu­zione indu­striale a colo­niz­zare gli imma­gi­nari dell’epoca – dall’avventura fer­ro­via­ria alla fab­brica for­di­sta – impo­nendo cri­teri «di massa» e anche i primi par­titi «di massa» che ini­zia­vano ad aggre­gare le mol­ti­tu­dini industriali. 
A par­tire dagli anni Ottanta del secolo scorso abbiamo assi­stito ad una sorta di toyo­tiz­za­zione della forma-partito che sem­pre di più si faceva «lean» (leg­gero); tanto da sci­vo­lare nei for­mat «azien­dali», «di pla­stica» o «per­so­na­li­stici», fun­zio­nali a quella «demo­cra­zia del pub­blico» in cui i cit­ta­dini elet­tori sono degra­dati a spet­ta­tori, cui è con­sen­tito solo l’applauso men­tre, e — al tempo stesso — ven­gono illu­so­ria­mente gra­ti­fi­cati gra­zie a pro­messe d’ascolto pura­mente tea­tra­liz­zate da parte del lea­der. In sostanza, una «forma» al ser­vi­zio di una vir­tua­liz­za­zione del discorso pub­blico, tra­sfor­mato in rea­lity tele­vi­sivo; che i morsi più che con­creti della crisi in cui siamo pre­ci­pi­tati si pre­mu­rano di fare a bran­delli. Que­sto com­porta il viag­gio a ritroso dal casting della poli­tica spet­ta­colo alle dure repli­che della realtà. 
Da qui, il bru­sco ritorno alla que­stione cru­ciale: quale potrebbe essere il nuovo modello-partito a misura del Terzo Mil­len­nio? In grado di inte­rio­riz­zare le carat­te­ri­sti­che intrin­se­che che con­no­tano l’habitat: discre­dito pre­giu­di­ziale delle élite, assenza di un cen­tro di aggre­ga­zione nell’economia senza piedi del decen­tra­mento pro­dut­tivo tra­sna­zio­nale, fran­tu­ma­zione dei grandi aggre­gati sociali, poten­zia­lità mobi­li­tanti delle nuove tec­no­lo­gie wire­less e «indos­sa­bili», ecc. 
Insomma, la forma-partito da ricer­care deve fare cose dif­fi­ci­lis­sime: con­net­tere senza la pre­tesa di sta­bi­lire prio­rità, far emer­gere sog­get­ti­vità dalla plu­ra­lità, por­tare a fat­tor comune espe­rienze disperse, indi­riz­zare ener­gie mul­ti­ple verso un unico obiet­tivo (pur in assenza di un Palazzo d’Inverno da assal­tare o di una Basti­glia da radere al suolo). 
Se vale la sim­me­tria con il pas­sato, nel mondo in cui la distri­bu­zione ha sop­pian­tato la pro­du­zione, il para­digma non può che essere logi­stico. Dun­que, un par­tito hub&spoke, con le carat­te­ri­sti­che impo­ste dal tra­spor­ti­smo marit­timo: a geo­gra­fia varia­bile e coor­di­na­mento situa­zio­nale. Quindi: strut­tura su base comu­ni­ca­tiva per cir­cui­tare mobi­li­ta­zioni e mes­saggi iden­ti­tari, por­ta­voce di lea­der­ship col­let­tive, impe­gno su base volon­ta­ria pro tem­pore. Inol­tre…

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