Giuliano Ferrara, da uomo navigato, ha capito al volo [SGA].
Questo libro piace troppo
“Se il Capitale fa danni per natura, allora io capitalista non ho colpe”. I ricchi liberal americani leggono Piketty e si danno di gomito. Le tesi ultra pop dell’economista francese tra Papi, pessimisti secolari e liberisti d’antan
Marco Valerio Lo Prete il Foglio 29 aprile 2014
Il capitalismo è il peggiore
sistema sociale ad eccezione di tutti gli altri
Giuliano Ferrara, il Foglio 27 aprile 2014 - ore 12:30
Se
Paul Krugman dice che il libro di questo Thomas Piketty è la nuova
edizione per il nostro secolo dell’anatomia della società civile
dell’Ottocento contenuta nel Das Kapital di Marx (in realtà Krugman è
spicciativo, scrive in tono entusiasta che è fantastico, il miglior
libro da decenni in qua), devo credergli. Se un verbale di commissariato
parigino afferma che Piketty le suonava alla moglie, Aurélie
Filippetti, ora ministro della Cultura, devo credergli. Se il Wall
Street Journal trova il saggio che fa tendenza a Washington ideologico e
confuso quanto a dati e interpretazioni, devo credergli.
Se ho capito bene, essendo bene informato ma senza aver ancora letto
le settecento pagine fatali in cui l’economista della rive gauche ha
raccolto dati e ispirazione letteraria per fare il suo ritratto del
capitalismo (riferimenti Balzac e la Austen, e gli indici di crescita
del reddito da lavoro e del capital return in dieci paesi, tra i quali
l’Italia, in un lungo arco di tempo), la tesi brillante del nouveau
économiste è questa: lo sviluppo capitalistico premia sempre di più i
redditi da patrimonio finanziario e immobiliare, crea tremende
ineguaglianze con i redditi da lavoro e i premi al merito e alla vera
produttività, e così ci condanna a un mondo in cui i ricchi sono sempre
più ricchi, la crescita dell’economia produttiva e dell’occupazione è
rinviata di almeno cent’anni, e manager di cui non si possono calcolare i
risultati competitivi come si può fare per l’impiegato di un call
center guadagnano cifre stellari fuori da ogni logica di mercato.
L’incubo di Piketty è che il capitale incrementa sé stesso e lascia
indietro il lavoro produttivo, con questo condannando il mondo a essere
diseguale e povero a favore di una classe di ricchissimi.
A me questa sembra la solita solfa di Occupy Wall Street, il
movimento stradaiolo di qualche tempo fa che piaceva alla gente che
piace, il cui obiettivo è colpire l’1 per cento degli straricchi: un
tipico caso di filantropia di massa, alimentato dai non poverissimi
George Soros e compagni dell’Upper West Side di Manhattan, un problema
sociale risolto da alcune cariche a cavallo nei parchi trasformati in
tendopoli di primavera e dall’esito di tutte le bolle sociali, lo
scoppio. Magari mi sbaglio e mi toccherà leggere Piketty per capire se
l’evoluzione della vecchia tiritera contro l’economia di carta ha
prodotto nuove analisi scientifiche, e se per combattere uno squilibrio
che distrugge ricchezza sia davvero necessario sequestrare la ricchezza
ai ricchi con un’imposta straordinaria sui patrimoni dell’80 per cento
(il nouveau économiste non ama le mezze misure).
Intanto mi limito a osservare. Ho passato una bella decina di giorni a
San Pietroburgo, in un paese che ricordo oltre mezzo secolo fa come una
nebbiosa e infantile favola tolstoiana, corretta dal noir della
devozione esistenziale di Dostoevskij. E’ ancora se Dio vuole un mondo
prima di Prada, l’autorità non è tutta sequestrata dalle scarpe, ma è
l’universo sociale di un ceto medio con una scala di valori magari
banale ma non infame: anche qui, nel luogo dell’esperimento novecentesco
più serio e tragico, la proletarizzazione universale non c’è stata, le
diseguaglianze sono tornate, la democrazia è appena praticabile, lo
squilibrio consente alla società di avanzare oltre il mito ideologico, e
la bellezza aristocratica del Settecento, combinata con un mediocre ma
solido benessere, ha divorato e risputato i sapori acidi di birra e
vodka che avevano ubriacato di sogni e di incubi l’ingresso della Russia
nel mondo moderno. Avevano ragione Raymond Aron e Alberto Ronchey, a
giudicare dai risultati ictu oculi, quando dicevano che senza squilibrio
e ineguaglianza non c’è sviluppo e non c’è democrazia o per lo meno un
relativo rispetto degli individui, dei loro vizi, dei loro culti, del
loro darsi da fare – naturalmente invano – nella ricerca della felicità.
Avevano ragione Gogol e Gonciarov, la vita è grottesca e la sua fatica
sembra sempre indegna di essere vissuta, ma a giudicare dai risultati il
capitalismo, nonostante i capitalisti filantropi americani e gli
economisti della rive gauche, è il peggiore sistema sociale ad eccezione
di tutti gli altri.
Piketty e la tassazione patrimoniale Il falso mito delle nuove tasse
di Andrea Tavecchio Corriere 1.5.14
L’uscita, anche in italiano, del saggio dell’economista francese Thomas
Piketty «Capital in the Twenty-First Century», che indaga sulla
distribuzione del reddito e della concentrazione del capitale in mano a
un numero ristretto di individui, non potrà che fare da combustibile nei
prossimi mesi all’eterno dibattito sulle varie ipotesi di modulazione
delle tasse patrimoniali, di successione e sui redditi di capitale.
Il premio Nobel per l’Economia Robert Solow sintetizza, infatti, la
proposta fiscale preferita da Piketty come una tassa progressiva sulla
ricchezza, ovunque posseduta, che colpisca ogni anno la quota eccedente
un milione di euro con un’aliquota dell’uno per cento e la quota
eccedente i cinque milioni di euro con un’aliquota del due per cento. Il
dibattito in Italia si preannuncia surreale per almeno due motivi. Il
primo è che, a fronte di una dichiarazione dei redditi di grande
complessità, specie nella sezione dei redditi finanziari, in Italia non
c’è ancora un modello di dichiarazione che dia una dimensione
patrimoniale oltre che reddituale del contribuente, come avviene ormai
in tutti i Paesi evoluti. Ipotizzare patrimoniali eque, in questo
contesto, è quindi tecnicamente impossibile. Il secondo è che l’imposta
patrimoniale in Italia c’è già ed è abbastanza pesante. Tra Imu sugli
immobili (o Ivie su immobili esteri) calcolata senza dedurre le
passività relative ai cespiti stessi, ed imposta di bollo su attività
mobiliari (o Ivafe se attività estere), la tassazione patrimoniale per
tantissime famiglie è già ben oltre la soglia immaginata da Piketty.
Un patrimonio sotto i cinque milioni di euro di immobili acquistati a
fronte di mutui bancari ha un carico fiscale complessivo già oggi ben
oltre l’1% sulla componente patrimoniale. A ciò bisogna poi aggiungere
quanto si paga sul reddito. E nel caso dei dividendi, se distribuiti da
società italiane, siamo ad una tassazione complessiva di circa il 75%,
se si tiene conto anche di quanto versato dalle società stesse. La
tassazione «alla Piketty» in Italia c’è già ed è mal strutturata e
distorsiva. Sarebbe l’ora di mettere ordine e non pensare a nuove tasse.
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