giovedì 3 aprile 2014

Il primo volume del corso di Derrida su "La pena di morte"

La pena di morte vol.1Jacques Derrida: La pena di morte, a cura di G. Dalmasso e S. Facioni, Jaca Book

Risvolto
Nel decennale della morte di Derrida, Jaca Book prosegue la pubblicazione dei seminari, dopo i due volumi de "La bestia e il sovrano". In questo primo volume dedicato alla pena di morte sono messi in gioco, nell'imminenza di una sanzione irreversibile, i concetti problematici di sovranità, eccezione e crudeltà. Il libro percorre quattro figure paradigmatiche (Gesù, Socrate, Hallâj, Giovanna d'Arco) e testi canonici: la Bibbia, Camus, Beccaria, Locke, Kant, Hugo, e anche testi giuridici successivi alla seconda guerra mondiale. Cuore pulsante del seminario è riconoscere che le tesi filosofiche e giuridiche a favore o contro la pena di morte si sono appellate agli stessi principi: "non è sufficiente decostruire la morte stessa". Si fa strada l'ipotesi che proprio la pena di morte obblighi a rimettere in discussione gli umanesimi filosofici, politici, teologici, economici che sostengono la nostra epoca. 


Jacques Derrida 172 03-04-2014 la repubblica 35

Che dire a qualcuno che venisse a dirvi all’alba: «Sapete, la pena di morte è il proprio dell’uomo?». (Lungo silenzio) Io sarei subito tentato di rispondergli — troppo velocemente: sì, lei ha ragione. Almeno che non sia il proprio di Dio — o che non sia la stessa cosa. Poi, resistendo alla tentazione in virtù di un’altra tentazione — o in virtù di una contro tentazione, sarei allora tentato, riflettendoci, di non rispondere troppo velocemente e di farlo attendere — giorni e notti. Fino all’alba. [...]
E supponendo che la decisione di cui ci apprestiamo a parlare, la pena di morte, non sia l’archetipo stesso della decisione. Supponendo dunque che chiunque possa mai prendere una decisione che sia la sua, per sé, la sua propria. A questo riguardo ho manifestato spesso i miei dubbi. La pena di morte come decisione sovrana di un potere forse ci ricorda innanzitutto che una decisione sovrana è sempre dell’altro. Venuta dall’altro. [...] Con la crudeltà che conoscete, e una crudeltà, sempre la stessa, della quale sapete anche che può andare dalla più grande brutalità dell’abbattimento, alle raffinatezze più perverse, dal supplizio più sanguinario o bruciante, al supplizio più denegato, più mascherato, più invisibile, più sottilmente macchinalizzato, dal momento che l’invisibilità o la denegazione non sono altro mai, e in alcun caso, che un pezzo di marchingegno teatrale, spettacolare, perfino voyeuristico. Per definizione, per essenza, per vocazione, non ci sarà mai stata invisibilità per una messa a morte legale, per una pena di morte applicata, per principio, per questo verdetto non c’è mai stata una esecuzione segreta o invisibile. Sono richiesti lo spettacolo e lo spettatore. La città, la polis, la politica tutta intera, la concittadinanza — di persona o mediata attraverso la sua rappresentazione — deve assistere e attestare, deve testimoniare pubblicamente che è stata data o inflitta la morte, deve veder morire il condannato. Lo Stato deve e vuole veder morire il condannato. [...] Ogni volta uno Stato, associato a un potere clericale o religioso, in forme da studiare, avrà pronunciato verdetti e giustiziato grandi condannati a morte che furono dunque inanzitutto Socrate. Socrate, voi lo sapete ma ci ritorneremo, a cui fu imputato di aver corrotto i giovani non credendo agli dei della città e sostituendo a essi nuovi dei, come se avesse avuto il progetto di fondare un’altra religione e di pensare un uomo nuovo. Rileggete l’ Apologia di Socrate e il Critone, vi troverete che un’accusa essenzialmente religiosa è presa in carico da un potere di Stato, un potere della polis, una politica, una istanza giuridico-politica, ciò che si potrebbe chiamare, con un terribile equivoco, un potere sovrano come potere esecutivo. l’ Apologia lo dice espressamente (24bc): la kategoria, l’accusa lanciata contro Socrate, è di aver avuto il torto, di essere stato colpevole, di aver commesso l’ingiustizia (adikein) di corrompere i giovani e di (o per) aver smesso di onorare (nomizein) gli dei (theous) della città o gli dei onorati dalla città — e soprattutto di averli sostituiti non semplicemente con nuovi dei, come spesso dicono le traduzioni, ma con dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina); e daimonia, sono senza dubbio degli dei, delle divinità, ma anche a volte dei fantasmi [revenants], come in Omero, degli dei inferiori o dei fantasmi [ revenants], le anime dei morti; e il testo distingue bene gli dei e i demoni: Socrate non ha onorato gli dei (theous) della città, e ha introdotto dei nuovi demoni (etera de daimonia kaina).
L’accusa dunque, nel contenuto, è religiosa, propriamente teologica, addirittura esegetica. Socrate è accusato di eresia o di blasfemia, di sacrilegio o di eterodossia: si sbaglia sugli dei, si inganna o inganna gli altri, soprattutto i giovani, riguardo agli dei; ha confuso gli dei o ha generato confusione e disprezzo sugli dei della città. Ma questa accusa, questo capo di accusa, questa kategoria essenzialmente religiosa, è presa in carico, come sempre, e noi ci interessiamo regolarmente a questa ricorrente articolazione, sempre ricorrente, da un potere di Stato, in quanto sovrano, un potere di Stato la cui sovranità è essa stessa essenzialmente fantasmatico teologica e, come ogni sovranità, si marca nel diritto di vita e di morte sul cittadino, nel potere di decidere, di fare la legge, di giudicare e di eseguire/giustiziare l’ordine operando l’esecuzione del condannato. Anche negli stati-nazione che hanno abolito la pena di morte, abolizione della pena di morte che non equivale affatto all’abolizione del diritto di uccidere, ad esempio in guerra, ebbene, i pochi stati della modernità democratica che hanno abolito la pena di morte, conservano un diritto sovrano sulla vita dei cittadini che possono mandare in guerra per uccidere o per farsi uccidere in uno spazio radicalmente estraneo allo spazio della legalità interna del diritto civile in cui la pena di morte può essere mantenuta o abolita. [...] È sempre legale uccidere un nemico straniero in situazione di guerra dichiarata, anche per un paese che ha abolito la pena di morte (e a questo proposito dovremo domandarci cosa definisce un nemico, uno straniero, uno stato di guerra — civile o meno; è sempre stato difficile determinarne i criteri e lo diventa sempre di più). D’altra parte, in secondo luogo, fino a certi fenomeni recenti e ristretti di abolizione legale della pena di morte in senso stretto in un numero ancora limitato di paesi, cioè negli stati-nazione di cultura abramitica, gli stati-nazione in cui una religione abramitica (ebraica, cristiana o islamica) era dominante, sia che fosse religione di Stato, religione ufficiale e costituzionale, sia che fosse semplicemente religione dominante nella società civile, ebbene, questi stati-nazione, fino a certi fenomeni recenti e limitati di abolizionismo, non hanno trovato alcuna contraddizione tra la pena di morte e il sesto comandamento «Tu non ucciderai».


Maurizio Ferraris 173 03-04-2014 la repubblica 35


I SEMINARI di Derrida sulla pena di morte, tra gli ultimi che ha tenuto all’ École des Hautes Études en Sciences Sociales, sono un esempio impressionante dell’intreccio fra dimensione politica e riflessione privata nel pensiero di un grande filosofo. Da una parte, c’è la presa di posizione pubblica, il fatto che in moltissimi stati sia assunto come normale che una decisione legale interrompa la vita di un essere umano. Una posizione politica inaccettabile, ma che trova sostegno in una tradizione filosofica che ha esponenti insospettabili (in questo seminario Derrida dedica pagine memorabili alla giustificazione razionale della pena di morte in Kant). D’altra parte, c’è la posizione esistenziale: la pena di morte non pesa soltanto sui prigionieri nei bracci della morte, ma su chiunque, ognuno di noi è, per il solo fatto di vivere, condannato a morte. Sono temi che rivelano la prossimità di Derrida con gli autori letti da ragazzo in Algeria: Rousseau, Nietzsche, Gide, Camus, Sartre, Kierkegaard, una prossimità che diviene più esplicita nel momento in cui, con l’avanzare dell’età, Derrida sente che la pena di morte si sta avvicinando.
Come evitare l’inevitabile?
Attraverso la sua lunghissima e fecondissima riflessione sulla scrittura, si può dire che nella sua intera opera Derrida abbia messo in atto una strategia di sopravvivenza o di resurrezione: che resti almeno la scrittura, nel momento in cui non c’è più lo scrittore. Ma, ovviamente, è illusorio pensare che questo sopravvivere spettrale (quello dello spettro è un altro tema centrale della riflessione derridiana) sia un rimedio all’inevitabile. È un farmaco, un rimedio provvisorio, una specie di anestesia. Derrida tiene questo seminario dell’anno accademico 1999-2000.
Morirà quattro anni dopo, il 9 ottobre 2004, e tutti i suoi ultimi scritti sono impegnati in una specie di lavoro del lutto anticipato, in una preparazione o rassegnazione all’inevitabile, facendo ricorso a tutte le consolazioni della filosofia.

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