domenica 6 aprile 2014

Jeremy Bentham: una democrazia per i proprietari. E nemmeno per tutti

Copertina
Effettivamente, Bentham può essere considerato democratico solo da chi ritiene possibile una "democrazia come progetto di organizzazione manageriale, ecc. ecc. E' una cosa umiliante per il pensiero, credo lo capiscano anche loro. Ma oggi costoro comandano e bisogna farsene una ragione [SGA].

Paola Rudan: L’inventore della costituzione. Jeremy Bentham e il governo della società,  il Mulino

Risvolto

Fra i primi a dare rilevanza fondamentale al concetto politico di costituzione in senso moderno, Jeremy Bentham riconosce nella società un ordine dotato sì di norme e regole proprie, ma anche esposto al costante rischio del disordine e della rivoluzione. Nella sua visione, la costituzione non si riduce a un documento formale, ma è l’insieme di pratiche sociali, politiche e amministrative che garantiscono il governo della società. Considerato tra i massimi esponenti ora del liberalismo ora della concezione disciplinare del potere, anticipatore ora del welfare ora dei regimi totalitari del ’900, l’«inventore della costituzione» è in realtà il primo grande teorico della democrazia come progetto di organizzazione manageriale dei movimenti della società e degli individui che ne sono protagonisti.


Un’architettura a misura di società 
Saggi . «L’inventore della costituzione. Jeremy Bentham e il governo della società » di Paola Rudan per il Mulino. L’opera di Jeremy Bentham prova a sciogliere il nodo politico della modernità, cioè quelle parzialità, come la povertà, che con le loro richieste di eguaglianza deragliano dall’ordine «naturale» del mercato

Matteo Battistini, il Manifesto 5.4.2014 

Di fronte ai ten­ta­tivi di riforma che hanno la pre­tesa di ren­dere i tempi isti­tu­zio­nali coe­renti con le acce­le­ra­zioni impo­ste dal mer­cato glo­bale, la costi­tu­zione torna a essere con­si­de­rato un baluardo in difesa della società. Assume cioè i carat­teri di un testo sacro che, idea­liz­zando il pas­sato demo­cra­tico del wel­fare state, con­sente di imma­gi­nare un altro futuro, men­tre opera quale stru­mento pro­fano di orga­niz­za­zioni poli­ti­che e pro­ce­dure finan­zia­rie sovra­na­zio­nali, come mostra l’introduzione del pareg­gio di bilan­cio. Para­dosso che segnala la debo­lezza di rico­struire attorno al testo costi­tu­zio­nale un voca­bo­la­rio poli­tico rivolto a una nuova costi­tu­zione mate­riale del lavoro, della soli­da­rietà sociale, del bene comune. 


Il volume di Paola Rudan L’inventore della costi­tu­zione. Jeremy Ben­tham e il governo della società (il Mulino, pp. 256, euro 24) ha il merito di inno­vare gli studi su un autore poco stu­diato anche per via della sua dif­fi­cile clas­si­fi­ca­zione nelle cate­go­rie poli­ti­che del secolo scorso. L’inventore della costi­tu­zione for­ni­sce infatti un’articolata let­tura dell’affermazione della costi­tu­zione quale pie­tra ango­lare del pro­cesso di for­ma­zione dell’ordine moderno in seguito alla frat­tura impo­sta dalle rivo­lu­zioni atlan­ti­che. L’autrice rico­strui­sce così la com­plessa costel­la­zione storico-concettuale delle sue opere all’interno delle quali viene «inven­tata» la costi­tu­zione: rivo­lu­zione e riforma, società e mer­cato, pro­prietà, lavoro e povertà, governo, opi­nione pub­blica e mana­ge­ment defi­ni­scono un qua­dro inter­pre­ta­tivo che rende più che mai attuale il pen­siero di chi aveva 28 anni quando le colo­nie nord-americane dichia­ra­rono l’indipendenza, 41 quando fu presa la Basti­glia; e moriva il giorno prima che il Reform Bill del 1832 diven­tasse legge. 

Il filo­sofo dell’utile è calato nel suo tempo per essere libe­rato da cate­go­rie che, se ne hanno tenuta viva l’eredità nel secolo scorso, rischiano oggi di ridurlo a un «cane morto» dopo esser stato cele­brato come libe­rale per eccel­lenza e padre del costi­tu­zio­na­li­smo o, all’opposto, dopo esser stato cri­ti­cato come anti­ci­pa­tore di forme tota­li­ta­rie (panop­ti­con), igno­rando il fatto che nella sua rifles­sione potere e libertà s’implicano reci­pro­ca­mente e che il costi­tu­zio­na­li­smo non può essere ridotto a una tec­nica di libertà per la limi­ta­zione del potere poi­ché com­porta – spe­cie nella sua acce­zione demo­cra­tica – una visione «tota­liz­zante», ammi­ni­stra­tiva e orga­niz­za­trice della società volta a pro­durre la «mag­gior feli­cità per il mag­gior numero». Nel suo sag­gio, l’autrice mette così a fuoco l’invenzione della costi­tu­zione matu­rata nella opera di Ben­tham, dal Fram­mento sul Governo (1776), agli scritti su povertà e indi­genza ela­bo­rati nel corso della rivo­lu­zione fran­cese, al Codice costi­tu­zio­nale (scritto negli anni Venti e pub­bli­cato postumo nel 1841). 
Il codice utilitarista 

Si tratta di una gli­glia inter­pre­ta­tiva indi­cata dallo stesso Ben­tham. Nel momento in cui riflette sull’indipendenza ame­ri­cana sostiene che la legit­ti­mità del governo non dipende dalla sua ade­renza alla tra­di­zione costi­tu­zio­nale del com­mon law bri­tan­nico o all’ipotetico stato di natura del giu­sna­tu­ra­li­smo, bensì dalla sua effi­ca­cia. Poi­ché la rivo­lu­zione si dà quando il governo non è più con­forme all’interesse dei coloni, allora la costi­tu­zione deve essere un calco dela società, deve cioè essere capace di avere presa sugli inte­ressi degli indi­vi­dui. Dal Fram­mento sul Governo deriva dun­que l’esigenza di rea­liz­zare una per­fetta cor­ri­spon­denza tra orga­niz­za­zione isti­tu­zio­nale e movi­mento della società. 

Que­sta esi­genza diventa tanto più cogente quando, con la rivo­lu­zione fran­cese, poveri e indi­genti entrano sulla scena poli­tica avan­zando pre­tese d’uguaglianza incom­pa­ti­bili con le gerar­chie della ric­chezza sociale. Ben­tham guarda allora den­tro la società per iso­lare, defi­nire e ren­dere uni­ver­sal­mente valido il codice sociale dell’utile, del rispetto della pro­prietà e dell’impegno nel lavoro. Men­tre i suoi con­tem­po­ra­nei cele­brano il mer­cato, egli indi­vi­dua i limiti della sua nor­ma­ti­vità, rico­no­scendo così la società come irri­solto pro­blema poli­tico dell’ordine moderno. Essa regola gli inte­ressi in un gioco a somma posi­tiva solo fin­ché tutti ne sono par­te­cipi, ma il mec­ca­ni­smo incre­men­tale s’inceppa quando l’indigenza muove un numero cre­scente d’individui fuori dal mer­cato. La sua pro­po­sta di isti­tuire le indu­stry hou­ses per ripor­tare poveri e indi­genti al lavoro secondo una disci­plina ade­guata alla nascente grande fab­brica è quindi pen­sata per ripri­sti­nare la nor­ma­ti­vità sociale: tutti gli indi­vi­dui devono poter ricer­care la feli­cità attra­verso il lavoro. 

Se povertà e indi­genza inne­scano peri­co­lose par­zia­lità che incri­nano il corso «natu­rale» del mer­cato, allora la costi­tu­zione deve difen­dere la società risol­vendo il dilemma sha­ke­spea­riano dell’individuo senza pro­prietà: «lavo­rare o non lavo­rare – que­sto è il pro­blema». Il filo­sofo dell’utile getta così le fon­da­menta sociali dell’edificio costi­tu­zio­nale for­ma­liz­zando spe­ci­fi­che figure demo­cra­ti­che: il gover­nante assume le sem­bianze del mana­ger delle indu­stry hou­ses; la rap­pre­sen­tanza fun­ziona come una tec­no­lo­gia sociale che tra­sforma gli elet­tori in azio­ni­sti di un governo chia­mato a sod­di­sfare i loro inte­ressi; l’opinione pub­blica diviene un tri­bu­nale che sta­bi­li­sce le giu­ste rela­zioni fra le classi sociali e fra mol­ti­tu­dine e governo; la demo­cra­zia – la cui matrice teo­rica è ricon­dotta al ser­rato con­fronto con i Fede­ra­list Papers – ha una cara­tura ammi­ni­stra­tiva. Sfugge cioè alla clas­sica defi­ni­zione delle forme di governo per diven­tare un com­plesso isti­tu­zio­nale di mana­ge­ment della società che, attra­verso fun­zioni ispet­tive, sta­ti­sti­che e nor­ma­tive, otti­mizza la gestione delle risorse e l’efficacia dei servizi. 
Aperta e malleabile 

La costi­tu­zione diviene infine codice costi­tu­zio­nale. Ben­tham non si limita a defi­nire il rap­porto fra potere e libertà, diritto e diritti, governo e mer­cato. Ingloba infatti il capi­ta­li­smo nell’organizzazione posi­tiva della costi­tu­zione, sta­bi­lendo così un’indispensabile cin­ghia di tra­smis­sione fra poli­tica e società. Per que­sto è aperta e mal­lea­bile, capace non sol­tanto di inscri­vere gli indi­vi­dui nella nor­ma­ti­vità sociale, ma anche di ripor­tare all’ordine par­zia­lità anti­so­ciali, allon­ta­nando così il disor­dine e l’eventualità sem­pre pre­sente della rivo­lu­zione. Il Codice costi­tu­zio­nale rimane in que­sto senso un’utopia, coe­ren­te­mente con la deli­rante ambi­zione illu­mi­ni­sta del suo autore di essere «legi­sla­tore del mondo». 

La sua man­cata rea­liz­za­zione rimanda all’attualità della costi­tu­zione quale espres­sione dell’irrisolto pro­blema poli­tico della società, tanto più cogente quanto più que­sta diviene un ordine glo­bale: non come luogo soli­dale d’integrazione sociale e godi­mento del benes­sere, bensì quale spa­zio riser­vato al mer­cato. Para­fra­sando Ben­tham, pos­siamo dire che l’intera società è oggi «casa dell’industriosità». Per inter­ro­garsi sul futuro della costi­tu­zione è dun­que neces­sa­rio tor­nare al suo «inven­tore» e chie­dersi quale sia la cifra poli­tica della con­ti­nua «giu­ri­di­fi­ca­zione» sovra­na­zio­nale delle rela­zioni che segnano i pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione. Tor­ne­rebbe allora utile la sprez­zante bat­tuta di Marx, per il quale nell’ambito costi­tu­zio­nale della cir­co­la­zione regnano sol­tanto Libertà, Egua­glianza, Pro­prietà e Ben­tham.

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