di Luciano Canfora Corriere La Lettura 6.4.14
Una delle grandi novità del XXI secolo è il riapparire su larga scala
delle forme di dipendenza schiavile e semischiavile. Un segnale in tal
senso, sia pure espresso con disarmante ingenuità, si è avuto, in sede
ufficiale, quando «da Oslo è partita una delegazione guidata da Ole
Henning, allarmata dalle notizie sulla diffusione del caporalato nella
raccolta del pomodoro nel Sud Italia» («Corriere della Sera», 23 ottobre
2013). Il riferimento è alla condizione semischiavile dei neri
impiegati nelle campagne della Capitanata, di Villa Literno o di Nardò.
Beninteso, il pomodoro poco «etico» è solo la punta dell’iceberg di un
fenomeno mondiale, nel quale rientrano le maestranze schiave del Sud-Est
asiatico o del Bangladesh, per non parlare dei minatori neri del Sud
Africa, sui quali spara ad altezza d’uomo una polizia, anch’essa fatta
di neri, per i quali la meteora Mandela è passata invano. È chiaro che
il profitto si centuplica se il lavoratore è schiavo (schiavo di fatto,
se non proprio formalmente). E il profitto è più sacro del Santo Graal
nell’etica del «mondo libero».
La mondializzazione dell’economia e il venir meno di qualunque movimento
— o meglio collegamento — internazionale dei lavoratori ha creato le
condizioni per questo ritorno in grande stile di forme di dipendenza che
in verità non erano mai scomparse del tutto. Basti ricordare che
soltanto «nel febbraio del 1995 il Senato del Mississippi, uno dei
baluardi storici del razzismo Usa, ha approvato il XIII emendamento
della Costituzione americana, siglato nel 1865, secondo cui la schiavitù
volontaria o involontaria non potrà esistere entro i confini degli
Stati Uniti» («Corriere della Sera», 19 febbraio 1995). E, quanto
all’Europa, non sarà male ricordare che l’abrogazione della schiavitù
coloniale, varata dalla Convenzione nazionale a Parigi nel febbraio
1794, rimase di fatto lettera morta, poiché nel frattempo buona parte
delle colonie francesi nelle Antille era passata, nel turbine della
rivoluzione in Francia, sotto controllo inglese e la liberale
Inghilterra aveva vanificato gli effetti dell’abrogazione. Di qui la
necessità di una nuova solenne abrogazione, nel 1848, sotto l’impulso di
Henri Wallon e di Victor Schoelcher. Intanto incubava, negli Usa, la
feroce guerra civile causata dalla secessione del Sud, baluardo della
schiavitù.
Il nesso tra capitale e schiavitù non si è dunque mai del tutto
spezzato. Ora un bel libro di Herbert S. Klein (Il commercio atlantico
degli schiavi , Carocci, pp. 288, e 20) ricostruisce, con fredda e tanto
più efficace documentazione, questa vicenda sulla scala dei secoli
(soprattutto XV-XIX), non senza un breve ed efficace preambolo sulle
origini antiche dell’ininterrotto fenomeno. Nel rapido sguardo che Klein
rivolge alla schiavitù antica si apprezza lo sforzo volto a distinguere
l’entità del fenomeno in Grecia da un lato e dall’altro nel mondo
mediterraneo e continentale unificato da Roma, dove la massa di schiavi,
soprattutto nei secoli II a.C. - fine II d.C., fu di gran lunga più
grande che nella Grecia delle poleis . Forse Klein non conosce il sesto
libro dei Sofisti a banchetto di Ateneo di Naucrati (fine II d.C.) —
cioè la più grande enciclopedia a noi giunta di epoca ellenistico-romana
—, ma certo lì la questione viene ampiamente sviscerata, cifre alla
mano: e non è del tutto vero, a stare a quell’importante repertorio
antiquario, che nella Grecia del tardo V e IV secolo a.C. non si
riscontrassero realtà schiavistiche imponenti.
La schiavitù in Grecia ha creato qualche imbarazzo a una parte degli
studiosi moderni (quelli in particolare cui è parso che il fenomeno
offuscasse la purezza del miracolo greco), i quali perciò si sono
affannati a screditare le poche cifre tramandate intorno all’entità del
fenomeno. Altri interpreti hanno ritenuto preferibile una linea più
provocante, e cioè: la schiavitù fu un bene perché rese possibile il
miracolo greco. Altri ancora, come il dilettante onnivoro, ciclicamente
«riscoperto» per amor di paradosso, Giuseppe Rensi (1871-1941),
propugnarono in pieno XX secolo il ripristino della schiavitù come unica
garanzia di difesa del capitale: «Il lavoratore — scriveva Rensi nei
Principi di politica impopolare (1920) — in quanto lavora non può non
essere dipendente, sottoposto, servo di colui che gli richiede le sue
funzioni (…). Aveva perfettamente ragione Aristotele quando sosteneva la
necessità e l’eternità della schiavitù».
Questo modo di ragionare può avere vaste ramificazioni. Per esempio
negli anni Settanta ebbe un quarto d’ora di celebrità Eugene D.
Genovese: non già per i suoi studi molto utili sull’Economia politica
della schiavitù (Einaudi, 1972), ma per i suoi paradossi sul carattere
«progressivo» della schiavitù negli Usa del XIX secolo (Neri d’America ,
Editori Riuniti, 1977). E invece gli studi di Genovese meritano di
essere ricordati per altre ragioni: per aver messo in luce l’intreccio
nell’epoca nostra, o molto vicina a noi, tra capitalismo e schiavitù.
«Il capitalismo — scrisse — ha assorbito e anzi addirittura incoraggiato
molti tipi di sistemi sociali precapitalistici: servitù della gleba,
schiavitù etc.» (L’economia politica della schiavitù ). Quelle sue
osservazioni risalenti all’inizio degli anni Sessanta, e focalizzate —
tra l’altro — sul caso emblematico dell’integrazione perfetta
dell’Arabia Saudita nel sistema capitalistico mondiale, tornano
attualissime oggi, visti il ritorno in grande stile del fenomeno
schiavitù come anello indispensabile del cosiddetto «capitalismo del
Terzo millennio», nonché il ruolo cruciale della feudale monarchia
saudita nella difesa del cosiddetto «mondo libero» e nella strategia
planetaria degli Stati Uniti.
Per gli Usa infatti il criterio realpolitico ha quasi sempre avuto la
meglio sulle scelte di principio, in questo come in altri campi: la
forza e il tornaconto come potenza erano il fondamento, mentre la
«dottrina» volta a volta esibita era, ed è, il paravento. La tratta
degli schiavi è stata praticata senza problemi (anche il virtuoso
Jefferson aveva i suoi schiavi, con tutte le implicazioni economiche ed
etiche che ciò comportava). Klein dimostra molto bene nel suo saggio,
dal quale abbiamo preso le mosse, che fu la penuria di mano d’opera
interna a incrementare l’opzione in favore della tratta; e che il
meccanismo incominciò a declinare nella seconda metà dell’Ottocento, non
tanto in conseguenza della guerra civile americana, quanto piuttosto
per l’irrompere sulla scena della massiccia emigrazione dall’Europa. Il
fenomeno accomunò le due Americhe: «La colonizzazione dell’Ovest
statunitense e la conquista argentina del deserto furono movimenti del
primo e del tardo Ottocento che provocarono il massacro delle native
popolazioni amerindie che vi si opposero e la loro sostituzione con
coloni immigrati».
La «macchia» rappresentata dalla schiavitù non passava inosservata in
Europa: non bastava l’autoesaltazione retorica americana a celarla. Nel
1863 un politico inglese di rango, che era anche un fine studioso di
storia antica, John Cornewall Lewis, pubblicò un dialogo, di tipo
platonico-socratico, intitolato Qual è la miglior forma di governo?
(riedito vent’anni fa da Sellerio), nel quale la pretesa
dell’interlocutore denominato «Democraticus» di provare la possibilità
di attuare il modello democratico e repubblicano con l’argomento «gli
Stati Uniti lo sono» viene demolito dall’antagonista, il quale osserva
che tale non può essere un Paese in cui esista la schiavitù.
È una considerazione, oltre che un monito, che vale anche per il nostro
presente. Nel giugno 2013 si tenne a Kiev, mentre era al governo il
presidente eletto Yanukovich, la conferenza dell’Osce sul traffico di
esseri umani. Nel rapporto conclusivo si leggeva: «Dal 2003 il traffico
di esseri umani ha continuato a evolversi fino a diventare una seria
minaccia transnazionale, che implica gravi violazioni dei diritti umani.
Sono stati sviluppati nuovi sofisticati metodi di reclutamento, sottile
coercizione e abuso della vulnerabilità delle vittime, nonché di gruppi
emarginati e discriminati». A questo si aggiungano le risultanze del
rapporto Eurostat sul traffico di esseri umani in Europa dell’aprile
2013. Negli stessi mesi «La Civiltà Cattolica» pubblicava un saggio del
gesuita Francesco Occhetta, La tratta delle persone, la schiavitù nel
XXI secolo , mentre sul versante giuridico appariva un volume denso non
solo di dottrina ma anche di storia, La giustizia e i diritti degli
esclusi di Giuseppe Tucci con una significativa introduzione di Pietro
Rescigno. Si può ben dire, in conclusione, che l’intreccio tra
ramificata, onnipresente e indisturbata malavita e finanza incontrollata
e incontrollabile (riciclaggio del denaro «sporco») rappresenta ormai
il contesto ideale per lo sfruttamento intensivo e lucroso delle nuove
forme di schiavitù. Altro che articolo 600 del nostro codice penale! Il
culto feticistico del profitto, del denaro che produce sempre più
denaro, è giunto al suo criminogeno apogeo. Ed è tragicomico vedere e
ascoltare il personale politico che amministra i Paesi in cui tutto
questo è consentito pontificare ipocritamente sulla tutela, in casa
d’altri, dei «diritti umani».
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