sabato 19 aprile 2014
«Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto». Marco Vannini: Hegel e la pasqua cristiana
Una lettura mistica della Pasqua cristiana Tra Hegel e antichi riti
di Marco Vannini Repubblica 18.4.14
Al primo plenilunio dopo l’equinozio di marzo le antiche comunità
pastorali e agricole festeggiavano il passaggio dalla morte dell’inverno
alla vita della primavera: perciò a quella data fu posto anche il
mitico passaggio - la Pasqua, appunto - degli ebrei dall’Egitto. Pasqua è
in effetti la festa del commovente, davvero “miracoloso” rifiorire
della vegetazione e, insieme, del risorgere delle forze vitali,
generative, in tutti i viventi. Lo indicano chiaramente i suoi simboli:
dalle uova ai coniglietti, simpatici animaletti ben noti soprattutto per
la loro solerzia sessuale. Del resto nel Nord Europa la festa ancora
mantiene il nome Easter, Oster, che viene da Ostara, dea pagana della
fecondità.
Non deve perciò stupire che anche nella storia del
cristianesimo questo sfondo vitale e sessuale sia stato a lungo
presente. Pensiamo al cosiddetto risus paschalis, ovvero la celebrazione
liturgica con rapporti carnali, imitati o reali, tra turpiloquio e
lazzi osceni che sollazzavano i fedeli nelle chiese proprio nel giorno
di Pasqua. Documentato fin dall’alto medioevo, il risus paschalis è
proseguito, soprattutto in Germania, fino al Ventesimo secolo, e anche
ai nostri giorni c’è chi lo giustifica quale sana espressione popolare
di quel piacere sessuale che proprio nella “gioia” pasquale avrebbe un
fondamento teologico.
In effetti la resurrezione dei/dai morti,
antichissima fantasia apocalittica giudaica, non aveva altro senso che
quello di riproporre la vita fisica, e non c’è
dubbio che della vita
fisica l’esercizio della sessualità sia manifestazione essenziale. Non a
caso nell’islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell’infinito
reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in
dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione,
domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una
donna che ha avuto più mariti: la vita beata dei risorti era pensata
soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.
La risposta evangelica a
questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i
figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non
prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come
angeli, già risorti. Dio è infatti Dio non dei morti, ma dei vivi (
Lc20, 24 s.). L’idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo
finale è spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una
resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più
morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è la morte
dell’egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per
portare frutto: è «odiare la propria anima», «rinunciare a se stessi», e
la resurrezione è il «nascere di nuovo», dall’alto, non dal ventre
materno ma dallo spirito, sperimentando la nuova vita, la vita dello
spirito, appunto, come si legge nel vangelo di Giovanni.
Lo comprese
bene Hegel: non quella che inorridisce davanti alla morte, ma quella che
sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito; è
proprio nell’assoluta lacerazione che lo spirito trova se stesso,
«magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso
di lui, capace di volgere il negativo nell’essere ». Occorre infatti
non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c’è di più
lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v’è spirito, si
èspirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma
tu stesso. «Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne
soggetto», scrive il filosofo tedesco, trasferendo nell’universale, col
linguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito , la
vicenda particolare della Passione di Cristo.
Passione, morte e
resurrezione hanno evangelicamente un significato non mitico ma reale,
non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita
come spirito che pone nella dimensione dell’eterno. «Prima che Abramo
fosse, io sono», dice Gesù ai giudei ( Gv 8, 58), esprimendo
l’esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di
essere già qui e ora nell’essere, nell’eterno. Appena ci si distacca da
ciò che è transitorio, il nostro amore si estende a tutto il mondo, si
scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le
creature diventa la nostra stessa infinita, estatica letizia. «Di
questo Tutto, nel distacco, gioisci», esortano anche le Upanishad.
È
un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul
fondamento delle attese apocalittiche, per cui le apparizioni di Cristo
dopo la morte furono interpretate proprio nel senso di una resurrezione,
prova e pegno della resurrezione finale. Questa però fu più una
costruzione teologica che un fatto reale. La resurrezione di Cristo non
ha avuto testimoni, ha un carattere segreto: da solo, prima che facesse
giorno. Egli compare alle donne e agli apostoli già “risorto”. È un
evento spirituale, non uno spettacolo dimostrativo: Noli me tangere ,
dice alla Maddalena, quasi a prendere le distanze da ogni fisicità e a
mostrare che non è in atto alcun ripristino della corporeità. Cristo è
apparso dopo la morte solo ai suoi amici e solo da essi viene
riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo vangelo è
determinante: a Tommaso, che crede solo dopo che e perché ha veduto il
risorto, Gesù dice che beati sono quelli che credono senza aver veduto.
Essi infatti hanno sperimentato interiormente la resurrezione, in loro
soltanto v’è conoscenza dello spirito e della sua beatitudine.
Si
comprende allora quanto fuorviante sia l’idea della resurrezione di
Cristo come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva
della fede cristiana, e, insieme, come garanzia della finale
resurrezione dei morti. Questo è il prodotto di Paolo, quel “funesto
cervellaccio”, come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio
evangelico della morte dell’anima e della rinascita nello spirito e
costruì un dysanghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella
apocalittica giudaica. Se non c’è la resurrezione dai morti, neanche
Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17) mostrando come
l’idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione
dai morti, propria della mitologia apocalittica.
In parallelo,
l’affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è
risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale
interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come
credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo. E ciò è quanto
di più antievangelico ci sia: nel vangelo infatti la ricerca del
miracolo è sempre condannata come mancanza di fede, adorazione della
forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla
resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere
gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo
un’antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad
organizzare resurrezioni di morti “dimostrative” della propria
messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa
in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte
dell’ingannatore supremo, l’Anticristo.
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