A Venezia, nel sestiere di San Polo, nel muro sopra al numero civico
2.935, si trova un altorilievo raffigurante un volto femminile, chiamato
Donna Onesta , termine traslato al vicino ponticello in ghisa che
congiunge i sestieri di Dorso Duro e San Polo. Sull’origine di questa
denominazione — una fra le più curiose nella pur variegata toponomastica
veneziana — ricorrono interpretazioni diverse. Secondo una prima
versione, due amici stavano discutendo vicino al ponte riguardo
all’onestà della donna. Uno dei due, per manifestare la sua disistima
del genere femminile, indicò all’amico l’immagine in marmo del volto
della donna visibile sul muro lì vicino, sostenendo che quella era la
sola donna sulla cui onestà si potesse scommettere. Più truce, ma non
necessariamente più verosimile, la seconda ipotesi. Presso il ponte che
si chiamerà della Donna Onesta lavorava uno spadaio, coniugato con una
giovane di rara bellezza. Invaghitosi della donna, un patrizio aveva
commissionato allo spadaio un coltello. Entrato nella bottega in assenza
del marito, il patrizio aveva stuprato la giovane, suscitando in lei un
profondo senso di vergogna che la indusse a togliersi la vita,
servendosi del pugnale fabbricato dal suo consorte. Più maliziosa, e
meno tragica, la terza spiegazione. Il nome deriverebbe dal fatto che
nei paraggi del ponte esercitava il più antico mestiere del mondo una
meretrice, nota per praticare tariffe ragionevoli, e dunque per un
trattamento «onesto» dei propri clienti.
Indipendentemente dalla loro intrinseca plausibilità, e dalle loro
differenze, gli esempi ora riferiti convergono nell’indicare un aspetto
di particolare rilevanza, e cioè la polisemia del termine «onestà»,
l’impossibilità di ridurne ad uno il significato. Come è confermato,
d’altra parte, dagli usi linguistici nei due ambiti della lingua
anglosassone e delle lingue neolatine. Mentre, infatti, nel primo caso
honest descrive principalmente l’attitudine a dire la verità, a non
ingannare, e coincide perciò con quella che potremmo chiamare onestà
intellettuale, nelle lingue romanze il termine è connesso all’aspetto
commerciale o economico, e dunque designa un comportamento immune dalla
frode o dalla corruzione.
Muovendo da questo riconoscimento, in un saggio ammirevole per la
ricchezza dei temi affrontati e per l’originalità del taglio analitico
prescelto (Onestà , Raffaello Cortina, pp. 166, € 12), Francesca Rigotti
esplora i «molti sensi» di un concetto più complesso e perfino
misterioso, di quanto abitualmente si pensi. E lo fa attraversando
periodi storici, contesti culturali, universi concettuali diversi, dal
protocristianesimo agli enciclopedisti francesi, da Cicerone a Hume, dal
nesso onestà-verità fino alla descrizione dei requisiti che fanno di un
personaggio un eroe (o un’eroina) dell’onestà. Riprendendo e
ulteriormente sviluppando l’approccio di un suo libro risalente al 1998
(L’onore degli onesti , Feltrinelli), l’autrice ricostruisce il percorso
che ha condotto ad una graduale contrazione nel significato del termine
onestà, giunto ormai a identificarsi con la sola dimensione economica.
In omaggio all’estrema limpidezza con la quale è costruito (calzante
esempio di onestà intellettuale), il libro si articola in tre parti
fondamentali, dedicate rispettivamente all’inquadramento del fenomeno
dell’onestà nel linguaggio quotidiano, all’analisi della genealogia
storica del concetto, e infine ad una tematizzazione calibrata
sull’analisi di alcune coppie concettuali.
Fra i numerosissimi spunti offerti dal testo, due filoni di riflessione
appaiono particolarmente pregnanti. Il primo, adombrato nell’aneddoto
ricordato in apertura, riguarda la questione dell’onore delle donne, a
cui Rigotti dedica tre intensi paragrafi. La scelta di impostare questo
tema richiamandosi a Così fan tutte di Mozart-Da Ponte, di per sé
appropriata, rinvia tuttavia ad un interrogativo ancor più radicale,
relativo alla genesi della communis opinio posta alla base del
melodramma. Quale — presunto — fondamento si può invocare (ed è stato
effettivamente invocato) per mettere in discussione «la fede delle
femmine»? Perché l’onesta condotta delle donne viene fatta consistere
sempre e solo nella loro purezza? A domande di questo genere, la
risposta più immediata, e per certi aspetti anche più appropriata, è
quella che rinvia alla persistenza di un tenace pregiudizio
antifemminile, secondo il quale la donna è sesso «debole», non solo e
non tanto perché disponga di una minor forza fisica, rispetto al
maschio, ma per la sua arrendevolezza alle insidie del sesso.
Questo stesso pregiudizio — ben lungi dal potersi dire del tutto
superato al giorno d’oggi — esige d’altra parte di essere in qualche
modo spiegato, o almeno ricondotto alla sua più appropriata matrice
culturale, che risale ben oltre il melodramma mozartiano. Per questa
via, si potrebbe scoprire che in buona parte del mondo greco classico (e
prima ancora, in quello arcaico) l’imputazione principale attribuita
alle donne si compendia nel termine machlosyne . Le donne — o, meglio,
le femmine, visto che questa accusa è rivolta indistintamente ad ogni
espressione animale del genere femminile — sono lascive. Storici e
logografi, medici, drammaturghi e poeti, concordano nel ritenere che il
primo e più importante principio di individuazione del sesso femminile
sia l’incapacità di resistere al richiamo erotico. Come risulta, ad
esempio, dalla denuncia di Oppiano, il quale descrive indignato le
pratiche libidinose di orse e coniglie, disposte ad affrettare il parto,
pur di soddisfare il loro sfrenato appetito sessuale. O come è
confermato dall’immagine di Pandora, la prima donna, quale emerge dai
versi di Esiodo: di aspetto soave e seducente, ma provvista di un’«anima
di cagna». O, infine, come è pur indirettamente ribadito dal mito di
Pigmalione, il quale rifugge l’amore delle donne, perché scandalizzato
dalla loro lascivia, e cerca conforto nella pura bellezza di una statua
muliebre da lui stesso costruita. Dove è evidente il tentativo di
legittimare (ovviamente, senza riuscirvi) con una presunta motivazione
«biologica» la misoginia largamente diffusa nelle società antiche.
D’altra parte, assumendo la prospettiva ora delineata, si comprende per
quali motivi le tre figure di «eroine dell’onestà», richiamate nel
libro, in realtà corrispondano a personaggi femminili in modi diversi
vittime della brutale inclinazione allo stupro da parte di altrettanti
uomini senza scrupoli né moralità. Eroine sono dunque (al di là delle
differenze) Lucrezia, «onesta moglie di Collatino», di cui scrive Tito
Livio, la giovane Pamela, del romanzo omonimo di Samuel Richardson, e
Maria Goretti, assurta alla gloria degli altari, per il fatto che, in
modi diversi, hanno saputo resistere alle tentazioni del sesso, fino
all’estremo sacrificio. Quando è declinata al femminile, l’onestà
coincide insomma con la purezza, nel caso di una vergine, o con la
fedeltà, nel caso di una donna coniugata. Senza alcun riferimento
all’accezione «economica» del termine.
Di tutt’altro segno il secondo ordine di problemi, pertinenti alla sfera
politica. Nell’estrema concisione dei riferimenti a questa peculiare
accezione dell’onestà, si può cogliere un sia pur velato fastidio
dell’autrice per quel vero e proprio pervertimento di valori, che ha di
fatto espulso l’onestà dall’ambito della politica. Fino ad accreditare
l’insana idea che, per poter essere conforme alle regole della politica,
una condotta non possa che essere disonesta. Approdo — questo —
malinconico e deprimente. Al quale, con un condivisibile scatto di
trattenuta indignazione (e forse — pare di intuire — di personale
immedesimazione), Rigotti contrappone la figura di William Stoner, un
«eroe normale», il professore protagonista del romanzo di John Williams
(Stoner , Fazi), incrollabile nel rifiutarsi di barattare la sua onestà
per un avanzamento di carriera accademica.
Quel che resta dell’onestàDall’antichità ai giorni nostri, un concetto dalla natura molteplice. La filosofa Francesca Rigotti ne insegue le trasformazionidi Massimiliano Panarari La Stampa 14.5.14
«Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta…», scriveva il sommo poeta Dante. E, tempo dopo, nel Cinquecento fu tutto un fiorire di manuali per insegnare, giustappunto, gli «honesti costumi» e le regole di condotta alle donne cristiane, dallo spagnolo Juan Luis Vives al veneziano Lodovico Dolce.
Anche questa, in un Occidente a lungo strutturalmente maschilista, è stata un’idea di «onestà» (rigorosamente riservata alla popolazione femminile, e tuttora perdurante), a testimonianza della natura molteplice di questo concetto, polisemico quanto pochi altri, come racconta nel suo nuovo libro la filosofa politica Francesca Rigotti. Docente all’Università della Svizzera italiana a Lugano e specialista in particolare di metaforologia, in Onestà (Raffaello Cortina, pp. 166, € 12) la studiosa evidenzia come per la contemporaneità questa qualità coincida, sostanzialmente, con il non rubare, e abbia finito con l’investire, in via esclusiva, la sfera economica, esito di scivolamenti progressivi che hanno ristretto il campo semantico della parola.
All’inizio, grossomodo, c’era Cicerone, che consacrò il primo libro del De officiis (praticamente il bestseller sull’etica del mondo antico) all’honestum, ovvero la virtù (o il bene morale) che coincide con l’utile e il giusto. Così, il pensiero stoico greco si innesta sul modo di vivere dell’uomo romano, e il bello spirituale e morale del primo si fonde con l’attitudine pratica del secondo, nonché con la centralità dell’essere cittadino, condizione per la quale il bene del singolo non può che identificarsi con quello della patria. Seneca, anch’egli debitore dello stoicismo e aduso alla politica, ma notoriamente più meditativo di Cicerone, sfronda l’honestas del riferimento al cursus honorum della vita pubblica, e la porta nella direzione di concetti come virtù e sapienza. Il bello morale in cui consiste l’onestà per i latini, come per i greci, è dunque fine a sé stesso; in seguito arriverà il cristianesimo e, da Agostino a Tommaso d’Aquino, capovolgerà la prospettiva, facendone un mezzo per il conseguimento di un obiettivo superiore.
Nel Medioevo, l’onestade finisce pertanto anche al centro della grande letteratura, con l’Alighieri e Petrarca che l’associano alle nozioni di decoro, gentilezza, «cortesia», mentre Boccaccio, nel Decamerone, sottolinea come sia sua intenzione dare al lettore un racconto e un divertimento onesti, ossia armoniosi e senza altri fini. E l’Umanesimo, che bussa forte alla porta, ritorna quindi, almeno in parte, all’honestas della classicità ciceroniana. Una stagione gloriosa, che arriva al culmine nel Rinascimento, ma dietro l’angolo c’è già una delle varie stagioni di crisi dei fondamenti della storia occidentale, quella che trova le proprie vette in William Shakespeare e nello scettico Michel de Montaigne, profondamente dubbioso riguardo al fatto che l’uomo onesto potesse trovare un posto adeguato in un mondo che metteva l’utile al di sopra di ogni cosa. Anche se il saggista, considerato ormai da qualche tempo come una sorta di «padre putativo» della teoria dei neuroni specchio, pensava tutto sommato che la forza esemplare dell’onestà riuscisse a far ravvedere anche i malvagi (e, a tal proposito, citava un paio di episodi di cronaca nera che gli erano capitati, un’imboscata di banditi in viaggio verso Parigi e un assalto alla sua dimora, ai quali era scampato proprio suscitando l’empatia dei violenti che si era trovato di fronte).
Nel Seicento del barocco, intriso di doppiezza e ambiguità, dilagò la letteratura sulle virtù oneste: un paradosso, di cui l’epoca era golosa, e una manifestazione di quella dissimulazione - esaltata da figure quali il neostoico Giusto Lipsio, Ugo Grozio e Francesco Bacone - che vi ravvisavano la sola possibile strategia di ribellione e di opposizione alla tirannide. Dopo l’Illuminismo si avanza a grandi falcate verso una nozione di onestà destinata a dominare fino ai nostri tempi, quella che la connota in contrapposizione alla corruzione. Una delle ragioni principali risiede nella conquista della centralità, sul palcoscenico delle idee, del pensiero politico anglosassone, dove viene messa a punto la metafora della body politic (con l’assimilazione del corpo sociale a quello umano, soggetto al corrompersi); e che, soprattutto, si rivela, lungo i secoli, attentissimo all’economia, da Thomas Hobbes (che scriveva della corruption dei giudici pronti a vendere per denaro la loro funzione) sino a John Rawls, per il quale una società giusta è anche una società onesta, nella quale i livelli di corruzione risultano bassi e si hanno così maggiori chance di affermazione per i meno privilegiati. E proprio di tipo monetario, difatti, è la disonestà di colui che rappresenta il simbolo cinematografico per antonomasia della corruzione, il prefetto di polizia Louis Renault, nel film cult Casablanca del 1942.
L’onestà nell’accezione odierna diventa allora quella che rigetta il «familismo amorale» codificato, nel ’58, dal sociologo statunitense Edward Banfield a partire dal nostro Mezzogiorno - mentre al vertice delle nazioni virtuose, secondo il Corruption Perception Index, svettano la Scandinavia, la Nuova Zelanda e Singapore. Tuttavia i politici non mancano certo di inventiva nella vastissima gamma dei comportamenti disonesti e disonorevoli, e riescono a prodursi in imprese «memorabili» che bypassano in quanto a «creatività» la corruzione economica. Come insegnano i casi dell’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, che piazzò un intero clan di parenti mentre tuonava contro la corruzione, e dell’ex ministro della Difesa tedesco (con ambizioni di cancelliere) Karl-Theodor zu Guttenberg, costretto alle dimissioni per il plagio di ampie porzioni della tesi di dottorato.
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