Stephen Parker:
Bertolt Brecht: A Literary Life, Bloomsbury, London, pagg. 704, £ 30,00
Risvolto
This first English language biography of Bertolt Brecht
(1898–1956) in two decades paints a strikingly new picture of one of the
twentieth century’s most controversial cultural icons.
Drawing on letters, diaries and unpublished material, including Brecht’s
medical records, Parker offers a rich and enthralling account of Brecht’s life
and work, viewed through the prism of the artist. Tracing his extraordinary
life, from his formative years in Augsburg, through the First World War, his
politicisation during the Weimar Republic and his years of exile, up to the
Berliner Ensemble’s dazzling productions in Paris and London, Parker shows how
Brecht achieved his transformative effect upon world theatre and poetry.
Bertolt Brecht: A Literary Life is a powerful portrait of a great, compulsively
contradictory personality, whose artistry left its lasting imprint on modern
culture. - See more at:
http://www.bloomsbury.com/uk/bertolt-brecht-a-literary-life-9781408155622/#sthash.SLO0By9E.dpuf
I drammi del drammaturgo
La
straordinaria biografia dell'autore di «Madre coraggio» scritta da
Stephen Parker con competenza e comprensione dei fatti e delle
circostanze
di Donald Sassoon il Sole24ore domenica 27.04.14
Un bel guaio essere artisti o scrittori, non hai mai il controllo della
tua creazione. Ma chi sta peggio di tutti è il drammaturgo: scrive un
testo con qualche nota al massimo su scenografia e attori (uscite,
entrate) e il suo prodotto gli viene tolto di mano da attori, scenografi
e soprattutto registi. Diventa la loro opera. E lui se ne sta seduto in
un angolo col broncio, o più sovente, si rigira nella tomba. Povero
Bertolt Brecht che si considerava, a buon diritto, il grande drammaturgo
della sua epoca, condannato ad avere così poco controllo delle sue
opere e della sua vita. Di salute era cagionevole. I suoi vecchi
compagni comunisti non avevano la sua stessa idea di teatro politico. Fu
costretto all'esilio: Danimarca, Finlandia, Svezia e Stati Uniti, tutti
Paesi dov'era difficile mettere in scena le sue opere. Diventò come
scrisse lui stesso «quello che nessuno ascolta», «parla troppo forte /
si ripete / dice cose sbagliate / non viene corretto».
C'era soltanto un aspetto della sua vita che riusciva a gestire: le
donne con le quali si comportava malissimo, le tradiva tutte ma si
infuriava al solo sospetto che loro tradissero lui. E non sopportava di
rompere con nessuno, con le donne, con gli amici o con il comunismo e
l'Unione Sovietica.
Eppure, in qualche modo, nonostante tutto, Brecht rivoluzionò il teatro e
ci lasciò alcuni dei più grandi capolavori drammatici del Ventesimo
secolo: Vita di Galileo, Madre Courage e i suoi figli, L'anima buona del
Sezuan, Il cerchio di gesso del Caucaso e molte altre. La tentazione di
ricorrere al cliché è forte: un genio imperfetto. O meglio un genio con
delle imperfezioni. O ancora meglio, un uomo che è riuscito a mettere i
suoi difetti al servizio del proprio genio.
Questo e molto altro emerge dalla biografia di Stephen Parker su Brecht,
la prima in vent'anni, uno stupefacente tour de force fondato su una
competenza straordinaria.
Se avessimo conosciuto Brecht nel 1920, lo avremmo trovato un giovanotto
borioso, uno che sfrutta la propria eloquenza come strumento di
conquista sessuale, così come tanti uomini fanno colpo sulle donne
mostrando i muscoli o il portafoglio.
Il momento in cui si avvicinò di più alla rivoluzione fu durante i
disordini politici dopo la sconfitta della Germania nel 1918, ma mentre i
rivoluzionari venivano portati via e assassinati, lui era in giro per
nightclub a caccia di donne. Della teoria gli importava poco a meno che
non riguardasse il teatro. Il suo marxismo era sempre un po' all'acqua
di rose. Come scriveva «con una teoria sola si è perduti… ha bisogno di
più teorie, quattro, se non di più! Dovrebbe mettersele in tasca come
fossero giornali freschi di stampa…».
Il suo impegno socialista veniva dal desiderio di rompere con le
convenzioni borghesi. Sfortunatamente per lui, i comunisti nell'Urss o
dopo nella Ddr, erano molto legati a una concezione borghese dell'arte.
Volevano che il loro teatro fosse comprensibile, edificante, con buoni e
cattivi chiaramente delineati. A proposito del teatro "comunista" dei
tempi di Weimar, Brecht ironizzava scrivendo: «Per 3.000 marchi al mese /
è pronto / a impersonare la sofferenza delle masse. / Per 100 marchi al
giorno / ti fa vedere l'ingiustizia del mondo».
Parker ci guida attraverso le diverse fasi dell'evoluzione del metodo
brechtiano (il Verfremdungseffekt, l'effetto di alienazione o
straniamento), ma la premessa di base era costante. Se Stanislavskij (e
il suo epigono americano Lee Strasberg) insistevano che gli attori
dovessero "essere" il personaggio che stavano impersonando e che il
pubblico dovesse identificarsi con quello che stava succedendo sul
palcoscenico, Brecht voleva mantenere intatto lo «splendido isolamento»
dello spettatore, senza che si fondesse con l'eroe. Naturalmente Brecht
non era il solo a promuovere queste idee. Anche Piscator aveva
sperimentato l'uso di proiezioni e scritte come parte di quell'effetto
di "alienazione". Lo stesso Brecht attribuiva le origini di quella
distanza a un teatro passato, alle opere medievali e soprattutto al
teatro cinese (l'interpretazione di Mei Lanfang dell'Opera di Pechino
che vide a Mosca, nel 1935, fu decisiva). «Sono stufo del nuovo. Sto
cominciando a lavorare con materiale molto vecchio che è stato saggiato
mille volte. Io sono un materialista e uno zoticone e un proletario e un
anarchico conservatore», spiegava Brecht.
Dovette lottare per avere successo. La prima a New York di quella che
sarebbe diventata la sua opera più famosa, L'opera da tre soldi, fu un
vero e proprio fiasco. La prima berlinese di Ascesa e caduta della città
di Mahagonny (sempre con le musiche di Kurt Weill) venne interrotta dai
nazisti. Santa Giovanna dei Macelli (probabilmente la sua opera più
"marxista") fu messa in scena una sola volta quando Brecht era in vita,
nel 1932. A parte L'opera da tre soldi, nessuna delle sue opere fu
rappresentata in Unione Sovietica quando il suo autore era vivo.
I tipici "eroi" brechtiani sono sfasati rispetto al periodo in cui
vivono, che si tratti di Jim Mahoney in Mahagonny, che cerca il piacere
sotto il capitalismo, sistema in cui il piacere è mercificato, o Schweyk
e Madre Courage che cercano di sopravvivere durante la guerra, mai del
tutto consapevoli del prezzo che devono pagare, o Galileo che cerca di
salvare la propria scienza in un'epoca che la scienza la condannava. I
fortunati che hanno avuto modo di vedere Tino Buazelli che interpretava
Galileo negli anni Sessanta, con la regia di Strehler, non se lo
dimenticheranno mai.
Brecht tacque durante le purghe di Stalin, anche se intercedette per i
suoi amici. Lui voleva credere nell'Urss nonostante tutto, persuaso che
qualsiasi parola sbandierata contro Stalin avrebbe fatto gioco a Hitler,
per quanto si fosse reso conto che in Russia «una dittatura governava
il proletariato». Scriveva: «Anche nei tempi bui / si canterà? / Anche
si canterà. / Dei tempi bui.» (ndt, da Canto tedesco, Bertolt Brecht
Poesie 1933-1956, traduzione di F. Fortini, Einaudi). E nel suo famoso A
coloro che verranno chiedeva ai posteri: «pensate a noi con indulgenza»
(ndt, da Poesie e canzoni, a cura di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi).
Negli Stati Uniti, dove fuggì nel 1941, Brecht era infelice. Cercò
lavoro come sceneggiatore a cottimo: «Ogni mattino, per guadagnarmi il
pane / vo al mercato dove si comprano menzogne. / Pieno di speranza / mi
metto in fila fra i venditori,» (Ndt, da Hollywood, Bertolt Brecht,
Poesie 1918-1933, traduzione di R. Leiser e F. Fortini, Einaudi). E non
era felice nel claustrofobico mondo emigrato degli esuli tedeschi a
Hollywood e a New York. «Nemmeno nei boschi della Finlandia mi sono
sentito così fuori dal mondo come mi sento qui», scriveva.
Alla fine della guerra non sa dove andare. Gli svizzeri non lo vogliono.
È bandito dalla zona americana della Germania. Nemmeno i tedeschi
dell'Est ci tengono molto ad averlo, però non si possono permettere di
mandare via un drammaturgo antinazista ormai famoso. Alla fine ebbe il
suo teatro e la sua compagnia, il Berliner Ensemble. Si era preparato al
compromesso, sostenuto da una genuina popolarità che spaventava la
gerarchia comunista. E a ragione: alla prima del Cerchio di gesso del
Caucaso ci furono 57 chiamate e seguirono 175 repliche, per quanto
l'opera venne attaccata o ignorata dalla stampa di partito. Cautamente
Brecht non pubblicò la famosa poesia che aveva scritto in risposta alla
rivolta operaia del 17 giugno 1953 nella quale dichiarava con ironia che
avendo perso la fiducia del governo, il popolo «doveva essere sciolto»
per eleggerne uno nuovo. (Traduzione di Francesca Novajra)
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