venerdì 16 maggio 2014

David Malet Armstrong

Scopriamo che esiste una "australian way" [SGA].
 
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Armstrong, la metafisica che “rende vero” il mondo
La scomparsa del grande filosofo australiano che ha rilanciato la riflessione sugli “universali”: concetti decisivi per la scienza
di Franca D’Agostini La Stampa 16.5.14

 Si è parlato molto in Italia di «nuovo realismo», ma sicuramente un autore che ha rinnovato in modo profondo e decisivo la migliore tradizione del realismo metafisico è stato David Malet Armstrong, il grande filosofo australiano scomparso martedì scorso. Nato nel 1926, Armstrong è stato la figura più rappresentativa del «realismo australiano», e uno dei più importanti metafisici del secondo Novecento.
Un suo grande merito è stato aver rilanciato la riflessione sull’antico tema degli «universali», difendendone l’estrema importanza per la scienza. Per Armstrong non esistono solo gli oggetti particolari, ma esistono anche le loro proprietà universali (essere rosso, essere alto 95 cm, essere idrosolubile ecc.), e le leggi di natura sono precisamente relazioni tra universali. Armstrong ha anche dato un importante contributo alla teoria della verità, sviluppando la nozione di truthmaking, il «rendere vero». Il mondo, dice Armstrong, è fatto di stati di cose, i quali sono combinazioni varie di particolari (gli oggetti) e universali (le loro proprietà e relazioni), e gli stati di cose sono i truthmakers di quel che diciamo del mondo: essi rendono vere (o false) le nostre proposizioni.
Da questo ritratto semplice e preliminare emerge una costruzione estremamente raffinata, piena di ingegnose soluzioni ad antichi e nuovi problemi. È una vera e propria «metafisica sistematica», una delle pochissime oggi in circolazione, e capaci di dialogare autorevolmente con la scienza. L’ultimo libro di Armstrong è precisamente una sintesi del suo «sistema», ed è lo Schizzo di una metafisica sistematica (Sketch for a Systematic Metaphysics), testo delle lezioni tenute nel 2008 alla City University di New York, che sta per essere pubblicato da Carocci. Il lettore italiano può disporre anche delle altre opere metafisiche di Armstrong, meritoriamente pubblicate nella collana di Giovanni Reale, per la cura e traduzione di Annabella d’Atri (Ritorno alla metafisica, Bompiani, 2012).
Una grande originalità di vedute (l’idea che gli universali esistano, come tali, è senza dubbio una provocazione per il mainstream della filosofia moderna), associata a una grande sottigliezza argomentativa, e a un’estrema semplicità della teoria di sfondo. È questa in definitiva la lezione dei classici della filosofia, di cui Armstrong è stato degno erede.
Al di là delle singole soluzioni teoriche, ciò che colpisce nel suo lavoro è lo stile filosofico. Armstrong ha incarnato alla perfezione quella combinazione di assoluta libertà di pensiero, rigore argomentativo e risolutezza teorica che è stata definita a volte l’«Australian way», il modo australiano di fare filosofia. Come altri filosofi del nuovissimo continente, Armstrong ha ereditato questi requisiti dal suo maestro, lo scozzese John Anderson, professore all’Università di Sydney dal 1927 al 1958, singolare e molto influente figura di pensatore, per il quale la spregiudicatezza intellettuale era anzitutto un imperativo estetico ed etico-pratico. È in questo senso che nelle opere di Armstrong e di altri australiani il realismo non è solo una posizione metafisica: la scelta per questo mondo, e la scoperta che questo mondo contiene una quantità infinita di cose (e mondi) diventa un modo di argomentare e di lavorare in filosofia. Un modo particolarmente felice, visto che l’«Australian way» ha attirato un altro grandissimo pensatore del Novecento, David K. Lewis, e una schiera sempre più ampia di filosofi analitici americani ed europei.
Ma c’è forse un ultimo punto da considerare. Quel che nell’«Australian way» interpretato da Armstrong costituisce un dato esemplare è la grande onestà teorica che deriva da tutto ciò. Armstrong non esita a manifestare con estrema risolutezza e chiarezza le sue idee sui punti che ritiene acquisiti. Anzi, l’immagine più comune di lui (e di altri australiani: il più famoso è forse Peter Singer, che ha scandalizzato molti, con le sue teorie in etica) è precisamente quella di un teorico estremamente risoluto (d’altra parte, come sosteneva il filosofo del diritto Alf Ross, parlare di realtà è come dare «pugni sul tavolo»). Armstrong però scrive ripetutamente, nei suoi libri: «questo non lo so», «di questo non sono sicuro», «su ciò non sono ancora giunto a un’idea definitiva»… Si spinge addirittura a dire in piena onestà che «le mode» hanno un certo peso in filosofia, ed è possibile che su alcune questioni la moda abbia avuto un’influenza sui suoi pensieri.
È questa una grande lezione, per i complicati filosofi dei nostri vecchi continenti, impegnati (analitici inclusi) a torturare gli antichi concetti di essere e verità, togliendo loro l’ovvia semplicità intuitiva, e non offrendo in cambio alcuna vera soluzione.
Si è parlato molto in Italia di «nuovo realismo», ma sicuramente un autore che ha rinnovato in modo profondo e decisivo la migliore tradizione del realismo metafisico è stato David Malet Armstrong, il grande filosofo australiano scomparso martedì scorso. Nato nel 1926, Armstrong è stato la figura più rappresentativa del «realismo australiano», e uno dei più importanti metafisici del secondo Novecento.
Un suo grande merito è stato aver rilanciato la riflessione sull’antico tema degli «universali», difendendone l’estrema importanza per la scienza. Per Armstrong non esistono solo gli oggetti particolari, ma esistono anche le loro proprietà universali (essere rosso, essere alto 95 cm, essere idrosolubile ecc.), e le leggi di natura sono precisamente relazioni tra universali. Armstrong ha anche dato un importante contributo alla teoria della verità, sviluppando la nozione di truthmaking, il «rendere vero». Il mondo, dice Armstrong, è fatto di stati di cose, i quali sono combinazioni varie di particolari (gli oggetti) e universali (le loro proprietà e relazioni), e gli stati di cose sono i truthmakers di quel che diciamo del mondo: essi rendono vere (o false) le nostre proposizioni.
Da questo ritratto semplice e preliminare emerge una costruzione estremamente raffinata, piena di ingegnose soluzioni ad antichi e nuovi problemi. È una vera e propria «metafisica sistematica», una delle pochissime oggi in circolazione, e capaci di dialogare autorevolmente con la scienza. L’ultimo libro di Armstrong è precisamente una sintesi del suo «sistema», ed è lo Schizzo di una metafisica sistematica (Sketch for a Systematic Metaphysics), testo delle lezioni tenute nel 2008 alla City University di New York, che sta per essere pubblicato da Carocci. Il lettore italiano può disporre anche delle altre opere metafisiche di Armstrong, meritoriamente pubblicate nella collana di Giovanni Reale, per la cura e traduzione di Annabella d’Atri (Ritorno alla metafisica, Bompiani, 2012).
Una grande originalità di vedute (l’idea che gli universali esistano, come tali, è senza dubbio una provocazione per il mainstream della filosofia moderna), associata a una grande sottigliezza argomentativa, e a un’estrema semplicità della teoria di sfondo. È questa in definitiva la lezione dei classici della filosofia, di cui Armstrong è stato degno erede.
Al di là delle singole soluzioni teoriche, ciò che colpisce nel suo lavoro è lo stile filosofico. Armstrong ha incarnato alla perfezione quella combinazione di assoluta libertà di pensiero, rigore argomentativo e risolutezza teorica che è stata definita a volte l’«Australian way», il modo australiano di fare filosofia. Come altri filosofi del nuovissimo continente, Armstrong ha ereditato questi requisiti dal suo maestro, lo scozzese John Anderson, professore all’Università di Sydney dal 1927 al 1958, singolare e molto influente figura di pensatore, per il quale la spregiudicatezza intellettuale era anzitutto un imperativo estetico ed etico-pratico. È in questo senso che nelle opere di Armstrong e di altri australiani il realismo non è solo una posizione metafisica: la scelta per questo mondo, e la scoperta che questo mondo contiene una quantità infinita di cose (e mondi) diventa un modo di argomentare e di lavorare in filosofia. Un modo particolarmente felice, visto che l’«Australian way» ha attirato un altro grandissimo pensatore del Novecento, David K. Lewis, e una schiera sempre più ampia di filosofi analitici americani ed europei.
Ma c’è forse un ultimo punto da considerare. Quel che nell’«Australian way» interpretato da Armstrong costituisce un dato esemplare è la grande onestà teorica che deriva da tutto ciò. Armstrong non esita a manifestare con estrema risolutezza e chiarezza le sue idee sui punti che ritiene acquisiti. Anzi, l’immagine più comune di lui (e di altri australiani: il più famoso è forse Peter Singer, che ha scandalizzato molti, con le sue teorie in etica) è precisamente quella di un teorico estremamente risoluto (d’altra parte, come sosteneva il filosofo del diritto Alf Ross, parlare di realtà è come dare «pugni sul tavolo»). Armstrong però scrive ripetutamente, nei suoi libri: «questo non lo so», «di questo non sono sicuro», «su ciò non sono ancora giunto a un’idea definitiva»… Si spinge addirittura a dire in piena onestà che «le mode» hanno un certo peso in filosofia, ed è possibile che su alcune questioni la moda abbia avuto un’influenza sui suoi pensieri.
È questa una grande lezione, per i complicati filosofi dei nostri vecchi continenti, impegnati (analitici inclusi) a torturare gli antichi concetti di essere e verità, togliendo loro l’ovvia semplicità intuitiva, e non offrendo in cambio alcuna vera soluzione.

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