lunedì 26 maggio 2014
Il Lawrence di casa nostra
La sua memoria rimane nel nome della capitale Brazzaville dove nel 2006 sono stati portati i resti
Ma ora gli eredi litigano sulle spoglie
di Stefano Montefiori Corriere La Lettura 25.5.14
Nell’Ottocento si poteva esplorare il Congo e fondare colonie a colpi di
cannone, come fecero Henry Morton Stanley e il re del Belgio, Leopoldo
II, oppure gettare le fondamenta di una città mossi da spirito di
avventura e rispetto per gli africani, come accadde — caso eccezionale —
a Pietro di Brazzà Savorgnan, nobile friulano nato a Castel Gandolfo
nel 1852.
Figlio del conte Ascanio, appartenente a una famiglia di patrizi della
Repubblica di Venezia riparata a Roma dopo la cessione della Serenissima
all’Austria, il giovane Pietro si arruolò nella marina francese perché
credeva negli ideali della Rivoluzione e dei Lumi, nel progresso e
soprattutto voleva conoscere il «Regno del Re Macocco», quella grande
macchia bianca che corrispondeva al bacino del fiume Congo nella carta
geografica regalatagli dal nonno. L’italiano Pietro Savorgnan di Brazzà
divenne così il francese Pierre Savorgnan de Brazza, inusuale caso di
condottiero disarmato che pose le basi dell’Africa equatoriale francese e
fondò Brazzaville, la capitale del Congo francese, unica città al mondo
che ancora oggi mantiene il nome del colonizzatore.
Sull’altra riva del fiume, Léopoldville è diventata Kinshasa appena il
Congo belga ha conquistato l’indipendenza nel 1960, quando le false
pretese filantropiche, i massacri e le torture ordinate da Leopoldo II
erano ormai note; Brazzaville ha continuato invece a chiamarsi così,
anche dopo la decolonizzazione, perché Pietro di Brazzà è una specie di
eroe nazionale congolese. Che ruppe ben presto con i metodi e gli
obiettivi imperialisti di Parigi, non molto diversi da quelli della
monarchia di Bruxelles. Gli africani lo chiamavano «il padre degli
schiavi», perché comprava gli indigeni fatti prigionieri per poi
liberarli.
Brazzaville ha anche un posto importante nella storia di Francia: fu da
quella città, eletta a capitale della Francia libera (in opposizione
alla Francia collaborazionista di Vichy), che il generale de Gaulle
cominciò l’opera di riconquista della métropole occupata dai nazisti.
Oggi però la memoria di Brazzà e la Repubblica del Congo vivono un
momento difficile: il presidente Denis Sassou-Nguesso, che domina il
Congo ex francese dal 1979 (con una pausa dal 1992 al 1997), minaccia di
cambiare nome alla capitale e di togliere ogni altro riferimento (per
esempio la strada principale) all’esploratore d’origine friulana, perché
è attaccato da una parte dei discendenti di Brazzà.
Le delusioni dell’indipendenza, lo strapotere di Sassou-Nguesso sul
Paese e il suo petrolio si intrecciano con le beghe di famiglia dei
pronipoti italiani di Brazzà: alcuni — come l’ambasciatore Corrado
Pirzio-Biroli — preferiscono che le spoglie dell’antenato rimangano nel
grande mausoleo inaugurato nel 2006 alle porte di Brazzaville; altri —
guidati da Idanna Pucci di Barsento — pretendono di riportare i resti di
Brazzà in Italia, perché «Sassou-Nguesso non ha rispettato i patti».
Il destino di Brazzà accompagna la storia dell’Africa e della Francia:
nel 1884 firmò, a nome del governo francese, un trattato di protettorato
con il suo amico re Makoko a Mbé, capitale del Regno Teké, e dopo il
congresso di Berlino del 1885, quando le grandi potenze si spartirono il
continente, l’esploratore tornò a Parigi per esortare gli europei a non
«imporre bruscamente i nostri modi di fare e di pensare, perché
arriveremmo inevitabilmente a una lotta che condurrebbe
all’annientamento».
Brazzà fu emarginato dalle grandi società francesi che lo vedevano come
un sognatore, e come un ostacolo allo sfruttamento del caucciù e delle
altre risorse africane. Venne richiamato in servizio dal governo di
Parigi solo nel 1903, per placare l’indignazione dell’opinione pubblica
in seguito all’affare Toqué-Gaud, due funzionari francesi che avevano
deciso di festeggiare la festa nazionale del 14 luglio impalando un
prigioniero congolese con della dinamite fatta poi esplodere. A Brazzà
venne ordinato di guidare un’ispezione nella colonia e di redigere un
rapporto rassicurante, che avrebbe dovuto rimarcare le differenze tra le
atrocità nel vicino Congo belga e la presunta civiltà della
colonizzazione francese. Lui rifiutò, e scrisse una relazione durissima —
sorta di testamento politico anti-colonialista — che venne insabbiata,
ed è stata pubblicata per la prima volta solo il mese scorso, dal
piccolo editore Le Passager clandestin.
Brazzà morì a Dakar nel 1905 durante il viaggio di ritorno in Francia, e
la moglie Thérèse — convinta che fosse stato avvelenato dai francesi—
rifiutò che venisse sepolto nel Panthéon. I famigliari scelsero
piuttosto Algeri, dove è rimasto fino al 2006.
«All’inizio degli anni Duemila fummo avvertiti che i resti del nostro
antenato stavamo per essere trasferiti nella fossa comune del cimitero
di Algeri», racconta a «la Lettura» Corrado Pirzio-Biroli, che dopo una
lunga carriera diplomatica alla Commissione europea si divide tra
Bruxelles (è a capo della Fondazione Rise per l’agricoltura) e il
castello di famiglia in provincia di Udine, dove ha organizzato il
«Museo storico Pietro Savorgnan di Brazzà».
«Mio padre Detalmo Pirzio-Biroli pensò allora che fosse più giusto
riportarlo in Congo — aggiunge — e le autorità locali furono
entusiaste». Detalmo, vestito degli abiti di Brazzà, venne condotto a
Mbé, 100 chilometri a nord di Brazzaville, e fatto incontrare con il
discendente del re Makoko. Dopo qualche incertezza tra Brazzaville e
Mbé, i congolesi decisero infine che le spoglie sarebbero state
trasferite nella capitale.
Nel 2006 viene completato a Brazzaville il grande mausoleo in marmo
bianco — la prima pietra venne posata dal presidente francese Jacques
Chirac — destinato ad accogliere il ritorno di Pietro Savorgnan di
Brazzà. Ma poche settimane prima della cerimonia, una quindicina di
discendenti si oppongono. «Un tipico caso di lite famigliare: quando
qualcuno prende un’iniziativa, gli altri si infastidiscono, anche se non
si erano mai interessati prima alla questione», dice Corrado
Pirzio-Biroli.
I contrari al trasferimento in Congo sono guidati da Idanna Pucci di
Barsento, aristocratica fiorentina nipote dello stilista Emilio Pucci,
che denuncia la strumentalizzazione mediatica e propagandistica messa in
piedi dal presidente Sassou-Nguesso, uno dei più longevi e corrotti
autocrati del continente africano. I pronipoti non vogliono che Brazzà,
capace in vita di opporsi allo sfruttamento coloniale, diventi da morto
complice inconsapevole del malgoverno congolese.
Alla fine anche i famigliari meno convinti danno il loro assenso alla
cerimonia, ma lo condizionano alla firma di un protocollo che obbliga il
presidente congolese a prendere misure in favore della popolazione: una
strada asfaltata tra Brazzaville e Mbé, la costruzione di un ospedale,
la ristrutturazione del liceo che porta il nome di Pierre Savorgnan de
Brazza, la tutela della scuola di pittura di Poto-Poto a Brazzaville. Il
3 ottobre 2006, Corrado Pirzio-Biroli prende la parola a nome dei
discendenti durante l’inaugurazione solenne, alla presenza del ministro
degli Esteri francese Philippe Douste-Blazy e di alcuni capi di Stato
africani: «Pietro era un cosmopolita, diverse personalità si sommavano
in lui senza disturbarsi: il friulano, il romano, il francese,
l’europeo, e anche l’africano. Considerava ogni incontro tra culture
differenti come una fonte di progresso, imparò molte lingue locali per
capire meglio le popolazioni. (..) Per realizzare il suo grande disegno
Pietro era pronto a tutti i sacrifici, compreso quello della sua
carriera nella marina francese, del suo patrimonio personale e della sua
famiglia, della salute e anche quello della sua stessa vita».
Pochi mesi dopo la cerimonia, i 15 famigliari che avevano preteso la
firma dell’accordo a tutela della popolazione locale si sentono traditi
da Sassou-Nguesso. Idanna Pucci di Barsento torna in Congo per
incontrare il re Makoko e realizzare Africa nera marmo bianco , un
documentario diretto da Clemente Bicocchi che denuncia gli sprechi per
costruire il mausoleo e la condizioni di estrema povertà degli abitanti
di Mbé.
«Niente di quel che Sassou-Nguesso aveva promesso è stato mantenuto»,
dicono a «la Lettura» i famigliari, che hanno citato in giudizio il
presidente congolese ottenendo una importante vittoria nel settembre
scorso: il Congo è stato condannato dalla giustizia francese a rendere i
resti di Brazzà. Si è aperta una battaglia giudiziaria che è ancora in
corso: da un parte i 15 discendenti, che si avvalgono del celebre
avvocato parigino William Bourdon, già protagonista dei processi per la
confisca dei beni dei dittatori africani in Francia; dall’altra la
Repubblica del Congo, che ha fatto ricorso in appello tramite l’avvocato
Jean-Pierre Versini-Campinchi, e minaccia per ritorsione di cancellare
le tracce di Brazzà nel Paese africano.
Idanna Pucci di Barsento continua la battaglia per togliere le spoglie
dell’antenato dal mausoleo di marmo bianco costruito dal dittatore
Sassou-Nguesso: è sicura che a Pietro Savorgnan di Brazzà non sarebbe
piaciuto.
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