domenica 18 maggio 2014

Prosegue con efficacia la guerra del Sole 24 ore alle discipline umanistiche e al pensiero critico

In nome di una concezione del tutto subalterna di ricerca scientifica. Se qualcuno è a conoscenza di un numero del Domenicale degli ultimi 5 anni che non riporti la parola "neuroscienze" mi faccia un fischio [SGA].
 
Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Scienze (Treccani 2013)
 
Un Paese senza scienza
L’ultimo nato della Treccani racconta la storia della ricerca scientifica in Italia e ci mostra come dal Medioevo a oggi siano state solo le nostre scelte a condannarci alla marginalità
18 mag 2014 Il Sole 24 Ore Di Massimo Bucciantini

Nel 1979 uscì un libro di Giorgio Soavi intitolato Italiani anche questi, che contiene una delle più lucide testimonianze che siano mai state scritte su Adriano Olivetti, ovvero su una delle personalità più creative e visionarie che l’Italia repubblicana abbia avuto. Soavi, che fin dal 1947 ebbe la fortuna di lavorare a suo fianco, lo descriveva così: «Adriano era diverso perché oltre a cercare dei progettisti di fabbriche o di carrozzerie per macchine cercava collaboratori al suo progetto per la vita; e non solo per l’Italia, così piccola e sgangherata da essere idealmente e materialmente aggiustabile, ma di più. Andava con la testa ai grandi problemi ed era affascinante seguirlo o intuirne la sagoma, l’ingombro».
Quel titolo e quelle parole, con il riferimento alla creatività e alla diversità rappresentate da un italiano come Olivetti, potrebbero essere il giusto commento a un’opera appena pubblicata e dedicata alla storia della scienza, al contributo che l’Italia ha dato allo sviluppo scientifico internazionale: a partire dalla rinascita filosofico-scientifica nel periodo medievale e rinascimentale fino ad arrivare ai giorni nostri. E che vede ora la luce nel quadro degli aggiornamenti dell’Enciclopedia Italiana. Il nuovo nato della «Treccani», tanto per intenderci, che come gli altri che lo hanno preceduto ha la caratteristica di essere pesante e ingombrante e che mal si adegua all’organizzazione ormai prevalente nelle nostre librerie, disposte ad accogliere libri sempre più piccoli e leggeri. Un volume, quindi, che non ha certo le caratteristiche di essere un livre de chevet, ma che è ugualmente prezioso, soprattutto se lo paragoniamo ai tanti surrogati online che la rete oggi ci propone.
La foto di gruppo è impressionante. Oltre ottocento pagine, con oltre 120 saggi ripartiti in tre distinte sezioni cronologiche: la prima che copre il periodo 1400-1700, la seconda che arriva fino all’Unità d’Italia, la terza, infine, che dal 1861 giunge fino alle soglie di questo secolo. In altri termini: dalla riscoperta di Tolomeo geografo e la nascita dei primi musei, orti botanici e teatri anatomici del Rinascimento alla fisica atomica di Enrico Fermi e le conquiste nel campo della medicina e della biologia compiute da Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini. Passando, tanto per ricordarne alcuni, da Filippo Brunelleschi, Leonardo da Vinci, Galileo, Alessandro Volta, Amedeo Avogadro, Camillo Golgi, Vito Volterra, Giuseppe Peano, Guglielmo Marconi. Ma anche da tanti scienziati italiani i cui nomi sono meno noti al grande pubblico, come quelli di Agostino Bassi e Leopoldo Pilla, Eduardo Caianello e Ettore Marchiafava, Domenico Marotta e Giuseppe Occhialini.
Forse gli iperspecialisti storceranno il naso per i ritratti a «medaglione» dentro ai quali i protagonisti di questa grande opera sono stati in qualche modo costretti. Ma è il quadro d’insieme che conta e colpisce. Sono le domande che si pongono Antonio Clericuzio e Saverio Ricci, i curatori del volume, a guidare il lettore in questo lungo e accidentato itinerario spazio-temporale che si snoda all’interno di un Paese da sempre considerato – secondo una vulgata dura a morire – allergico, per sua natura, alle sfide scientifiche. Ma che invece non è così. O comunque non sempre è stato così. E questo libro ha il merito di ricordarcelo, mettendo in risalto i punti cruciali di una storia fatta sì di sconfitte e arretramenti, ma anche di avanzamenti e felici congiunture. Da cui si impara una lezione importante che può sembrare banale ripetere, se non fosse che spesso si tende consapevolmente a trascurare: e cioè che nessuno ci ha mai condannato alla marginalità, perché ieri come oggi sono le nostre scelte - spesso di carattere ideologico e politico - a farci diventare quello che siamo agli occhi del mondo.
Quasi metà dell’opera è dedicata al periodo postunitario. E si tratta di una scelta innovativa rispetto ad altre imprese editoriali di questo tipo. Naturalmente ciò non significa che le vicende dei secoli precedenti non abbiano influito, e pesantemente, sull’assetto culturale di questo Paese. A cominciare dal caso Galileo, dalla condanna da lui subìta, che ha segnato in profondità la storia italiana, facendoci allontanare, per oltre un secolo, dai principali centri europei della ricerca filosofica e scientifica. Non bisognerebbe infatti dimenticare che il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo restò all’Indice dei libri proibiti per ben due secoli, fino al 1835. Così come non può passare sotto silenzio il fatto – e questo lavoro non lo fa – che se a partire soprattutto dalla seconda metà del Seicento l’Italia iniziò a svolgere ricerche sperimentali nel campo della fisica e della biologia, è altrettanto vero che le principali linee di ricerca teorica su cui da allora erano impegnati gli scienziati di tutta Europa – e cioè le discussioni sulla costituzione corpuscolare della materia, sull’esistenza del vuoto e sul sistema del mondo – non trovarono un terreno fecondo. È un’Italia che nel dibattito su com’è fatto il mondo è costretta a ripiegare su se stessa e a segnare il passo, che si chiude invece di aprirsi al dialogo con Francia, Inghilterra, Germania, Olanda.
E ciò è dimostrato ampiamente dai forti condizionamenti opposti dal potere religioso a ogni tipo di libertà di filosofare in naturalibus. Ne è una prova evidente la vicenda di Evangelista Torricelli, con le sue lettere sul vuoto che non vennero pubblicate lui vivo, come pure lo confermano la condanna delle concezioni atomistiche che avevano trovato ampia circolazione tra i galileiani e i cartesiani italiani di metà e fine Seicento, e la proibizione, a Settecento inoltrato, di un’eccezionale opera di divulgazione della nuova fisica come il Newtonianesimo per le dame di Francesco Algarotti (1737). E questi sono solo alcuni esempi fra i tanti, piccoli e grandi, episodi di censura (e di autocensura) che hanno costellato la nostra storia, da sempre caratterizzata da un forte contrasto a qualsiasi forma di secolarizzazione della cultura filosofia e scientifica (ma su questo punto rinvio al recente libro di Massimiliano Panarari e Franco Motta, Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia , Marsilio).
All’indomani dell’Unità, la classe politica liberale si trovò di fronte a un compito immenso: quello di dotare l’Italia di un moderno apparato tecnico-scientifico, che era fortemente arretrato o del tutto assente in numerose aree del Paese. E se, come è evidenziato in diversi saggi presenti in questo volume, l’ambizioso progetto del ministro-scienziato Quintino Sella restò nel libro dei sogni (fare di Roma la capitale internazionale della scienza e della sua diffusione sociale), il suo "programma minimo" venne però portato a termine con successo. Nei primi decenni del Regno d’Italia si realizzarono infatti laboratori e istituti di ricerca capaci di competere con quelli delle maggiori nazioni europee. E questo grazie anche al forte impegno pubblico degli scienziati.
E lo stesso si verificò a partire dagli anni immediatamente successivi alla fine seconda della guerra mondiale. Anche allora vi fu uno sforzo eccezionale, una nuova partenza con la creazione di istituti scientifici di livello internazionale, a comincia
re dall’Istituto nazionale di fisica nucleare (1951), e con la nascita di sempre più fecondi rapporti tra università e industria, soprattutto nel campo della chimica. Insomma, quasi fosse il risultato di una legge antropologica, gli italiani sono capaci di dare il meglio di sé solo in presenza di un alto tasso di macerie e distruzioni. Poi, infatti, lo scenario cambiò di nuovo, e l’Italia piccola e sgangherata del "particulare", delle consorterie e delle molteplici e trasversali insipienze riprese vigore. Dove è vero che l’eccellenza della ricerca italiana, con i premi Nobel a Salvador Luria (1969) a Renato Dulbecco (1975) a Rita LeviMontalcini (1986), tutti formatosi alla scuola di Giuseppe Levi, ha continuato miracolosamente a sopravvivere e a fare la differenza: ma ciò è avvenuto e continua ad avvenire soprattutto fuori d’Italia, nei grandi centri scientifici americani ed europei. Ed è da questo punto, dalla riflessione sul declino del sistema italiano della ricerca, da ciò che Clericuzio e Ricci chiamano «le tradizioni di ricerca colpevolmente distrutte», e dalla consapevolezza del fallimento di un ventennio di riforme scolastiche e universitarie, che bisogna avere il coraggio e la forza di ripartire.

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