domenica 8 giugno 2014

L'ultimo volume delle Opere di Giacomo Matteotti

Giacomo Matteotti-Scritti e discorsi vari
Leggi anche qui per gli interventi di Matteotti su socialismo e guerra.

Giacomo Matteotti: Scritti e discorsi vari, a cura di Stefano Caretti, Pisa University Press

Risvolto

Con questo volume giunge a conclusione il progetto di pubblicazione delle Opere di Giacomo Matteotti, inaugurato nel 1983 e al quale Stefano Caretti ha dedicato la grandissima parte del suo impegno di studioso. E’ dunque la sede più opportuna nella quale tentare un bilancio dei risultati conseguiti e dell’eco che l’iniziativa ha suscitato nella cultura italiana.  La pubblicazione è frutto anche dell’impegno di un piccolo editore pisano, Luciano Lischi, dopo il rifiuto di tutte le principali case editrici nazionali, comprese quelle più vicine alla memoria e, anche, al vero e proprio culto della tradizione antifascista, presso le quali Giacomo Matteotti è purtroppo del tutto assente dai cataloghi. [Dalla premessa di Gianpasquale Santomassimo]

Stefano Caretti, insegna Storia contemporanea all’Università di Siena. È autore di numerosi studi su figure e vicende del socialismo italiano. Sta attendendo alla stampa delle opere di Giacomo Matteotti, di cui sono già apparsi undici volumi (Pisa, Nistri-Lischi,  Edizioni Plus e Pisa University Press, 1983-2013). Per i tipi Lacaita ha pubblicato gli scritti e i carteggi di Sandro Pertini (2005-2010). Recentemente ha curato l’allestimento del museo Matteotti a Fratta Polesine. Membro della Commissione del “Premio Matteotti” istituito dalla Presidenza del Consiglio, è presidente dell’Associazione Nazionale “Sandro Pertini” e vicepresidente della Fondazione di Studi Storici “Filippo Turati”.


Un politico “senza fortuna” 
Giacomo Matteotti. Una figura rilevante di leader e intellettuale socialista, relegata però ai margini della storiografia del movimento operaio. Un estratto dalla prefazione all’ultimo volume delle sue opere pubblicate da Pisa University Press con la cura di Stefano Caretti. 
Gianpasquale Santomassimo, il Manifesto 7.6.2014 

Il capi­tolo della sfor­tuna di Mat­teotti si basa su ragioni poli­ti­che e cul­tu­rali più com­plesse, che forse è utile affron­tare par­tendo non dalle nume­rose bana­liz­za­zioni che diver­ranno cor­renti, ma dal frain­ten­di­mento più illu­stre e signi­fi­ca­tivo, da cui trar­ranno ori­gine molte sem­pli­fi­ca­zioni suc­ces­sive. Fac­ciamo rife­ri­mento al pro­filo di Mat­teotti scritto da Piero Gobetti, da molti punti di vista una pie­tra miliare nella “for­tuna” di Mat­teotti: per­ché è un sag­gio di alta scrit­tura, scritto da un grande intel­let­tuale, e per­ché sarà per mol­tis­simi anni pra­ti­ca­mente l’unico stru­mento a dispo­si­zione del let­tore italiano. 

Riletto oggi ci ren­diamo conto di tro­varci di fronte a un Mat­teotti «gobet­tiz­zato», reso par­te­cipe a sua insa­puta della «rivo­lu­zione libe­rale» che il gio­vane intel­let­tuale tori­nese auspi­cava. Per Gobetti muo­vendo da un «fondo solido di virtù con­ser­va­trici e pro­te­stanti nac­que il sov­ver­si­vi­smo di Mat­teotti e nac­que ari­sto­cra­tico per la soli­tu­dine». La sua for­ma­zione avvenne attra­verso «i tor­menti dia­let­tici del suo intem­pe­rante indi­vi­dua­li­smo», con l’uso di «iro­nia per­versa e spie­tata». Notiamo qui un’aggettivazione tutta interna alla nar­ra­zione che Gobetti va costruendo attorno alla sto­ria d’Italia (pro­te­stante, indi­vi­dua­li­sta, ari­sto­cra­tico) ma che è com­ple­ta­mente estra­nea alla per­so­na­lità di Mat­teotti, il cui «sov­ver­si­vi­smo» sem­bra giu­sti­fi­ca­bile solo sulla base di moti­va­zioni esi­sten­ziali che pre­scin­dono dalle con­vin­zioni poli­ti­che che lo ani­ma­rono. E infatti la cura mag­giore di Gobetti sem­bra quella di scin­dere Mat­teotti dal mondo che gli fu pro­prio, in pagine che tra­su­dano disprezzo per la tra­di­zione del socia­li­smo ita­liano: quella «atmo­sfera di loqua­cità pro­vin­ciale, di fiera delle vanità e di con­so­la­zioni da desco pic­colo bor­ghese… con l’abitudine ai con­ve­gni che ter­mi­nano in una for­mi­da­bile pap­pa­to­ria». Sepa­rato anche dalla tra­di­zione rifor­mi­sta, con la quale non con­di­vise «la com­pli­cità nel pro­te­zio­ni­smo, anzi non esitò a rima­nere solo col vec­chio Modi­gliani osti­nato nelle bat­ta­glie libe­ri­ste… scuola di auto­no­mia e di matu­rità poli­tica con­creta nella sua pro­vin­cia». Nel distac­carlo dal mondo che fu il suo, il Mat­teotti di Gobetti diviene addi­rit­tura «socia­li­sta per­se­cu­tore di socia­li­sti», stra­vol­gendo la dia­let­tica pur viva­cis­sima che era pre­sente nell’universo del socia­li­smo italiano. 

Mat­teotti è sì giu­di­cato «com­bat­tente gene­roso» con­tro la guerra, poi­ché «non diser­tava, non si nascon­deva, accet­tava la logica del suo “sov­ver­si­vi­smo”, le con­se­guenze dell’eresia e dell’impopolarità», ma in que­sto viene con­trap­po­sto alla «con­dotta degli uomini tipici del paci­fi­smo ita­liano, pavidi e ser­vili per non essere presi di mira, nasco­sti e silen­ziosi nei comandi e negli impie­ghi, emuli dei nazio­na­li­sti nel rifu­giarsi nei bassi servizi». 
Al ritratto si aggiun­gono alcune for­za­ture cul­tu­rali, che devono ser­vire anch’esse a nobi­li­tare il per­so­nag­gio rispetto al banale mate­ria­li­smo dei socia­li­sti: «il suo mar­xi­smo non era ignaro di Hegel, né aveva tra­scu­rato Sorel e il berg­so­ni­smo. È sore­liana la sua intransigenza». 

Il mondo della Seconda Internazionale 
La con­clu­sione del sag­gio di Gobetti è cer­ta­mente ancor oggi toc­cante, per­ché rivolta a una vit­tima della vio­lenza fasci­sta da parte di un gio­vane che seguirà la stessa sorte: «la gene­ra­zione che noi dob­biamo creare è pro­prio que­sta, dei volon­tari della morte per dare al pro­le­ta­riato la libertà per­duta». Ma anche qui a ben vedere c’è un gusto let­te­ra­rio, vaga­mente tor­bido, che è del tutto estra­neo alla per­so­na­lità di Mat­teotti, un poli­tico che com­bat­teva con riso­lu­tezza la sua bat­ta­glia poli­tica senza este­tiz­zarla e rifug­gendo dalle pose eroiche. 
C’è indub­bia­mente uno scarto cul­tu­rale che separa Mat­teotti dalla for­ma­zione di Gobetti: il suo essere immune dalla fasci­na­zione delle avan­guar­die del primo Nove­cento, da spi­ri­tua­li­smi, idea­li­smi e irra­zio­na­li­smi che con­qui­sta­rono la scena men­tre decli­nava prima e poi andava in fran­tumi il vec­chio para­digma del posi­ti­vi­smo otto­cen­te­sco che aveva uni­fi­cato le éli­tes della cul­tura euro­pea. Un nuovo humus che fu vitale e sti­mo­lante per alcuni, tor­bido e limac­cioso per altri, e al quale Mat­teotti rimase estra­neo, anche nel lin­guag­gio, fatto di con­cre­tezza e razio­na­lità nell’argomentare. Si potrebbe dire che il suo mondo ideale rimase quello della Seconda Inter­na­zio­nale, ma è un’affermazione che può esser soste­nuta solo con alcune rile­vanti e deci­sive pre­ci­sa­zioni. In primo luogo, il Mat­teotti antim­pe­ria­li­sta e anti­co­lo­nia­li­sta supera senza incer­tezze quello che fu uno dei punti di mag­giore ambi­guità di quella tra­di­zione, che non fu estra­nea alla cata­strofe dell’internazionalismo socia­li­sta nel 1914. 
Sap­piamo ora, attra­verso i con­tri­buti pazien­te­mente rac­colti in que­ste Opere, che Mat­teotti aveva anche net­ta­mente supe­rato in tema di diritto (che fu il prin­ci­pale e più assi­duo inte­resse cul­tu­rale a fianco della poli­tica) le asprezze e le inge­nuità della tra­di­zione (non eccelsa) del posi­ti­vi­smo socia­li­sta ita­liano, tra misu­ra­zione di crani e raz­zi­smi latenti, giun­gendo a con­di­vi­dere e svi­lup­pare i prin­cipi di egua­glianza e di garan­zia della per­sona che erano pro­pri della ten­denza più illu­mi­nata della giu­ri­spru­denza del suo tempo. Allo stesso modo, i suoi studi di eco­no­mia testi­mo­niano un supe­ra­mento delle molte sem­pli­fi­ca­zioni dot­tri­na­rie insite nella tra­di­zione otto­cen­te­sca del socia­li­smo e un’attenzione alle forme con­crete della vita eco­no­mica e asso­cia­tiva che sostan­zie­ranno la sua atti­vità di ammi­ni­stra­tore e di poli­tico. Rias­su­mere que­sto sotto l’etichetta del «libe­ri­smo», come fa Gobetti, è uno dei tanti tri­buti alla cul­tura anti­gio­lit­tiana che fu pro­pria del gio­vane libe­rale e di tutte le avan­guar­die dell’inizio di secolo in Ita­lia, lad­dove si trat­tava in realtà di un anti­ca­pi­ta­li­smo non dema­go­gico e pre­di­ca­to­rio, ma attento anche alle com­pli­cità e ai cedi­menti nei quali il gio­vane movi­mento socia­li­sta poteva incor­rere, nel costruire dal basso una società alter­na­tiva di eguali che era l’essenza del rifor­mi­smo inteso da Matteotti. 
A que­sto frain­ten­di­mento ini­ziale si som­mano nel corso del tempo gli equi­voci di carat­tere diret­ta­mente poli­tico, e in par­ti­co­lare si inne­stano le dispute nomi­na­li­sti­che che accom­pa­gne­ranno la sua «for­tuna» anche nel secondo dopo­guerra e che con­tri­bui­ranno a cir­co­scri­verne la dimen­sione a quella esclu­siva del mar­ti­rio, abba­gli a lungo ricor­renti nella memo­ria socia­li­sta, ten­denti a defi­nire Mat­teotti sulla base del signi­fi­cato assunto nel tempo e nel dive­nire della lotta poli­tica dalle for­mule e dalla terminologia. 
L’incomprensione da parte comu­ni­sta di un Mat­teotti «pel­le­grino del nulla», secondo la defi­ni­zione gram­sciana, pro­se­guiva fino agli anni Set­tanta inol­trati, quando per­so­na­lità pur fra loro molto diverse come Pie­tro Sec­chia e Gior­gio Amen­dola tor­na­vano a rim­pro­ve­rare a Mat­teotti un atteg­gia­mento di ras­se­gna­zione di fronte al fasci­smo, attri­buen­do­gli quel «corag­gio della viltà», rite­nuto il sim­bolo del cedi­mento socia­li­sta di fronte al regime trion­fante. Non solo era sba­gliato il giu­di­zio di fondo, che rove­sciava la colpa di una sot­to­va­lu­ta­zione della vio­lenza fasci­sta che fu pro­pria di tutto il movi­mento ope­raio e dalla quale il solo Mat­teotti fu immune, ma ci si rifa­ceva in forma impro­pria a un cele­bre discorso del 10 marzo 1921 alla Camera dei depu­tati, che si con­clu­deva in realtà con un ammo­ni­mento rivolto in tono abba­stanza minac­cioso al governo, con­si­de­rato inerte o com­plice rispetto a vio­lenze che non sareb­bero più rima­ste senza risposta. 

Un rifor­mi­smo di classe 
È invece un rifor­mi­smo, quello di Mat­teotti, che nel breve periodo della sua atti­vità poli­tica (quat­tor­dici anni in tutto) non si mostra in nulla arren­de­vole o con­ci­liante, e che non con­cede nes­suna aper­tura di cre­dito alla classe diri­gente, che pone anzi costan­te­mente sotto accusa nella sua atti­vità quo­ti­diana di orga­niz­za­tore e di polemista. 
Mat­teotti aveva gioito delle rivo­lu­zioni in Rus­sia, come tutti i socia­li­sti ita­liani, ma ben pre­sto sarebbe diven­tato immune dal fascino della rivo­lu­zione bol­sce­vica, e la sua dif­fi­denza era basata sulla con­sta­ta­zione con­creta e rea­li­stica dell’impossibilità di costruire il socia­li­smo «senza l’autonomia e l’autogoverno delle classi lavo­ra­trici». Mal­grado que­sto, ancora nel 1920 soste­neva il diritto all’adesione da parte dei socia­li­sti alla Terza Inter­na­zio­nale, man­te­nendo auto­no­mia, senza mutare nome e senza espul­sioni di rifor­mi­sti. Si spinge anche a giu­sti­fi­care in Ita­lia l’eventualità di una dit­ta­tura tran­si­to­ria del pro­le­ta­riato, con garan­zia dell’autogoverno delle masse lavo­ra­trici, pur­ché non divenga dit­ta­tura di pochi sul pro­le­ta­riato sul modello bol­sce­vico, e nella con­sa­pe­vo­lezza che la costru­zione del socia­li­smo impone tempi lun­ghi e «un’opera pro­fonda di tra­sfor­ma­zione ed edu­ca­zione sociale». 
L’elemento pre­va­lente della pole­mica con i comu­ni­sti verte sull’indebolimento auto­le­sio­ni­stico che il movi­mento ope­raio ita­liano si è inflitto attra­verso la sequenza di scis­sioni cui ha dato vita. E nel pro­prio dibat­tito interno, del resto, gli stessi comu­ni­sti appa­ri­vano con­sa­pe­voli del danno appor­tato dalla forma spe­ci­fica della «scis­sione di mino­ranza» san­cita a Livorno: «il più grande trionfo della rea­zione» lo defi­niva Gram­sci in pri­vato («fummo, senza volerlo, un aspetto della dis­so­lu­zione gene­rale della società italiana»). 
C’è soprat­tutto, da parte di Mat­teotti, insof­fe­renza per le dia­tribe interne del socia­li­smo ita­liano, per l’astrattezza e il dot­tri­na­ri­smo di quei dibat­titi, e c’è addi­rit­tura sde­gno di fronte a quel vano discu­tere di riforme e rivo­lu­zione, di ade­sione o meno all’Internazionale di Mosca, men­tre intorno la casa bru­cia. «Mi ver­go­gno che i nostri Con­gressi dedi­chino tutto il loro tempo a que­ste dia­tribe; che non si pensi ad altro che a scis­sioni», scri­verà alla vigi­lia della mar­cia su Roma. 
Dai suoi ricordi del con­fino sici­liano negli anni della guerra traeva l’immagine, in una let­tera alla moglie Velia dell’estate del 1923, del fasci­smo che come la lava dell’Etna «pro­cede len­ta­mente e ine­so­ra­bil­mente, bru­ciando, schiac­ciando, pie­tri­fi­cando» men­tre attorno pre­vale l’indifferenza e «gli uomini tro­vano ugual­mente il tempo di acca­pi­gliarsi e di scan­narsi per un vaso di vino là dove tra poche ore sarebbe venuta la lava a pren­dere tutto». 
Mat­teotti è in ogni caso l’unico diri­gente del movi­mento ope­raio ita­liano che com­prese fin dall’inizio novità e peri­co­lo­sità del fasci­smo, senza indul­gere nell’abbaglio ricor­rente, in quasi tutti i socia­li­sti e comu­ni­sti dopo la mar­cia su Roma, per cui «un governo bor­ghese vale l’altro», e senza lasciarsi scap­pare scioc­chezze su Mus­so­lini che era comun­que pre­fe­ri­bile a Gio­litti, come fanno all’epoca, nei loro car­teggi, alcuni dei più illu­stri pro­ta­go­ni­sti del futuro socia­li­smo liberale. 
La colo­niz­za­zione liberalsocialista 
Forse si potrebbe dire che con Mat­teotti nasce e muore una moderna social­de­mo­cra­zia del pro­le­ta­riato ita­liano, così come si può dire che con la morte di Gio­vanni Amen­dola scom­pare dall’orizzonte l’ipotesi, appena for­mu­lata, di un moderno par­tito libe­ral­de­mo­cra­tico della bor­ghe­sia: il fasci­smo distrugge anche molte delle ric­chis­sime poten­zia­lità che erano ger­mi­nate nel dopo­guerra italiano. 
Quando si ten­terà dopo il fasci­smo di ripre­sen­tare l’esperienza di Mat­teotti, sotto sem­biante sara­gat­tiano, appa­rirà vel­lei­ta­rio e incoe­rente il richiamo ai prin­cipi di un «rifor­mi­smo» che si avviava a dive­nire puro e sem­plice sino­nimo di mode­ra­ti­smo, enor­me­mente distante dalla fer­mezza clas­si­sta di Mat­teotti. Né le cose anda­rono meglio nel filone mag­gio­ri­ta­rio, e molto com­po­sito, del socia­li­smo ita­liano. Nella sua ala sini­stra anche un intel­let­tuale inquieto e costan­te­mente alla ricerca di una purezza clas­si­sta del pen­siero mar­xi­sta, come Gianni Bosio, respinse la pro­po­sta di un’antologia di Mat­teotti sul fasci­smo per le edi­zioni Avanti! («otter­rebbe il risul­tato di far pen­sare che noi con­di­vi­diamo quelle posi­zioni»); quanto al filone che dopo il 1956 tor­nerà a defi­nirsi «rifor­mi­sta», esso verrà pro­gres­si­va­mente colo­niz­zato sul piano cul­tu­rale dal libe­ral­so­cia­li­smo post-azionista, fino a estin­guersi del tutto. 
La sto­ria di Mat­teotti è indub­bia­mente quella di uno scon­fitto. Ucciso a soli 39 anni, paga con la vita la sua denun­cia delle vio­lenze e delle ille­ga­lità che hanno assi­cu­rato la vit­to­ria del fasci­smo nelle ele­zioni del 1924. Il suo assas­si­nio inter­rompe un per­corso di cui nes­suno può ipo­tiz­zare com­piu­ta­mente gli esiti e priva l’antifascismo del suo lea­der naturale. 
Se ormai la sua figura è ridotta dalla sto­ria a sim­bolo, ad esem­pio morale, è giu­sto però che almeno si sap­pia di cosa volle essere sim­bolo ed esem­pio. La figura di Mat­teotti va ricon­dotta quindi alla dimen­sione che gli fu pro­pria, di un poli­tico socia­li­sta fermo nei suoi prin­cipi, incrol­la­bile nella sua aspi­ra­zione a una società di eguali, libe­rata dall’oppressione delle classi domi­nanti. È que­sto forse il risar­ci­mento che la sto­ria degli ita­liani gli deve, di là dell’intitolazione di strade e piazze, di tar­ghe e monumenti.


Il prossimo 10 giugno saranno novant'anni dalla morte dello statista socialista ucciso dai fascisti. Uno dei modi migliori per ricordarlo e capire la sua incidenza nel paese sono le parenti del grande scrittore di Racalmuto

Valter Vecellio Europa 




Il più irriducibile degli oppositori
Dopo l'omicidio, Piero Gobetti scrive un profilo (ora riedito) in cui tratteggia la vittima come guardiano della rettitudine politica, antifascista intransigente, «volontario della morte»di Emilio Gentile il Sole24 domenica 8.6.14




Matteotti eroe di oggi
Domani i 90 anni dall’uccisione del socialista che denunciò la tangentopoli fascista


l’Unità 9.6.14

CI SONO ANNIVERSARI RITUALI E PURAMENTE SIMBOLICI. E altri che sono vere e proprie date-evento. Anniversari «evenemenziali», per dirla con la storiografia delle Annales. Dove la storia cambia, si spacca, diventa un crocevia: sarebbe potuta cambiare in modo opposto rispetto a ciò che avvenne dopo. Ecco, i 90 anni dell’uccisione di Giacomo Matteotti, 10 giugno 1924, sono una ricorrenza di questo tipo, che sarebbe stolto annegare nell’agiografia o nella ritualità antifascista (il «santino», polemicamente additato da Sandro Pertini). Infatti dopo quell’omicidio nulla sarà più come prima nella storia d’Italia, perché il fascismo che pure aveva vacillato, resiste e supera la crisi. Sulle cenere dei propri avversari incapaci di capire l’accaduto e inchiodati al famoso e sterile Aventino (che è poi una sala di Montecitorio dove gli oppositori si riunirono per decretare la loro non partecipazione alla tenzone parlamentare, sperando che il Sovrano intervenisse a restaurare la legalità e Mussolini cadesse). 


Nencini 122 10-06-2014 l' unita' 16 

Mannino 123 10-06-2014 giorno/resto/nazione 35

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