giovedì 25 settembre 2014

La memoria dell'Unione Sovietica nella Russia contemporanea: l'ostalgia vince sulla Guerra Fredda culturale continua


Ieri sera il Tg2 delle 20.30 ricordava i 60 anni di Marco Tardelli non con un'intervista o una carrellata di immagini calcistiche ma con un lungo filmato celebrativo della caduta del Muro di Berlino e della vittoria dell'Occidente sul comunismo. Avrebbero potuto scegliere qualunque accompagnamento; invece hanno scelto proprio questo. Siamo dunque ancora in piena Guerra Fredda e questo libro e queste recensioni - Repubblica e Corriere a coppia, come i due carabinieri - lo confermano.
Tuttavia, la forza dell'oggettività delle cose si impone anche in questo caso: si stava meglio quando si stava meglio [SGA].


Svetlana Aleksievic: Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo, Bompiani

Risvolto
"Per me non è tanto importante che tu scriva quello che ti ho raccontato, ma che andando via ti volti a ouardare la mia casetta, e non una ma due volte". Così si è rivolta a Svetlana Aleksievic, congedandosi da lei sulla soglia della sua chata, quella contadina bielorussa. La speranza di avere affidato il racconto della sua vita a qualcuno capace di vero ascolto non poteva essere meglio riposta. Far raccontare a donne e uomini, protagonisti e vittime e carnefici, un dramma corale, quello delle "piccole persone" coinvolte dalla Grande Utopia comunista, che ha squassato la storia dell'URSS-Russia per settant'anni e fino a oggi, è il cuore del lavoro letterario di Svetlana Aleksievic. Questo nuovo libro, sullo sfondo del grande dramma collettivo del crollo dell'Unione Sovietica e della tormentosa e problematica nascita di una "nuova Russia", costituisce il coronamento ideale di un lavoro di trent'anni: qui sono decine i protagonisti-narratori che raccontano cos'è stata l'epocale svolta tuttora in atto: contadini, operai, studenti, intellettuali, dalla semplice militante al generale, all'alto funzionario del Cremlino, al volonteroso carnefice di ieri forse ormai consapevole dei troppi orrori del regime che serviva. Nonché misconosciuti eroi sovietici del tempo di pace e del tempo di guerra, i quali non sanno rassegnarsi al tramonto degli ideali e alle mediocri servitù di un'esistenza che, rispettando solo successo e denaro, esclude i deboli e gli ultimi. 



Il ritorno dell’homo sovieticus nella Russia postcomunista
Il libro di Svetlana Aleksievic registra il contro-movimento, la «forte domanda di Unione Sovietica» che si è manifestata nella società russa negli ultimi annidi Luigi Ippolito Corriere 25.9.14

Un fiume di voci che riemerge come un fenomeno carsico dalle macerie, materiali e spirituali, della storia russa recente. È questo il libro di Svetlana Aleksievic Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani). Dove il titolo originale, Vremija Second Hand , metà in russo e metà in inglese, dà subito l’idea dello scarto mentale e culturale tra il «prima» e il «dopo» rappresentato dalla fine dell’Urss. 

Un libro che scorre come un romanzo, ma che in realtà è un trattato di antropologia culturale, il cui oggetto è una specie umana tutta particolare apparsa e (forse) dissoltasi nel corso del XX secolo: l’homo sovieticus , ossia il prodotto di settant’anni di laboratorio marxista-leninista. Una specie, come scrive l’autrice, inconfondibile, diversa da tutte le altre, con un suo vocabolario, una sua idea del bene e del male, i suoi eroi e i suoi martiri. 

L’autrice stessa fa parte di questa umanità: nata in Ucraina da genitori bielorussi e ucraini, vissuta in Bielorussia, cronista delle tragedie del suo Paese, dalla guerra afghana al disastro di Cernobyl, fino all’opposizione al regime di Lukashenko e all’esilio in Europa (terminato tre anni fa col rientro a Minsk). 
La Aleksievic registra le tracce della civiltà sovietica, ma non pone domande sul socialismo, bensì «sull’amore, la gelosia l’infanzia, la vecchiaia. Sulla musica, i balli, le pettinature… Sui mille e mille dettagli di una vita che non c’è più». E attraverso una miriade di testimonianze, registrate in presa diretta, l’autrice racconta come questo homo sovieticus abbia reagito di fronte alla libertà inaspettata di cui si è trovato a godere, o a poter approfittare. Cita Dostoevskij, il Grande Inquisitore, il peso insostenibile della scelta: «Ci sembrava che la scelta fosse stata fatta, che il comunismo avesse definitivamente perso. E invece era soltanto l’inizio…». 
Chi ha avuto la fortuna di assistere da vicino a quegli eventi, al tumulto della Russia negli anni Novanta, dalla caduta di Gorbaciov all’erratico regno di Eltsin, sa che si è trattato di un’epoca irripetibile. La fine della censura, la liberazione dalle pastoie burocratiche, l’arricchimento vertiginoso, la sensazione che il futuro stesse dietro l’angolo e che tutto fosse a portata di mano. Un’ubriacatura, un disorientamento che scorrono nelle pagine della Aleksievic attraverso mille ricordi e dettagli personali, declinati attraverso interminabili conversazioni in cucina attorno a una tazza di tè. 
Ma l’autrice fa in tempo anche a registrare il contro-movimento, la «forte domanda di Unione Sovietica» che si è manifestata nella società russa negli ultimi anni: «Rinascono idee di vecchio stampo: quella del grande impero, del pugno di ferro, della peculiare via russa… E invece del marxismo-leninismo, l’ortodossia». 
Ecco perché il libro della Aleksievic è importante per capire i giorni presenti. Perché ci mostra come, attraverso il marasma degli anni Novanta, l’homo sovieticus sia giunto fino a noi. E come si sia installato al vertice della piramide del potere. Perché cosa altro è Putin, se non l’homo sovieticus riplasmato attraverso la distruzione dei valori del postcomunismo? 
L’autrice scrive di aver passato tutta la vita sulle barricate. E alla fine intravede una nuova battaglia. In quelle decine di migliaia di persone che scendono in strada con i nastri bianchi sulle giacche. «Simbolo di rinascita. Di luce. E io sono con loro». Ma oggi sappiamo che anche la stagione della protesta degli ultimi due inverni si è rivelata effimera. E che la mobilitazione generale per la guerra in Ucraina ha ricompattato il consenso neo-sovietico. C’è da chiedersi in ultimo quanto ci sia di nostalgico e quanto di propriamente russo in questo esito. «L’immobile mongolo», aveva scritto Marx. «Sono passati cent’anni — annota la Aleksievic — e di nuovo il futuro non è al suo posto. Siamo entrati in un tempo di seconda mano». 



“L’animo russo vive ancora nei Gulag”

Dostoevskij, Solzenitsyn, la dissoluzione dell’Urss e il ruolo degli intellettuali Parla Svetlana Aleksievic, di cui esce il romanzo “Tempo di seconda mano”

di Wlodek Goldkorn Repubblica 25.9.14


ALCUNI decenni fa ormai, il mondo degli intellettuali e letterati russi fu diviso da una polemica fra due giganti. Da un lato Varlam Salamov, autore di Racconti di Kolyma, un capolavoro di importanza analoga a Se questo è un uomo di Primo Levi, e per 18 anni prigioniero dei Lager staliniani; dall’altro, Aleksandr Solzenitsyn, diventato famoso con Una giornata di Ivan Denisovic, autore dell’ Arcipelago Gulag , e con otto anni di lavori forzati alle spalle.

Solzenitsyn sosteneva che l’esperienza del Lager rendesse forti perché nelle condizioni estreme si rivela la vera natura di ciascun uomo. Insomma, il Gulag come scuola di resistenza spirituale. Salamov invece era del parere che la vita nel Lager finisse per distruggere la personalità del prigioniero e che l’essere umano vissuto nel Gulag fosse condannato a vivere il resto dei suoi giorni come se non ne fosse mai uscito. Questa discussione, una variante della secolare disputa tra slavofili, i sostenitori di una Russia autocratica, ortodossa e imperiale, e “occidentalisti” la cita Svetlana Aleksievic, anche lei scrittrice, 66enne, di padre bielorusso e madre ucraina, l’anno scorso candidata, data dai bookmaker per certa, al Nobel per la Letteratura, nel frattempo insignita da molti e prestigiosi premi tra Francia e Germania. In questi giorni Aleksievic è in Italia per ritirare un altro riconoscimento (Masi Grosso d’Oro Veneziano) e per incontrare i suoi lettori. Dice Aleksievic: «Oggi vediamo che aveva ragione Salamov. Nella Russia di Putin viviamo con la mentalità da Lager. Non si parla d’altro che del pericolo che viene da fuori, dal presunto accerchiamento da parte dei nemici esterni e della minaccia che viene da quelli interni. Il lessico è dei tempi del passato ».
L’occasione della visita in Italia e di questa conversazione è l’uscita dell’ultimo libro di Aleksievic, Tempo di seconda mano (Bompiani), un racconto corale ed epico, oltre 700 pagine, sulla dissoluzione dell’Urss e sulle sue conseguenze per l’uomo comune. Ci ha messo più di dieci anni per scriverlo: ha viaggiato nelle remote province, ha intervistato vecchi comunisti, contadine, minatori, professionisti. Molti rivendicano i tempi dell’Unione Sovietica e dicono: sebbene Stalin ci abbia fatto soffrire, ci ha permesso di credere negli ideali. Colpisce l’uso che Aleksievic fa della lingua: il suo, anche in questa intervista, è un russo ricercato, classico, quasi ottocentesco, non contaminato dal gergo dell’ex Urss. «Quando l’impero sovietico è crollato - racconta la scrittrice - noi democratici avevamo una visione romantica. Ci immaginavamo un avvenire simile ad altri popoli europei. Ci dicevamo: dopo decenni di isolamento, la Russia torna a far parte del mondo. Eravamo influenzati dalla perestrojka, il tentativo di democratizzare il Paese, di portarlo sulla strada di una riforma di stampo socialdemocratico. Pensavamo di essere alla vigilia di una specie di seconda vita (ma non di seconda mano): decente e dignitosa».
Poi abbassa la voce: «Oggi è diventato invece evidente che in Russia niente di buono riesce bene. A partire dal terzo mandato di Putin (2012) è chiaro che stiamo tornando indietro. Certo, siccome sarebbe difficile parlare della ricostituzione dell’Unione Sovietica, si usa il termine Unione euroasiatica». Si tratta di un’idea di Aleksandr Dugin, filosofo di estrema destra, ben visto nell’entourage del presidente e che risale ai circoli di emigrati bianchi dei primi anni Venti. Esuli che più tardi avrebbero dimostrato molta simpatia per Stalin; alcuni tornarono in Urss per finire ovviamente prigionieri del Gulag o fucilati. Aleksievic riflette: «Sta tornando il passato; senza idee nuove. O forse sì, qualcosa di nuovo c’è. Abbiamo una variante degli stalinisti, ma sono cristiani ortodossi. L’idea è quella di una Grande Russia e dell’unicità del popolo russo. Putin dice che il crollo dell’impero sia stato una catastrofe geopolitica. No, non è ridicolo. Basti vedere come la Crimea sia stata annessa manu militari e temo che la stessa sorte spetti all’Ucraina orientale. Tutto questo mentre l’86 per cento della popolazione appoggia il capo dello Stato».
Da vera scrittrice che la realtà la capisce se organizzata in uno schema narrativo letterario, Aleksievic cita Dostoevskij, acutissimo analista dell’animo umano. «Dostoevskij diceva che l’uomo russo “vuole sempre di più”. Non gli basta un po’ di benessere materiale. Per il russo l’idea, se appare nobile, è in cima a ogni cosa». Alza la voce: «Stando a un recente sondaggio, alla domanda “siete disposti a sacrificare la vostra vita e la vita dei vostri familiari perché la Russia torni grande?”, il 37 per cento del campione ha risposto di sì». E quando pronuncia la frase “La Russia torni grande” il tono della voce tra ironia e indignazione imita quello solenne degli speaker di radio Mosca di una volta.
Il sincretismo dei simboli lo si è visto alla parata militare il 9 maggio a Mosca: stella rossa e coccarde zariste di San Giorgio. «È l’ethos imperiale che ha vinto, non importa se zarista o stalinista», dice Aleksievic e aggiunge con tristezza: «Stalin non è più oggetto di critica. Sono usciti moltissimi film e libri che lo elogiano. A Perm stanno chiudendo il museo del Gulag». Il Lager Perm-36 è stato costituito nel 1946, come luogo di lavoro forzato e morte per stenti. Chiuso da Gorbaciov è stato trasformato in un luogo della memoria. Continua la scrittrice: «In Russia viene riscritto il passato. Si arriva a dire che i democratici siano stati dei delinquenti e c’è chi chiede di trascinare Gorbaciov davanti a un tribunale». Riflette: «Il 21 settembre ci sono state manifestazioni contro la guerra. A Mosca sono scese in piazza 20mila persone. Ma la grande maggioranza la pensa diversamente».
Le ragioni di questa involuzione? Aleksievic risponde: «Viaggiando nel Paese ho toccato con mano la sensazione di risentimento, sentivo racconti di gente derubata, ingannata dagli oligarchi». E poi introduce il concetto della “cucina”. Ai tempi del comunismo, i dissidenti stavano molto in cucina; a bere il tè e discutere dei libri proibiti. Dice: «Noi dalla cucina non siamo mai usciti. Pensavamo che il popolo volesse vedere stampati i libri di Solzenitsyn, di Lev Razgon (17 anni nel Gulag) di Salamov. E invece i libri sono rimasti invenduti. Ma sono fallite pure le élite. Si sono messe al servizio di Putin e dei potenti. Si tratta di interessi molto materiali: chi ha un ristorante, chi un figlio in carriera. Ognuno ha una giustificazione per il proprio conformismo». E conclude: «Erano belli i tempi in cui eravamo dissidenti nei confronti del potere. Essere invece in dissenso con il popolo, come avviene oggi, è terribilmente e tragicamente complicato ».


Libero 26 settembre 2014

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