mercoledì 17 settembre 2014

Verso il lavoro servile: Renzi fa ciò che a Berlusconi mai sarebbe stato consentito

Cgil, Fiom e fassini a cuccia [SGA].


Lavoro, la svolta di Renzi “Riforma subito per decreto e via anche l’articolo 18”

Il premier ha deciso di varare il provvedimento a ottobre con la legge di Stabilità. Rivisti gli ammortizzatori sociali

di Francesco Bei Repubblica 17.9.14

ROMA Matteo Renzi è pronto e, quando avverrà, sarà lo strappo più profondo con la tradizione della sinistra dagli anni Settanta ad oggi. La vera Bad Godesberg italiana. «È deciso, faccio la riforma del lavoro per decreto. Insieme alla legge di Stabilità. Cancelliamo l’articolo 18». Lo confida ai suoi tutto d’un fiato, lanciando il cuore oltre l’ostacolo, al termine di una giornata lunghissima, con due dibattiti in Parlamento e uno alla direzione del Pd. Sa bene che la materia è pura lava: per un certo mondo dem e per la tradizionale “constituency” legata alla Cgil è come operare a cuore aperto senza anestesia. Eppure Renzi è deciso ad andare avanti, anzi sarà proprio la riforma del lavoro lo “stress test” per misurare se la maggioranza è disposta a seguirlo fino in fondo sulla strada delle riforme. E così evitare un ritorno al voto in primavera.
La dead line è dunque la metà di ottobre, quando contestualmente alla legge di Stabilità arriverà anche quel decreto con dentro la rivoluzione del lavoro. Ma visto che il premier conosce già le armi dei suoi avversari interni — Stefano Fassina e Cesare Damiano hanno iniziato il bombardamento preventivo — è anche deciso a sfidarli sul loro stesso terreno. E dunque la riforma non parlerà solo la lingua legnosa del taglio ai diritti — come quello a essere reintegrati nel posto di lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa — ma suonerà anche lo spartito dolce delle garanzie estese a tutti. «L’obbligo del reintegro — spiega il capo del governo — sarà sostituito da un indennizzo, tanto più alto quanto più alta sarà l’anzianità del lavoratore. Ma contestualmente modifichiamo e ridefiniamo gli ammortizzatori sociali e le politiche attive sul lavoro: la malattia, le ferie, la cassa integrazione, la maternità, le estendiamo a tutti». Il modello sarà «quello danese e socialdemocratico» della “flexicurity”, flessibilità del posto di lavoro ma sicurezza del lavoratore, che sarà accompagnato dallo Stato e preso per mano finché non troverà un’altra azienda in cui ricollocarsi. La formula è accattivante, è quella proposta da anni da Pietro Ichino, ma servono tanti soldi per finanziarla. Proprio per questo è necessario ripensare integralmente gli ammortizzatori attuali e legare la riforma del lavoro alla legge di Stabilità.
Insomma, se davvero Mario Draghi, nell’incontro segreto a Città della Pieve del 13 agosto, chiese a Renzi la riforma del lavoro in cambio di un aiuto della Bce, il premier è deciso ad onorare la sua parte di impegno. Certo, a modo suo. «La nostra è un’apertura alle richieste dell’Unione europea, ma con un ancoraggio alla sinistra sul piano dei diritti — ci tiene a precisare il premier quando illustra il piano ai parlamentari più vicini —. È una cosa diversa rispetto al disegno della Troika: facciamo la riforma del lavoro, ma la facciamo a modo mio».
Per questo Renzi esclude per il momento di volersi rituffare in campagna elettorale e se la prende con quelli che hanno volutamente frainteso il senso delle sue parole in parlamento. «Non voglio andare a votare. Io faccio le riforme. Ma non sto qui a vivacchiare, a perdere tempo. Io vo- glio finire la legislatura. Quindi noi facciamo le riforme e poi si vede ». Insomma, la prova del budino sta nell’assaggiarlo. Se la minoranza interna del Pd accetterà questo passaggio, dopo aver accettato la riforma costituzionale e quella elettorale, allora la legislatura potrà andare avanti. Altrimenti...
Renzi ha già in mente le tappe di avvicinamento alla meta. Anzitutto l’intenzione è quella di coinvolgere la minoranza e isolare al massimo gli irriducibili. Come già avvenuto per bicameralismo e Italicum, sarà una Direzione Pd convocata ai primi di ottobre a esprimersi con un dibattito ampio sul Job’s Act. Direzione che sarà conclusa con un voto. Vincolante per tutti. Per coinvolgere al massimo l’area dalemianbersaniana e preparare il terreno allo strappo, il capo del Nazareno ha dato ieri via libera alla segreteria «plurale». Certo, ne sono rimasti fuori i civatiani. Ma altri incarichi sono già pronti per loro, a partire dall’ufficio di presidenza dei gruppi e dalla sostituzione dei sottosegretari Legnini e Reggi: «C’è posto per tutti».
La minoranza comunque non intende stare zitta e si appresta al combattimento. «Daremo battaglia sul lavoro come abbiamo fatto per la difesa della Costituzione — promette il senatore Felice Casson — e saremo molti di più, anche i bersaniani staranno con noi». Nessuno ne parla apertamente, ma certo anche una scissione nel Pd — su un tema così lacerante — è da mettere nel conto. Linda Lanzillotta, che conosce bene il partito per esserne allontanata proprio per le resistenze della parte più legata ai sindacati, non crede che avverrà: «Non se ne andranno, lo sanno anche loro che un partitino di sinistra-sinistra non avrebbe futuro». Corradino Mineo, uno dei leader della dissidenza, sembra darle indirettamente ragione: «Renzi ci tratta come se già fossimo fuori, ma noi la battaglia la faremo eccome. Non gli faremo il favore di andarcene, sarà lui se vuole a doverci cacciare ».

Ce lo chiede l'Europa...
Pd, lo speedy Jobs act apre il fronte internodi Marco Palombi il Fatto 17.9.14

L’obbligo del reintegro sarà sostituito da un indennizzo al lavoratore che viene licenziato
Per la riforma seguiremo il modello danese e quello di tutte le grandi socialdemocrazie
È un’apertura alle richieste dell’Ue e non alla Troika. Sui diritti la riforma sarà ancorata alla sinistra
L’unica cosa che sa con certezza è che quello è lo scalpo che deve offrire alla triade Bce-Ue-Merkel per consentirsi di non rispettare i patti sul pareggio di bilancio strutturale. Per il resto, però, sulla riforma del lavoro Matteo Renzi è al minimo confuso. Il cosiddetto Jobs act gli serve, e subito: “Se saremo nelle condizioni di avere tempi certi e serrati, allora rispetteremo il lavoro del Parlamento e ci attrezzeremo per la delega altrimenti siamo pronti a intervenire con provvedimenti d’urgenza perché non possiamo perdere un secondo”. Tradotto: sbrigatevi o facciamo un decreto.
INTANTOoggi, dopo apposita riunione di maggioranza in Senato, dovrebbe arrivare un emendamento del governo sul tema al ddl delega approvato addirittura la primavera scorsa. Quanto ai contenuti siamo nella solita nube renziana: “Non c’è cosa più iniqua che dividere i cittadini tra quelli di serie A e quelli di serie B”, va superato un “mondo del lavoro basato sull’apartheid”, “bisogna cambiare gli ammortizzatori sociali rendendoli più semplici, semplificare le regole e garantire forme di tutela univoche e identiche già dal 2015” (tradotto: addio alla cassa integrazione, via al sussidio di disoccupazione per tutti, che poi vuol dire immediato licenziamento per motivi economici). Infiocchettate diversamente sono le cose che chiedono Bce e Ue, cioè strumenti che consentano di liberarsi più facilmente della forza lavoro in eccesso (in tecnichese: “flessibilità in uscita”) e volendo di tagliare i salari (“parametrare gli stipendi alla produttività”).
Giammai, dice però Renzi: “Chi propone per l’Italia il modello spagnolo a mio giudizio schiaffeggia l’aria perchè non è possibile che il modello sia un paese che ha una disoccupazione al 25%. Ridurre il costo del lavoro è un discorso, ma non si abbassano i salari”. Parole sante, anche se gli si potrebbe far notare che estendere i contratti di solidarietà anche alle aziende non in crisi conclamata (apposito emendamento in questo senso è già stato approvato in Senato) significa legalizzare un taglio dei salari.
DETTO QUESTO, la minaccia di decreto del premier ha almeno scatenato la sinistra interna e sindacale: “Sarebbe uno strappo inaccettabile”, ha dichiarato subito Maurizio Landini, leader della Fiom; “Renzi parla il linguaggio della destra”, dice Fassina, quando parla di “apartheid scarica il dramma della disoccupazione e della precarietà dei più giovani su lavoratrici e lavoratori che da vent’anni hanno salari reali in diminuzione e perdono il lavoro a centinaia di migliaia”. Conclusione: “Il premier dice no a lavoro di serie A e di serie B. Propone tutte lavoratrici e lavoratori in serie C”. Al fondo c’è il tema dell’articolo 18 (“tra poco sarà un non problema”, sostiene un po’ minacciosamente Pier Carlo Padoan) e più in generale della riscrittura dello Statuto dei lavoratori.
È sempre la legge delega che dovrebbe consentirlo e senza discuterne davvero: la formula sarà scialba - una cosa tipo “armonizzazione col diritto comunitario” - e consentirà a Renzi e ai suoi di fare un po’ come gli pare nei decreti attuativi. Stesso discorso per il famoso “contratto a tutele crescenti”, che dovrebbe consentire completa “sacrificabilità” per i primi tre anni e poi forse il diritto al reintegro in caso di licenziamento e forse solo all’indennizzo. Sul tema, c’è da aspettarsi poco: “Rispetto il dibattito, ma pure le esigenze degli imprenditori. Serve un messaggio di semplificazione delle regole che impedisca diversità nei tribunali”. Però non si dica che si tagliano i salari (quello lo dicono a Bruxelles, dove sono meno sensibili).


L’ipotesi di un decreto sull’articolo 18
Accelerazione di Renzi anche sugli ammortizzatori L’alt della Fiom di Andrea Ducci Corriere 17.9.14

ROMA — L’ultima occasione. Matteo Renzi ricorre al concetto dell’emergenza e fissa le priorità per fare ripartire il Paese. Nel suo duplice intervento di ieri alla Camera e, poi, al Senato per illustrare il programma dei mille giorni il premier evidenzia le urgenze su lavoro, giustizia e riforme. «I mille giorni sono l’ultima chance per far ripartire il Paese, non una dilazione», rivendica il presidente del Consiglio. Più che una minaccia è una scossa per spingere Camera e Senato a fare presto. Non a caso, il premier si sofferma su una delle questioni cruciali nella discussione politica di queste ore: la riforma del lavoro e il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Renzi prefigura, tra l’altro, che se l’approvazione del Jobs act dovesse tardare l’esecutivo è pronto a ricorrere a un decreto legge.
Un messaggio diretto, oltre che al Parlamento, pure a Bruxelles per rimarcare l’intenzione del governo di fare sul serio. In serata Renzi, durante la direzione del Pd, torna a parlare di lavoro e Jobs act spingendosi oltre. «La riforma non si sintetizza nella discussione sull’articolo 18 sì o no, che va fatta una volta per tutte, ma — sottolinea il premier — dovrà avere un primo pacchetto sul sistema ammortizzatori. Se li cambi per rendere le tutele meno inique ti servono più soldi e per questo farei una direzione (si terrà alla fine del mese, ndr ) ad hoc che leghi la spending review con il mercato del lavoro». L’inquilino di Palazzo Chigi, alle prese con il problema irrisolto dell’occupazione, preannuncia cioè che la riforma degli ammortizzatori (finora inserita nel disegno di legge delega sul lavoro) avrà un costo di cui tenere conto in sede di elaborazione della legge di Stabilità. Per alimentare la riforma degli ammortizzatori serviranno, dunque, soldi in più. Tanto che Renzi pensa di farvi fronte attingendo alla spending review . Un’accelerazione che rende l’idea dell’urgenza continua di nuove coperture per garantire la tenuta del patto sociale nel Paese.
A questo si aggiunga la sfibrante discussione intorno all’emendamento all’articolo 4 del ddl lavoro sulla riforma dei contratti. In pratica, la modifica che dovrebbe introdurre il testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente. L’ipotesi è quella su cui ha lavorato finora Maurizio Sacconi (Ncd), il relatore del disegno di legge. Il cuore del provvedimento risiede tutto nel superamento delle tutele previste dall’articolo 18 (impossibilità di licenziare senza giusta causa), e nell’introduzione di indennizzi proporzionali all’anzianità del lavoratore, in caso di licenziamento. Va da sé che una buona parte del Pd non vuole accettare la rimozione delle garanzie sancite dallo Statuto dei lavoratori, come ribadito ieri Stefano Fassina, che definisce «Renzi come Monti e la destra», ma una riunione di maggioranza fissata per le 8 di questa mattina è destinata a produrre un accordo su un testo condiviso per la modifica all’articolo 4. L’obiettivo del governo e del relatore, del resto, è presentare un emendamento che consenta di ottenere il via libera della commissione Lavoro al Senato, evitando ulteriori slittamenti.
Resta che l’eventuale superamento dell’articolo 18 si scontrerà con un imponente fuoco di sbarramento. Il leader della Fiom, Maurizio Landini, va giù piatto e dice «In queste ore riparte la filippica sull’articolo 18. Ci si dice che l’Europa ci chiede questo. Bisogna proprio dire basta, ci hanno rotto le scatole». Landini ricorda inoltre che oggi il direttivo Cgil si pronuncerà sullo sciopero generale. Netto è anche il segretario Uil, Luigi Angeletti, che boccia la modifica annunciata da Renzi. «È inutile in termini di creazione di posti di lavoro». Una delle poche voci fuori dal coro è quella del direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci, «anche l’articolo 18 deve essere oggetto di una revisione, non deve essere il punto di partenza della discussione ma il punto di arrivo».


Repubblica 17.9.14
Maurizio Landini
Il segretario generale della Fiom “Pensare che la libertà di licenziare aumenti l’occupazione è una fesseria”
“Il blitz del decreto contro l’articolo 18 nasce dal diktat di Bce e Bruxelles”
di Paolo Griseri


TORINO L’abolizione del reintegro obbligatorio per i licenziamenti ingiusti? «Il governo deve scegliere: sta con gli italiani o si schiera contro di loro accettando i diktat della Bce?». Il leader della Fiom Maurizio Landini risponde così a quella che definisce «l’ingiustificata accelerazione del governo contro l’articolo 18».
Landini, perché parla di ingiustificata accelerazione?
«Perché l’abolizione dell’articolo 18 non era presente né nel programma di Renzi per la segreteria del Pd né nella delega al governo sulla riforma del mercato del lavoro».
Da dove nasce allora, secondo lei?
«Nasce dalla riunione dei ministri economici a Milano nei giorni scorsi e dalla pervicace volontà della Bce di continuare sulla strada sbagliata e fallimentare seguita in questi anni».
Dicono che l’articolo 18 non esiste in nessun paese d’Europa..
«Dicono una sonora stupidaggine. Provate a licenziare qualcuno senza motivo in Germania e vedete come va a finire. Prima devi trovare l’accordo del sindacato e poi quello di un giudice. Perché qui non si parla di licenziare le persone a causa della crisi. Quello succede già, come purtroppo abbiamo visto. Qui si tratta di licenziare senza alcun motivo e cavarsela con una multa».
Lei non crede che la libertà di licenziamento aumenterebbe l’occupazione?
«La maggior parte delle aziende italiane hanno meno di 15 dipendenti, dunque lì non si applica l’articolo 18. Quelle aziende hanno aumentato l’occupazione in questi anni? Ma per piacere.. Che cosa credono in Europa? Che gli italiani siano coglioni?».
Lei non crede al progetto del contratto a tutele progressive?
«Io penso che sia una proposta che vale la pena di essere discussa. Ma, appunto, devono essere tutele. Se io abolisco un diritto, le tutele diventano regressive. Se in fondo a un periodo di precarietà del contratto c’è l’arbitrio dell’azienda che ti può licenziare senza motivo, mi devono spiegare dove stanno le tutele progressive ».
Vi arroccate a difesa dell’esistente?
«Assolutamente no. Noi abbiamo proposte. Proponiamo di estendere a tutti la cassa integrazione facendo pagare anche le imprese sotto i 15 dipendenti. Proponiamo di ridurre le forme di contratto per evitare la giungla di oggi, di abbassare l’età pensionabile per fare posto ai giovani, di istituire una forma di reddito minimo legato alla disponibilità al lavoro».
Non crede che difendere l’articolo 18 possa impedire di sbloccare altre riforme che i sindacati chiedono da tempo?
«La riforma del mercato del lavoro va fatta tenendo conto che si interviene su una materia frutto di un secolo di lotte, di sacrifici e di conquiste. L’idea che tutto questo possa essere fatto semplicemente con un decreto, saltando il confronto con i sindacati mi sembra lunare».
Non è la prima volta che Renzi scavalca i sindacati...
«Qui però, con il decreto, scavalca anche il Parlamento».
Dica la verità: l’accelerazione sull’articolo 18 fa saltare l’asse Renzi-Landini?
«Non è un problema di assi o non assi, è un problema di coerenze. Comunque Renzi non può pensare di scambiare gli 80 euro in busta paga con l’abolizione dell’articolo 18 che gli chiede Draghi. Se questo è il pensiero del Presidente del Consiglio, credo che si sbagli di grosso e crei le premesse per uno scontro del quale il Paese non ha certo bisogno ».


Fassina
«Mi hanno colpito le omissioni. C’è un problema di linea»
intervista di F. Sch. La Stampa 17.9.14

«Renzi come Monti e la destra utilizza il termine apartheid per scaricare su padri sfigati il dramma del lavoro di figli ancora più sfigati», twitta subito dopo il discorso del premier alla Camera l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina. E ancora: «Renzi dice no a diritto del lavoro di serie A e B. Propone tutte lavoratrici e lavoratori in serie C».
Perché secondo lei propone la serie C per tutti?
«Eravamo partiti parlando di contratto a tutele crescenti ed estensione del sussidio di disoccupazione ai precari, e finiamo con l’emendamento Sacconi-Ichino che il governo si appresta a sostenere che cancella l’articolo 18 e lascia i contratti precari. E non c’è una lira per gli ammortizzatori sociali. Un livellamento verso il basso».
E’ sicuro che il governo voglia sostenere quell’emendamento?
«L’ha detto Renzi oggi (ieri, ndr.): quando parla di apartheid, quello è il lessico di Ichino».
Se quella è la direzione, l’area sinistra del Pd darà battaglia?
«Per quanto mi riguarda sì, non c’è dubbio. Il problema non è su una singola misura, ma una linea di politica economica».
Cos’altro l’ha colpita del discorso del premier?
«Mi hanno colpito e preoccupato le omissioni. Siamo in deflazione, ieri (lunedì, ndr.) sono usciti dati agghiaccianti dell’Eurozona e lui non ha detto una parola dell’agenda di politica economica».
Renzi ha minacciato il voto se non si fanno le riforme. Secondo lei pensa alle elezioni, come dice qualcuno?
«Non lo so. Ma so che il voto significherebbe una sconfitta per tutti, e in particolare per chi ha la massima responsabilità».


Stefano Fassina
“Inaccettabile un diktat sullo Statuto”
intervista di Alberto D'Argenio Repubblica 17.9.14

ROMA «Agire per decreto sullo statuto dei lavoratori è inaccettabile». Stefano Fassina (Pd) chiede al premier Matteo Renzi un confronto sulla riforma del lavoro dentro al Pd e nella maggioranza, respingendo l’idea di procedere d’urgenza su «una legge fondamentale».
Il premier afferma che se il Parlamento non fa le riforme si va al voto. Come risponde?
«Che le riforme dobbiamo farle bene e nel più breve tempo possibile perché è diventato stucchevole continuare a discuterne in termini generici. Le riforme possono essere di destra o sinistra, progressive o regressive, dobbiamo entrare nel merito e farle in fretta. D’altra parte andare al voto senza averle portate a termine sarebbe una sconfitta per tutta la classe politica, in particolare per chi ha maggiore responsabilità».
Cosa pensa della possibilità ventilata
di agire per decreto sul lavoro nel caso le Camere non fossero rapide?
«Il necessario compromesso all’interno della maggioranza va trovato in Parlamento, sarebbe inaccettabile un intervento per decreto sullo statuto dei lavoratori che è una legge fondamentale. Poi ovviamente c’è il merito: stiamo andando in direzione diametralmente opposta rispetto a quella sulla quale si era impegnato Renzi, andiamo verso una precarietà finalizzata a ridurre le retribuzioni per inseguire una impossibile competitività».
Il premier è sembrato mettere in discussione l’articolo 18.
«Appunto, il governo si era impegnato su un contratto unico a tutele crescenti che disboscasse la giungla di contratti precari e che finanziasse l’estensione dell’indennità di disoccupazione ai precari che oggi ne sono esclusi. Invece approdiamo all’emendamento Sacconi-Ichino che mantiene tutte le forme contrattuali precarie e cancella le tutele. È preoccupante che si continui a ritenere utile ai fini della ripresa l’ulteriore precarizzazione del lavoro quando ormai anche l’Ocse riconosce che il problema è la domanda aggregata ».
Come trovare un accordo se la distanza è tale?
«Nella veste di segretario del Pd Renzi ha proposto una direzione a fine mese su Legge di Stabilità e lavoro, spero sia un’occasione vera di discussione e ascolto, non il solito passaggio in streaming».
Altrimenti?
«Altrimenti produciamo un’agenda che non funziona, negli ultimi quattro anni abbiamo cambiato quattro governi conservando la stessa agenda, io vorrei conservare il nostro governo e cambiare l’agenda».

Fassina
“Renzi mi preoccupa. Parla con le parole della destra”
L'ex viceministro Pd. Tweet contro il presidente del consiglio: "Vuole lavoratori in serie C"
"No a colpi di mano per decreto. Piuttosto serve una manovra espansiva, da finanziare con uno sforamento controllato del deficit"
intervista di Antonio Sciotto il manifesto 16.9.14

«Il decreto è solo una minaccia? Direi di no, le parole di Renzi mi preoccupano. Mi preoccupa questa accelerazione di fronte a un Parlamento che sta cercando una soluzione. E l’indeterminatezza, la mancanza di informazione». Stefano Fassina, voce critica del Pd, fin da ieri mattina è stato durissimo con il presidente del consiglio. In un tweet ha sintetizzato la sua contrarietà ai progetti del premier sul Jobs Act: «Renzi dice no a un diritto del lavoro di serie A e B. Propone tutte lavoratrici e lavor- atori in serie C».
Gli ultimi dati Ocse, le sollecitazioni di Ue e Bce, gli scontri con Katainen. Un premier sotto pressione. Renzi ha trovato nel lavoro la risposta alla recessione.
Se questa è la risposta all’Europa, lo ritengo ancor più grave. Da sette anni applichiamo l’austerity
e come risultato abbiamo la recessione, la deflazione, i tagli alle politiche sociali, e il tutto con un aumento dei debiti pubblici. Renzi, insediandosi alla guida del semestre Ue, avrebbe dovuto chiedere un cambiamento di agenda, e non riproporre le solite ricette conservatrici.
Eppure il presidente del consiglio risponde a tono: lo ha fatto con Mario Draghi, di recente con Jyrki Katainen.
La sua è una retorica anti-establishment, ma poi applica l’agenda dell’establishment. A parte la misura in sé, proporre di riformare con decreto l’articolo 18, mi ha molto colpito il linguaggio con cui Renzi l’ha presentata. È quello della destra, di Sacconi e Ichino, di Mario Monti. Dire che c’è un apartheid tra lavoratori di serie A e serie B, accusando i primi dell’ingiustizia subita dai secondi,
è usare quello stesso impianto analitico. Cioè io dico all’operaio di 50 anni, che negli ultimi 20 ha perso reddito, tutele e in centinaia di migliaia di casi perfino il lavoro, che il suo articolo 18 è il motivo per cui suo figlio è precario. Trovo grave che il Pd possa ricorrere a parole mutuate dalla destra.
Anche nel merito, c’è una forte accelerazione, e pare nella direzione in cui vuole andare Sacconi. Che infatti ha apprezzato tantissimo il discorso di Renzi.
Renzi, sia come premier che come segretario, aveva proposto – a partire dal congresso Pd – il con- tratto a tutele crescenti, con l’idea che dopo i 3 anni di prova maturi il diritto al reintegro, l’articolo 18 completo. Adesso, dopo la liberalizzazione dei contratti a termine con la legge Poletti, e la sostanziale eliminazione dell’obbligo di conferma per gli apprendisti, arriviamo all’emendamento Sacconi-Ichino che cancella l’articolo 18. É evidentemente un’altra cosa rispetto alle proposte orig- inarie, che – lo ricordo – includevano anche la bonifica della giungla di contratti precari
e l’estensione degli ammortizzatori sociali agli atipici. Punti questi ultimi che non si vedono, tanto più a causa della situazione dei conti pubblici e visti i tagli annunciati.
E mentre si cercava un accordo in Parlamento, adesso l’idea di agire per decreto, spinti da un’urgenza. È soltanto una minaccia?
No no, non mi sembra solo una minaccia. E sono preoccupato: mi preoccupa che si voglia intervenite per decreto sullo Statuto dei lavoratori, mi preoccupa questa indeterminatezza dell’annuncio, l’assenza di informazioni. Mentre in Parlamento si stava lavorando per arrivare a un’intesa.
Ma cosa dovrebbe fare il governo per rilanciare la crescita? La manovra di 20 miliardi e il
«Jobs Act» sembrano l’unica risposta.
Io credo innanzitutto che non si risucirà a tagliare 20 miliardi: bisognerebbe intervenire in modo pesantissimo sulla spesa sociale, su scuola, sanità, pensioni. Credo sia difficile anche reperire 10 miliardi, sinceramente. Vedo piuttosto all’orizzonte una manovra di galleggiamento.
Quale sarebbe, invece, la manovra giusta?
L’unica che non ci deprimerebbe ancora, ma che ci faccia tornare a crescere: una manovra espansiva. Con misure una tantum: allentare il patto di stabilità degli enti locali per le piccole opere, varare interventi di contrasto alla povertà e all’evasione. Una politica industriale, con investimenti. E poi estendere gli 80 euro a pensionati e partite Iva.
Dove prendere le risorse? Un programma ambizioso, supererebbe i 20 miliardi.
È un piano da realizzare in un triennio: alcune misure sarebbero una tantum, quindi alla fine non pesano più sui conti. Nel frattempo hai aumentato il gettito perché la crescita è ripartita, e i redditi irrobustiti hanno alimentato i consumi. Bisognerebbe sforare il 3%, ma in modo controllato, motivato dall’emergenza, per poi rientrare nei binari.

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