sabato 18 ottobre 2014

250 anni di rivoluzioni industriali capitalistiche: il libro di Peter Marsh

Peter Marsh: Fabbricare il futuro, Codice edizioni

Risvolto
Peter Marsh, giornalista ed esperto di storia dell’industria, ripercorre i 250 anni nel corso dei quali l’avvento delle fabbriche ha cambiato le sorti dell’economia dei paesi più ricchi e ha di fatto dato forma al mondo come lo conosciamo oggi. Un viaggio affascinante, che esplora origini, sviluppi, inversioni di tendenza e periodi di crisi -come quello più recente, innescato dai meccanismi virtuali della politica e della finanza- e che ci accompagna sulla soglia dell’ultimo, forse più importante e complesso, balzo in avanti alimentato dalla tecnologia e dalla rete. Fabbricare il futuro offre una panoramica completa sulle rivoluzioni industriali passate, e un’analisi suggestiva dei fattori cruciali -e delle potenziali ripercussioni a livello globale- di una nuova era che oggi è alle porte.

Peter Marsh e il materiale del mondo nuovo 

Saggi . «Fabbricare il futuro» di Peter Marsh per Codice edizioni. Acciaio, chimica, cemento e energia sono ancora centrali in una rinnovata società industriale. Personalizzazione e innovazione sono le parole che spiegano gli attuali centri del potere economico

Benedetto Vecchi, il Manifesto 18.10.2014

Peter Marsh non è incline a sem­pli­fi­ca­zioni gior­na­li­sti­che, anche se è pro­prio lavo­rando al Finan­cial Times che ha accu­mu­lato gran parte dei dati che usa nei suoi libri sulla società indu­striale. Il primo ele­mento che mette subito sul tap­peto è la presa di distanza rispetto le tesi sull’avvento di una società postin­du­striale. L’industria con­ti­nuerà a svol­gere un ruolo fon­da­men­tale nella cre­scita eco­no­mica, afferma nel recente Fab­bri­care il futuro (Codice edi­zioni, pp. 350, euro 27). L’acciaio, il petro­lio, le auto­mo­bili, gli elet­tro­do­me­stici, il cemento, la pla­stica con­ti­nue­ranno a rap­pre­sen­tare com­po­nenti fon­da­men­tali delle atti­vità pro­dut­tive, men­tre il sili­cio, i micro­pro­ces­sori, il soft­ware sono fun­zio­nali alle inno­va­zioni senza le quali l’attività eco­no­mica rista­gna. È, que­sto di Marsh, un rove­scia­mento di pro­spet­tiva rispetto a quanti invece vedono nell’high-tech la via mae­stra per garan­tire lo svi­luppo del capi­ta­li­smo. Il pro­blema, però, non è se è domi­nante il «mate­riale» o l’«immateriale», quanto le pic­cole e grandi tra­sfor­ma­zioni che hanno inve­stito la pro­du­zione di valore. Chi lavora in una fab­brica di auto­mo­bili o in una accia­ie­ria, infatti, deve atti­vare atti­tu­dini, cono­scenze che non hanno a che fare con una abi­lità manuale, bensì con una dimen­sione cogni­tiva dif­fi­cile da stan­dar­diz­zare. Più o meno la stessa cosa che fa un col­letto bianco nel suo lavoro. 
Orto­dos­sia evoluzionista 

L’altro ele­mento, com­ple­men­tare al primo, è una visione evo­lu­zio­ni­sta dello svi­luppo indu­striale e eco­no­mico. Marsh fa infatti sua una pro­spet­tiva dar­wi­niana. Non è certo la prima volta che Dar­win viene usato in ambito di sto­ria eco­no­mica, ma col­pi­sce la sicu­rezza di Marsh nell’usare il les­sico dello scien­ziato per spie­gare come il grande disor­dine degli ultimi venti anni sia niente altro che la mani­fe­sta­zione di quella sele­zione natu­rale che ha visto soprav­vi­vere alcune imprese, per­ché capaci di adat­tarsi ai muta­menti dell’ambiente cir­co­stante, e la scom­parsa di altri pro­ta­go­ni­sti della società indu­striale per­ché inca­paci di inno­vare le loro imprese. Nes­suna con­ces­sione è fatta dun­que alla teo­ria degli «equi­li­bri pun­teg­giati» di Ste­phen Jay Gould e Niles Eldredge, secondo i quali, a lun­ghi periodi di sta­bi­lità, pos­sono seguire brevi periodi di cam­bia­menti repen­tini nell’evoluzione delle spe­cie. Una «revi­sione» della teo­ria dell’evoluzione che potrebbe essere usata pro­fi­cua­mente per spie­gare cosa è acca­duto nel regime di accu­mu­la­zione capi­ta­li­sta.
È dun­que chiaro che lo stu­dioso bri­tan­nico non è incline a pren­dere in con­si­de­ra­zione le teo­rie sul postin­du­striale o sull’«informazionalismo» molto pre­senti in ambito anglo­sas­sone. Già que­sto sgom­bera il campo di chi recen­te­mente ha asso­ciato il suo nome a quella nebu­losa chia­mata «Inter­net delle cose», quasi che fosse ful­mi­nato sulla via di Dama­sco, dive­nendo un seguace di chi vede nelle stam­panti 3d o nell’artigianato vir­tuoso e iper­tec­no­lo­gico dei makers il futuro dell’umanità. Peter Marsh con­ti­nua a pen­sare che sia l’impresa capi­ta­li­stica il fon­da­mento dello svi­luppo eco­no­mico. Non è tut­ta­via uno stu­dioso insen­si­bile alle tema­ti­che ambien­tali, ma ritiene che saranno pro­prio le imprese che riu­sci­ranno a pro­durre acciaio, auto­mo­bili, edi­fici inqui­nando di meno.
Insomma, Peter Marsh è uno stu­dioso «tra­di­zio­nale», a tratti «orto­dosso». Tali giu­dizi, tut­ta­via, indur­reb­bero a un errore di sot­to­va­lu­ta­zione del volume. Fab­bri­care il futuro è infatti un sag­gio impor­tante, non per il futuro che dovrebbe rive­lare, ma per la pano­ra­mica di quei cam­bia­menti che sono inter­ve­nuti negli ultimi decenni. 
Eccel­lenze planetarie 

In primo luogo, il declino degli Stati Uniti come unico cen­tro pro­pul­sivo dello svi­luppo capi­ta­li­stico. Per quanto riguarda alcuni set­tori pro­dut­tivi, le «eccel­lenze» vanno cer­cate oltre che negli Usa, anche in Giap­pone, Corea, Cina, Ger­ma­nia, Fran­cia. Signi­fi­ca­tive sono le pagine ini­ziali dove Marsh rac­conta la for­ma­zione del colosso dell’acciaio Arce­lor­Mit­tal. Di aned­doti e sulla pro­li­fe­ra­zione di imprese lea­der non sta­tu­ni­tensi è pieno il libro, sia che si parli di esca­va­trici, di auto­mo­bili, di hard­ware per com­pu­ter, di costru­zioni. Ma se la mappa dei cen­tri di potere eco­no­mico è estre­ma­mente diver­si­fi­cata rispetto cin­quanta anni fa, l’autore mette in evi­denza un feno­meno che molta reto­rica sul libero mer­cato tende a rimuo­vere, anzi ad occul­tare. L’emersione di altre potenze eco­no­mi­che su scala glo­bale è stata resa pos­si­bile da un pro­cesso di con­cen­tra­zione e fusione: il capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo è carat­te­riz­zato dalla pre­senza di oli­go­poli che ope­rano a livello glo­bale. Anche in que­sto caso è forte l’eco di una visione dar­wi­niana dell’attività eco­no­mica, in base alla quale solo i più «forti» soprav­vi­vono, con buona pace di chi auspica un capi­ta­li­smo basato solo su pic­cole, sep­pur dina­mi­che e inno­va­tive imprese.
L’oligopolio tende comun­que a isti­tuire situa­zioni di mono­po­lio, che viene ricer­cato attra­verso un pro­cesso con­ti­nuo di inno­va­zione. È pro­prio sulla pro­du­zione di inno­va­zione che il capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo pre­senta una «forma-impresa» che si dif­fe­ren­zia rispetto al pas­sato. Peter Marsh è attento a non sem­pli­fi­care le ten­denze in atto, ma il qua­dro che emerge dal volume pre­senta signi­fi­ca­tive ripe­ti­zioni e dif­fe­renze. La ripe­ti­zione sta nella cen­tra­liz­za­zione delle fasi di pro­get­ta­zione, ricerca e svi­luppo. Ogni impresa che com­pete sul piano glo­bale, oltre a man­te­nere le sue quote di mer­cato, ne deve «con­qui­stare» altre attra­verso pro­dotti per­so­na­liz­zati e di qua­lità. Il ricorso a pra­ti­che di outsour­cing delle fasi pro­dut­tive stan­dar­diz­zate è pro­pe­deu­tico a con­te­nere i costi di pro­du­zione, men­tre il con­trollo della qua­lità di attua nelle defi­ni­zione di rigidi stan­dard da rispet­tare. È que­sto il caso delle cosid­dette imprese design-only. Diverso è invece il caso delle factory-less (le fab­bri­che snelle), dove alcune fasi del pro­cesso lavo­ra­tivo sono ancora interne, come avviene nella mul­ti­na­zio­nale high-tech Cisco, pro­dut­trice di com­pu­ter per la con­nes­sione ad Inter­net e per la gestione di reti tele­ma­ti­che locali. L’innovazione, in que­sto caso, può con­tem­plare anche rap­porti di part­ner­ship tra com­mit­tenti e for­ni­tori, cosa invece non pre­vi­sta nell’altra tipo­lo­gia di impresa.
La sag­gi­stica ha più volte pro­vato a fare i conti con le imprese a rete, i clu­ster e le sil­ver com­pa­nies, ter­mini e espres­sioni che indi­cano le diverse tipo­lo­gie di un’impresa che opera glo­bal­mente e che orga­nizza e governa una rete pro­dut­tiva dis­se­mi­nata su scala pla­ne­ta­ria. Orga­niz­za­zione e governo che fanno leva su una dimen­sione con­trat­tuale dove, c’è da aggiun­gere, le norme sulla pro­prietà intel­let­tuale svol­gono il ruolo di defi­nire il regime di subal­ter­nità alla «impresa madre» dei nodi pro­dut­tivi coinvolti. 
Oltre Henry Ford 

Tutto ciò è fina­liz­zato alla gestione del supe­ra­mento della pro­du­zione di massa e a una per­so­na­liz­za­zione, più o meno radi­cale, dei pro­dotti. Senza un bri­ciolo di iro­nia, Marsh scrive che è finita l’era scan­dita dal motto di Henry Ford quando par­lava della libertà dei con­su­ma­tori nello sce­gliere il colore del modello T della sua fab­brica auto­mo­bi­li­stica: «pos­sono sce­gliere il colore che vogliono, basta che sia il nero!». La nuova rivo­lu­zione indu­striale in atto è dun­que quella basata sull’innovazione, sul just in time, la per­so­na­liz­za­zione dei pro­dotti e, va aggiunto, su un qua­dro geo­po­li­tico e eco­no­mico che vede la fine dell’egemonia sta­tu­ni­tense nel capi­ta­li­smo, anche se ancora adesso le uni­ver­sità sta­tu­ni­tensi sono i cen­tri nevral­gici, dalla fisica alla chi­mica, alla bio­lo­gia, della ricerca scien­ti­fica di base.
Non c’è dun­que un futuro pros­simo da rac­con­tare, bensì un vischioso pre­sente che può risul­tare come un maga­zine pati­nato se viene omessa la crisi che, da ormai otto anni, sta ricon­fi­gu­rando il capi­ta­li­smo. Crisi che Peter Marsh non con­tem­pla nella sua appunto pati­nata let­tura della società industriale.

Nessun commento: