SAN FRANCISCO “LO STUDENTE CHE CAMBIÒ IL MONDO ” oggi avrebbe
settantadue anni. Avrebbe potuto diventare un grande leader politico, ma
non volle: la vita pubblica gli avrebbe richiesto troppi compromessi;
quella privata fu fin troppo tormentata. Morì giovane, per un infarto, a
soli cinquantaquattro anni. Si chiamava Mario Savio e il primo ottobre
1964 all’università di Berkeley — cinquant’anni fa — diventò il simbolo
genuino e quasi involontario di un movimento degli studenti che sarebbe
poi esploso in tutto il mondo quattro anni dopo, nello storico 1968. Ed
ecco come andò la storia. Siamo nell’autunno del 1964, nel campus di
Berkeley, la più antica delle università statali della California, nella
baia di San Francisco; l’anno che si avvia a finire è un concentrato di
contraddizioni americane. John Kennedy è stato ucciso da appena dieci
mesi, il repubblicano Barry Goldwater — uno che vede comunisti
dappertutto e vorrebbe tirare la bomba atomica su Mosca — sfida il
democratico texano Lyndon Johnson per diventare presidente. I ragazzi
americani cominciano a morire in numero allarmante in un lontano posto
chiamato Vietnam; nel Mississippi e in Alabama strani pastori battisti
marciano chiedendo la fine della segregazione razziale e la televisione
mostra immagini di attivisti picchiati, derisi, e qualche volta uccisi.
Berkeley è il più grande campus della California, ventimila studenti
bianchi, figli della nuova middle class. Di loro si dice che sono stati
concepiti tra l’entrata in guerra e la prima licenza del coscritto. Le
ragazze hanno i capelli cotonati; occhiali di celluloide e camicia
bianca per i maschi. Ci sono anche i primi gruppi politici del post
maccartismo, che fanno propaganda alle più svariate cause; chiedono di
poter svolgere liberamente l’attività politica dentro il campus, in
particolare nella Sproul Plaza, il luogo di incontro studentesco su cui
si affacciano biblioteche, laboratori, uffici, il teatro. Ma il rettore,
Clark Kerr, è uno dalle idee chiare: niente volantini, niente raccolta
di fondi, niente comizi con megafoni. Per il rettore Kerr, «le idee
devono restare fuori dal campus, l’università è una fabbrica e serve a
riempire le teste vuote, per farle lavorare per il sistema». Il rettore
autorizza la polizia a circolare nel campus per garantire che la nuova
classe dirigente non venga a contatto con idee strane.
Il primo ottobre la polizia ferma uno studente, Jack Weinberg, che ha
allestito un tavolino da cui pubblicizza l’attività del CORE, il gruppo
politico che si batte per il diritto al voto dei neri negli stati
segregati del sud. Weinberg si rifiuta di dare i documenti, la polizia
lo chiude in macchina, una folla di studenti accorre a proteggerlo. Ed
ecco che uno sconosciuto studente si fa avanti. Alto, magrissimo,
capelli a cespuglio, occhi azzurri, si toglie le scarpe «per non
danneggiare una proprietà dello Stato» e sale sul tettuccio
dell’automobile della polizia. Si chiama Mario Savio, viene da New York,
figlio di emigrati siciliani. Rivendica il diritto degli studenti a
parlare, scandisce « free speech! », invita gli studenti a resistere, ad
opporre il proprio corpo al sopruso, «in modo non violento, ma con
dignità». La trattativa, con Weinberg chiuso in macchina e i poliziotti
intorno, durerà trentadue ore (!) fino a quando il rettore accetta di
liberarlo. Ma non torna sui suoi passi sui divieti e la polizia diventa
ospite fisso del campus.
Il 2 dicembre quattromila studenti si ritrovano di nuovo nella Sproul
Plaza e di nuovo quello studente, Mario Savio, prende il microfono.
Questa volta pronuncia il breve discorso che resterà nella storia della
grande oratoria americana. Non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi:
“Il rettore ci ha detto che l’università è una macchina; se è così,
allora noi ne saremo solo il prodotto finale, su cui non abbiamo diritto
di parola. Saremo clienti — dell’industria, del governo, del sindacato…
Ma noi siamo esseri umani! Se tutto è una macchina, ebbene… arriva un
momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti
fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure
passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli
ingranaggi, sulle leve, sull’apparato, fermare tutto. E far capire a chi
sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché
non saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare”.
Tutti i ragazzi che ascoltarono (la scena si può vedere oggi in tutto il
suo pathos sulla Santa You Tube) furono rapiti dalla passione, dalla
semplicità e dalla forza morale del discorso (anni fa, una testimone
oculare mi disse. «Mario sembrava Mosè e noi di fronte al Mar Rosso»).
Partì un corteo, guidato dalla cantante Joan Baez che cantava We shall
overcome . La polizia, schierata in forze, eseguì 792 arresti, gli
studenti vennero portati in varie prigioni della California. Con gli
studenti in carcere, il Free Speech Movement ottenne però la sua prima
vittoria, quando il Senato accademico di Berkeley votò a stragrande
maggioranza la libertà di parola e di propaganda nel campus. Il
movimento presto dilagò in tutte le università americane, diventando la
spina dorsale del movimento contro la guerra in Vietnam, e la forza
fresca delle idee di giustizia sociale.
Mario Savio diventò così la prima icona politica degli anni Sessanta, il
suo simbolo libertario: poter parlare liberamente, ribellarsi
all’autorità ottusa. Con Mario Savio risbocciarono due protagonisti:
l’università, un po’ Alma Mater, ma anche luogo dell’inquietudine, e lo
Studente, immaginario e reale, come la principale forza di contestazione
della società. Gli emuli di Savio saranno tantissimi in tutto il mondo
e, in qualche modo, anche il ragazzo di Tien An Men che si mette davanti
al carrarmato (usare il corpo per fermare gli ingranaggi del potere) è
un po’ figlio suo.
Ma chi era quel ragazzo col megafono? I giornali lo fecero diventare
immediatamente una star, l’Fbi lo etichettò (e lo vessò per vent’anni)
come spia comunista, gli stessi movimenti di sinistra lo guardavano come
un animale non ortodosso. Mario Savio, però, non apparteneva a un
cliché; era piuttosto il frutto del melting pot newyorchese. Primo nato
in America della famiglia, cresciuto in una casetta nel quartiere di
Queens, con un nonno (don Peppino) emigrato da Santa Caterina
Villermosa, provincia di Caltanissetta, ammiratore di Mussolini; il
padre, operaio in fonderia, che aveva servito con l’esercito americano
proprio in Sicilia e che litigava continuamente con il nonno, la mamma
silenziosa. Il ragazzo Mario serviva messa in parrocchia e veniva preso
in giro a scuola per quel nome e cognome con così tante vocali e perché
balbuziente; a quindici anni si scoprì un piccolo genio della fisica
(aveva scoperto un errore nelle tabelle della Marina americana sulla
propagazione del suono in acque profonde, aveva mandato il suo lavoro
alla Westinghouse, che lo aveva premiato con una borsa di studio) e così
era arrivato a Berkeley.
Mario a quel punto aveva maturato dubbi su molte cose. Sulla Chiesa (non
era più cattolico praticante), sulla giustezza di quanto gli avevano
insegnato nelle esercitazioni a scuola: era proprio vero che sarebbe
bastato rannicchiarsi, mettersi la maschera antigas e respirare contro
vento per salvarsi dalla bomba atomica? Sulla guerra appena finita: come
era stato possibile che il popolo tedesco non sapesse niente
dell’olocausto? Mario Savio — che fu sempre di poche parole e non lasciò
scritti importanti — si descrisse così parecchi anni dopo essere
diventato una star: «Un membro della prima generazione che si conquistò
il diritto di vedere le cose». Queste idee lo portarono, nelle estati
universitarie, prima ad aiutare i poveri in un paese messicano, poi a
cercare di organizzare il voto dei neri nel Mississippi. Fu quest’ultima
esperienza, durante la quale fu arrestato e picchiato, a segnarlo.
Disse, «ho visto che cosa è l’ingiustizia e che cosa è la tirannia». E,
tornato al campus, aveva concluso: «Mi sentirei un Giuda se dopo essere
stato in Mississippi a spingere i neri a lottare per i propri diritti,
non facessi lo stesso per i diritti degli studenti violati dal rettore».
Il ragazzo che l’Fbi considerava uno dei dieci uomini più pericolosi
d’America scomparve quasi subito dalla scena. L’università di Oxford in
Inghilterra gli offrì un insegnamento, ma in Inghilterra Mario non si
trovò bene. Tornò a San Francisco, lavorò come bibliotecario, si
presentò senza successo alle elezioni del Senato della California con il
partitino “Pace e libertà”, insegnò fisica e letteratura. Mille persone
commosse, a Berkeley, lo ricordarono quando morì nel 1996. Altri, nella
baia di San Francisco, erano diventati, nel frattempo, capi di
movimenti, in qualche modo figli del suo esempio. Harvey Milk, che per
primo al mondo aveva fatto vedere che si poteva essere eletti a una
carica pubblica, in quanto omosessuale. Steve Jobs, studente fallito,
aveva fatto vedere che si poteva, in un garage, sfidare il monopolio
della Ibm. A Mario, quando morì, intitolarono un grande bar nel campus —
dove sono le gigantografie in bianco e nero del Free Speech Movement —
una targa dove fece il famoso discorso e un monumento nella via
principale della città. Ma Berkeley, come tutto, è cambiata. Ci sarà un
ciclo di conferenze per ricordare Savio. Uno studente ha chiesto «dove
trovo il programma?» e quando gli hanno detto: «là, sul tavolo, c’è un
volantino», ha guardato storto. «E cos’è un volantino?». Nessuno usa più
i volantini; d’altra parte i vecchi volantini e i muri dei dormitori
dove gli studenti pinzavano bigliettini con i loro desideri, sono stati
lo spunto per la costruzione di Facebook.
I trentaseimila studenti di Berkeley sono oggi in maggior parte asiatici
e il campus è quieto. Savio aleggia, quasi sconosciuto, come un buon
papà del secolo scorso. L’università — tutte le università, verrebbe da
dire — da tempo non sono più il centro della contestazione. La libertà
di parola è un diritto acquisito. Anzi, ce n’è fin troppa. —
Appuntamenti per il 2 dicembre, a cura del circolo Mario Savio. Ore 17,
corso sulla Sproul Plaza per imparare a cantare in coro canzoni di
protesta e gospel. Ore 21, conferenza in sostegno ai lavoratori dei fast
food in lotta per l’aumento della paga minima oraria.
Berkeley, radici libertarie
La rivolta degli studenti del «Free Speech Movement» era l’espressione di una società inquieta che si interrogava sulle contraddizioni del Paese più ricco del mondo
2 nov 2014 Il Sole 24 Ore Di Massimo Teodori
«La rivolta degli studenti dell’università di Berkeley, California,
dell’ottobre 1964 segnò una svolta per i movimenti di contestazione
negli Stati Uniti e un esempio per i giovani occidentali che si
mobilitarono nel turbolento decennio. Quando sulla piazza del campus la
polizia arrestò l’attivista Jack Weinberg che aveva aperto senza
autorizzazione un tavolino di propaganda sui diritti civili, centinaia
di studenti si sdraiarono intorno all’auto che racchiudeva l’arrestato
impedendone i movimenti mentre un altro studente, Mario Savio, arringava
la folla. Era il segno della rivolta per la "libertà di parola» – il
Free Speech Movement – che in qualche modo riecheggiava la disobbedienza
civile di Henry D. Thoreau. Ma dietro la richiesta dell’agibilità
politica nell’università, covava un più profondo conflitto: da una parte
l’establishment che concepiva l’educazione funzionale allo status quo, e
dall’altra la parte attiva degli studenti
che rifiutava un’università separata
dalla società come sede critica per una diversa America. Dopo un braccio
di ferro di alcuni mesi, gli studenti la ebbero vinta: il 4 gennaio
1965 sul campus si tenne il primo comizio legale a cui fecero seguito
molteplici attività tese a saldare vita accademica e diritti del
cittadino sullo sfondo di un Paese in trasformazione.
Alle spalle della prima grande contestazione universitaria d'America
v'erano state molteplici iniziative giovanili quali segno di una società
inquieta che si interrogava sulle contraddizioni della più ricca
nazione del mondo sviluppatasi nel dopoguerra, l’"l’età del
conformismo". Negli Stati del sud il movimento dei diritti civili di
Marthin Luther King, aveva combattuto la dura battaglia
antisegregazionista con la partecipazione dei giovani bianchi del nord; a
San Francisco dove si davano convegno i ribelli della Beat Generation,
gli studenti dei college della Baia avevano dimostrato contro il
"Comitato della Camera sulle attività antiamericane" che indagava sui
dissidenti politici, una sorta di coda del maccartismo; e in alcune aree metropolitane del
nord, Chicago ad esempio, gli studenti avevano dato vita al lavoro
sociale nelle comunità dei poveri dopo la pubblicazione nel 1963 del
libro di Michael Harrington, L’altra America. La povertà negli Stati
Uniti che rivelava l’esistenza, dietro la facciata dell’opulenza, di sacche sparse
nel Paese di alcune decine di milioni di poveri. Dunque, la rivolta di
Berkeley rappresentava l’approdo di movimenti alternativi alla politica
ufficiale che, con la presidenza di Lyndon Johnson, non contavano più
sul presiro. La domanda che gli autori si pongono con malcelata
indignazione è perché il "modello" di Ponte nelle Alpi non venga
"copiato" dal resto del Paese.
Il settore agricolo è l’unico che sta reggendo nell’attuale crisi.
Eppure è nell’economia della terra che si stanno registrando i fenomeni
criminosi più consistenti. Ce ne dà puntualmente conto il secondo
rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto intitolato Agromafie e
Caporalato ( Ediesse, pagg. 444, € 15,00), nel quale vengono analizzati
con numeri e fatti circostanziaSinistra che si sarebbero sviluppate
lungo l’intero decennio. Soprattutto, nel campus californiano
d’avanguardia si rianimava la tradizione libertaria che poteva
considerarsi erede dei principi fondativi della Dichiarazione di
Indipendenza degli Stati Uniti (1776): "Noi riteniamo che… tutti gli
uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro creatore di certi
inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al
perseguimento della facilità… e che ogni qual volta una forma di governo
tende a distruggere questi fini è diritto del popolo modificarla o
abolirla e istituire un nuovo governo, fondandolo sui principi e
organizzandone i poteri nel modo che gli paia più conveniente a
realizzare la propria sicurezza e felicità".
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