domenica 12 ottobre 2014

Guerra Fredda culturale: gli analisti occidentali e il neoconfucianesimo in Cina


Strategie culturali e controllo politico

Ma il power non è così soft
Gli Istituti Confucio, nati per divulgare la lingua e la cultura cinesi all'estero, si rivelano strumenti di propaganda

di Maurizio Scarpari Il Sole Domenica 12.10.14

«La Cina deve migliorare la propria conoscenza del mondo, così come il mondo deve migliorare la sua conoscenza della Cina», ha affermato a novembre dell'anno scorso Xi Jinping in occasione dell'investitura a segretario generale del Pcc. Per costruire un mondo armonioso, ha spiegato in seguito, è necessario promuovere gli scambi tra civiltà, favorire la conoscenza reciproca e il dialogo tra i popoli: «La cultura è l'anima di una nazione, senza di essa il popolo perde la sua identità e il Paese è destinato al tracollo», ha esordito pochi giorni fa davanti a centinaia di professori di tutto il mondo riunitisi in convegno a Pechino per celebrare il 2565º anniversario della nascita di Confucio, sottolineando l'importanza che l'attuale dirigenza attribuisce alla cultura tradizionale e ai valori confuciani, tasselli importanti per la costruzione di una moralità socialista nuova, in grado di riempire il vuoto spirituale ed esistenziale avvertito da gran parte dei cinesi.
La necessità di migliorare l'immagine della Cina all'estero, rendendola più rassicurante, è una delle priorità del governo e gli Istituti Confucio (Ic), nati nel 2004 con l'obiettivo di divulgare la lingua e la cultura cinesi, sono uno strumento essenziale di questa politica. Gli Ic sono gestiti e finanziati dallo Hanban, istituzione governativa diretta per lo più da rappresentanti di diversi ministeri e commissioni ministeriali. L'attuale direttrice, Xu Lin, è viceministro dell'Educazione e membro del Consiglio di Stato. Non si tratta quindi di centri indipendenti, ma di un'emanazione diretta del governo. Diversamente da quanto accade per il British Council, il Goethe Institut o l'Alliance Française gli Ic nascono da un consorzio tra università cinesi e straniere; ed è all'interno di queste ultime che hanno in genere le loro sedi istituzionali.
La mancanza di autonomia politica e l'incardinamento all'interno delle università o dei centri di istruzione superiore hanno creato, fin dalla loro nascita, diffidenze, resistenze e non poche polemiche, anche in Cina. Le restrizioni imposte su temi delicati – quali i diritti umani, la questione tibetana, la posizione del Dalai Lama, Taiwan – hanno alimentato i sospetti che siano centri di propaganda politica, organizzazioni per il controllo dei cinesi all'estero, agenzie di intelligence. Per salvaguardare la propria libertà di pensiero e di azione molte università si sono rifiutate di aprire Ic al loro interno, altre invece si sono consorziate, attratte dai generosi finanziamenti e privilegi che hanno favorito l'accettazione di standard culturali codificati, un atteggiamento di sudditanza psicologica e una tendenza all'autocensura. Attualmente gli Ic sono 465, presenti in 123 Paesi; in Italia sono una decina.
Il dibattito sulla loro gestione, avvenuto sulla stampa e sui blog di mezzo mondo, ha portato alla firma di petizioni e alla recente presa di posizione della Canadian Association of University Teachers (dicembre 2013) e dell'American Association of University Professors (giugno 2014), che conta oltre 47mila iscritti. Unanime è stata la richiesta di allontanare gli Ic dai campus universitari in nome della libertà accademica. A fine settembre, con una decisione che ha suscitato grande scalpore nel mondo accademico internazionale, l'Università di Chicago ha chiuso il suo Ic. Pochi giorni fa è stata la volta dell'Università Statale della Pennsylvania ed è facile prevedere che non è finita qui.
A fine luglio la polemica è esplosa anche in Europa, in occasione del convegno della European Association for Chinese Studies organizzato in Portogallo, a Braga, in collaborazione con l'Ic locale, quando la direttrice dello Hanban si è resa protagonista di un atto di arroganza. Resasi conto che il programma, approvato a suo tempo dallo Hanban, riportava «la sintesi di interventi il cui contenuto è contrario alla normativa cinese» e che troppo spazio era stato concesso alla Chiang Ching-kuo Foundation (l'ente taiwanese che da 25 anni promuove la cultura cinese nel mondo e che da 20 è sponsor dell'Associazione), ha requisito le copie del programma stesso, redistribuendole il giorno successivo private di quelle pagine ritenute lesive dell'immagine della Cina Popolare. È stato interpretato come un atto prepotente da parte della dirigente di un'istituzione che, evidentemente, ritiene di essere la legittima depositaria del sapere e del l'identità culturale cinesi e di potere agire a suo piacimento anche al di fuori del suo Paese. Azione da ritenersi ancor più grave se si considera la sua carica di viceministro. 
All'indignazione dei circa 400 professori presenti ha fatto seguito la ferma reazione del presidente dell'Associazione, il professor Roger Greatrex dell'Università di Lund, che ha denunciato pubblicamente l'accaduto come un'inaccettabile violazione della libertà accademica.
Il gesto di Xu Lin sembra andare in direzione opposta a quanto auspicato da Xi Jinping e certo non favorisce l'affermarsi di un'immagine soft della Cina, mettendo a nudo il punto debole del progetto cinese: la cultura non è infatti un bene esportabile come mille altre mercanzie, non può essere imbrigliata, né obbligata a sottostare a condizionamenti dettati dalla linea politica del momento. La libera circolazione delle idee, sosteneva Kant, è il fondamento della conoscenza, senza di essa non ci sarà mai emancipazione.
Università Ca' Foscari Venezia


Lettera da Hangzhou


Neo-Confucio alla conquista
L'imprenditore Tu Weiming, uno degli uomini più ricchi della Cina, propone il recupero di un'eredità antica e insiste sul ruolo delle tradizioni religiose e spirituali

di Luca Maria Scarantino Il Sole Domenica 12.10.14

Ci è voluto un po' per capire che in Cina sta accadendo qualcosa di grosso. Quando il nostro interlocutore, un ricchissimo uomo d'affari di Hangzhou, ci ha accolto a casa sua, si è presentato come un «imprenditore confuciano». È qui, nella ricca provincia dello Zhejiang, che ha creato l'accademia di scienze umane di cui siamo ospiti. «Sento che contribuire a diffondere la cultura cinese è un mio preciso dovere», ci ha detto. «Per questo investo una parte dei miei guadagni in attività culturali». È solo qualche giorno dopo, a Pechino, che Tu Weiming ci aiuta a chiarire il senso di queste parole. Tu non è un intellettuale qualunque. Cresciuto a Taiwan, ha insegnato a Princeton, Berkeley, Harvard. È tornato in Cina da poco: il governo cinese gli ha offerto di creare un centro internazionale di scienze umane all'Università di Pechino. Questo anziano professore è una delle voci della cultura cinese più ascoltate sulla scena internazionale.
«L'imprenditore confuciano – ci spiega – non si limita ad accumulare ricchezze per sé, ma si impegna nel dibattito pubblico e svolge quindi una funzione intellettuale. È, potremmo dire, un imprenditore impegnato». Secondo Tu, questo ruolo pubblico è necessario per introdurre una dimensione spirituale nella vita sociale ed economica. È questa stessa preoccupazione che lo spinge a difendere un nuovo confucianesimo: fare argine al materialismo sfrenato, egoistico, del mondo contemporaneo. «Quando tornai in Cina per la prima volta, nel 1985, l'idea di una filosofia confuciana era quasi sconosciuta: l'ultimo corso universitario risaliva al 1923. In quell'occasione ebbi la fortuna di incontrare Liang Shuming, che era stato l'ultimo a parlarne, esattamente 62 anni prima. Lo stesso valeva per le altre due grandi tradizioni spirituali della Cina, il buddhismo e il taoismo. Oggi le cose sono cambiate: nessuna di queste tradizioni è estranea alle giovani generazioni. Il mio lavoro, in America, in Cina, con le Nazioni Unite, è stato in gran parte rivolto a metterne in risalto l'importanza per la cultura e la società cinese, e più in generale per l'umanità». Mentre parla, ci sembra di sognare. In un Paese ancora ufficialmente marxista, in cui tutto è in mano al Partito, Tu Weiming propone il recupero di un'eredità neo-confuciana e insiste sul ruolo delle tradizioni religiose e spirituali nella vita delle società. Ascoltandolo, ancor prima che leggendo i suoi libri, si intuisce la portata esplosiva di questo misto di tradizionalismo e modernità. La way of life americana viene presa di mira a partire dai più classici valori della tradizione culturale cinese. La Cina, la sua classe dirigente, la sua società, hanno un bisogno vitale di riconoscimento. È per questo che stanno investendo risorse colossali in «infrastrutture immateriali»: centri di ricerca, programmi di rientro di ricercatori, scambi accademici, senza contare la rete ormai capillare degli Istituti Confucio.
Ma c'è di più. «La religione, la filosofia, più in generale l'impegno rivolto verso gli altri, ci aiutano ad andare oltre il gretto antropocentrismo. Non possiamo vivere esclusivamente in funzione del nostro io materiale. Il mondo ha bisogno di essere governato tenendo conto di altri valori: pensiamo all'ambiente, al nostro rapporto con gli altri esseri viventi, al futuro stesso del pianeta e alla ripartizione delle sue risorse. Invece continuiamo a usare il Pil come indicatore del nostro benessere: mentre è proprio la cultura del Pil che dobbiamo superare».
Per l'immagine della Cina che viene spesso presentata in Europa, sono discorsi da fantascienza. La Cina e la sua cultura come alfieri di un rinnovamento ecologista, altruista, come portatori di un modello di sviluppo che si opponga allo sfrenato individualismo capitalista... La Cina, insomma, come contraltare non solo economico dell'impero americano, ma culla di un modello di convivenza alternativo, valido per uomini e donne del mondo intero; a cominciare dall'occidente. Certo, la cronaca quotidiana ci rivela che questa è solo una parte della storia, e contiene una buona dose di utopia. Ma sarebbe un errore sottovalutarne la forza e la capacità di muovere forze intellettuali, sociali e politiche nella Cina di oggi. Forse è ancora presto per dire che la Cina si sta spostando dal marxismo al neoconfucianesimo, ma di certo qualcosa si sta muovendo in questa direzione.
C'è un altro aspetto del neoconfucianesimo di Tu Weiming che ne fa un volano efficace per la Cina di domani. «Gli intellettuali cinesi, i professori universitari ad esempio, dovrebbero iniziare a partecipare in modo più attivo al dibattito pubblico. Invece scontano ancora una certa timidezza. La posta in gioco è decisiva per il futuro di questa nazione: si tratta di decidere come la Cina veda se stessa e come desideri essere percepita dal resto del mondo. Per questo credo che ci si debba impegnare per un dialogo sempre più profondo con le altre culture e le altre civiltà. La Cina deve sforzarsi di comprendere il mondo, e il mondo deve imparare a capire la Cina». È l'ossessione cinese per il soft power, il convincimento che la cultura, e la cultura umanistica in particolare, rappresenti uno strumento decisivo per affermarsi nel mondo. Per questo Tu insiste sull'esigenza di un «nuovo umanesimo», universale e aperto a tutte le culture: è la forza delle humanae litterae, delle arti, senza le quali nessuna civiltà è mai riuscita a emergere. Nel suo Centro, egli ha dato uno spazio preponderante allo studio comparato delle filosofie e delle religioni. Le tristi amministrazioni dell'Europa di oggi sembrano aver dimenticato questo fatto elementare. Chissà, forse il problema è più profondo e investe il modo in cui le società europee si percepiscono. Le humanae litterae sono per le società in espansione, non per quelle che si sentono a fine corsa. Intanto, a Pechino ci si prepara per diventare leader culturali nel mondo di domani; o forse già di oggi. Qualche giorno prima, al Forum di Songshan, una sorta di Davos della cultura cinese di cui Tu è l'iniziatore, una giovane giornalista mi ha chiesto perché alcune mode culturali si impongano più facilmente di altre. Stava pensando al proliferare di J- e K-style, la moda di molti giovani asiatici calcata su modelli giapponesi e coreani. Il senso della sua domanda era chiaro: come si fa a esportare mode culturali, artistiche, musicali? È questo che le interessa. Lei e i leader cinesi sanno benissimo che, al di là di rigidità ideologiche cui non crede più nessuno, c'è tutta una generazione di intellettuali al lavoro per rendere la cultura cinese attraente, seducente, "esportabile". A Hangzhou, il nostro imprenditore confuciano è stato inserito da «Forbes» nella classifica degli uomini più ricchi del Paese. Quando ha creato la propria accademia, ove invita intellettuali e studiosi di tutto il mondo, è a Tu Weiming che ha chiesto di presiedere il comitato scientifico. Il neo-confucianesimo non è l'unico modello di sviluppo nella Cina di oggi, ma incrocia a meraviglia le esigenze del soft power cinese.
L'autore è segretario generale della Federazione internazionale delle società filosofiche

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