giovedì 9 ottobre 2014

Italo Calvino in America

Un ottimista in AmericaItalo Calvino: Un ottimista in America, Mondadori

Risvolto
«Negli Stati Uniti sono stato preso da un desiderio di conoscenza e di possesso totale di una realtà multiforme e complessa e "altra da me", come non mi era mai capitato. È successo qualcosa di simile a un innamoramento. Tra innamorati, come è noto, si passa molto tempo a litigare; e anche adesso che sono tornato, ogni tanto mi sorprendo mentre tra me e me sto litigando con l'America; ma a ogni modo continuo a viverci dentro, mi butto avido e geloso su ogni cosa che sento o leggo di quel paese che pretendo d'esser solo io a capire». Al ritorno dal suo primo viaggio americano, durato dal novembre del 1959 al maggio del 1960, Italo Calvino decide di rielaborare il diario con cui ha tenuto al corrente delle sue «avventure» gli amici einaudiani: intende farne un libro «come i Viaggi di Gulliver», dichiara. «Partendo per gli Stati Uniti, e anche durante il viaggio, spergiuravo che non avrei scritto un libro sull'America (ce n'è già tanti!). Invece ho cambiato idea. I libri di viaggio sono un modo utile, modesto eppure completo di fare letteratura. Sono libri che servono praticamente, anche se, o proprio perché, i paesi cambiano d'anno in anno e fissandoli come li si è visti se ne registra la mutevole essenza; e si può in essi esprimere qualcosa che va al di là della descrizione dei luoghi visti, un rapporto tra sé e la realtà, un processo di conoscenza». Un ottimista in America racconta proprio «un processo di conoscenza». Incontri, impressioni e riflessioni mettono a fuoco il mito americano, soprattutto dal punto di vista antropologico: la mentalità dei singoli e la società che ne deriva. Il calibratissimo montaggio dei capitoli segue le tappe della scoperta del «paese degli uomini che hanno scelto la geografia e non la storia»; il viaggio inizia e finisce a New York, «città impregnata di elettricità» che conquista Calvino «come una pianta carnivora assorbe una mosca». Il suo sguardo prefigura qua e là quello del signor Palomar: «la coda bassa e larga di certe auto s'inarca nel bordo superiore come una sottile e falcata linea di sopracciglia e, sotto, i fari sono due enormi oblunghi dardeggianti hollywoodiani occhi di diva»; «il colore dell'America è il color parcheggio: una speciale mescolanza di celeste e grigio e rosa e verdolino, cioè le tinte pastello delle distese d'automobili sotto il sole». In Un ottimista in America, Calvino racconta il presente della società americana – la rivolta dei neri e Martin Luther King, i beatniks e i sindacati, l'invasione dei portoricani, l'Actor's Studio, gli indiani nelle riserve, la borsa elettronica di Wall Street, le diverse confessioni religiose – e annota abitudini o dettagli destinati a segnare il futuro della vecchia Europa: donne che «hanno la possibilità di scegliere il cavaliere e il marito e di cambiarlo, di non restare mai a cenare a casa sole»; cambiamenti dell'editoria: «Nelle stazioni delle autostrade, i bar vendono anche libri. Accanto a ogni banco di cafeteria c'è l'edicola rotante dei paperbacks»; novità come i computers, le carte di credito e la televisione a colori; il paesaggio urbano con i supermarkets, «cattedrali» della civiltà del consumo, e «il nodo di autostrade cui sempre si giunge nelle vicinanze delle città». «E dall'aereo, guardando terra, cosa vedi? Pollock, sempre Pollock».

Calvino folgorato sulla strada di Manhattan
Esce per la prima volta come libro singolo Un ottimista in America, diario del viaggio nel ’59

di Ernesto Ferrero La Stampa 9.10.14
Ai primi di novembre del 1959 il trentaseienne Italo Calvino parte per l’America con una borsa della Ford Foundation per giovani scrittori europei. Si pente subito d’aver preso la nave, pretenziosamente nuova, ma popolata di gente «antiquata, vecchia e brutta». Si ricompensa con l’emozione dell’arrivo a New York, «la più spettacolare visione che sia data di vedere su questa terra». Ci rimane due mesi. Lì realizza quella che è la vera vocazione del Barone Rampante: osservare il mondo da una posizione defilata, studiare le differenze senza essere visto, meravigliosamente incognito. Si sbottona: «E’ l’unico posto in cui posso far finta di risiedere», una città «geometrica, cristallina, senza passato, senza profondità, che posso illudermi di padroneggiare con la mente, di pensarla tutta intera nello stesso istante». Il viaggio prosegue verso Chicago, Detroit, la California, il Texas, il Sud. Forse il vero paesaggio dell’America è la piatta e squallida Los Angeles, «città fatta di mille periferie», o la dura Chicago materiale e produttiva.

Com’è sua abitudine, Calvino cerca di capire dal di dentro, da antropologo e cibernetico, come funziona il sistema America, ma compie anche missioni di scout per Einaudi (porterà in Italia, tra gli altri, autori come Salinger, Bellow e Malamud). Scrive a Torino (e alla madre) lunghe lettere che stanno tra il diario e la relazione, e alimenteranno anche una serie di articoli poi apparsi su settimanali. Tutti materiali che, rielaborati, confluiranno in Un ottimista in America, previsto per i «Saggi» Einaudi. Nella primavera del 1961 il libro è pronto, ma Calvino lo ferma in seconde bozze. Applicando a se stesso il rigore luterano che riserva alle letture editoriali, lo sente «troppo modesto come opera letteraria e non abbastanza originale come reportage giornalistico». Così confesserà nel 1985, senza essere convinto nemmeno con il senno di poi della giustezza della decisione: in fondo «sarebbe stato comunque un documento dell’epoca». Vero, ma è molto di più.
Dopo cinquant’anni d’invecchiamento, il libro che ora esce da Mondadori conserva le sue bollicine, e si fa degustare con delizia, anche perché il tono è quello vivace e informale di una conversazione tra amici. In queste pagine l’uomo che detestava dire «io» e aborriva l’autobiografia parla finalmente di sé. Di abitudini taciturne e appartate, si rivela conversatore amabile, frequenta parties, socializza ovunque con una disinvoltura quasi mondana.
Con lui, scopriamo che l’America è molto meno americana di come se la immaginava il nostro immaginario un po’ provinciale. Loro non giocano al flipper, non vestono jeans, vanno poco al cinema, di Coca-Cola in giro se ne vede poca… Forse, dice, dovremmo insegnare agli americani che cos’è l’America.
L’esperienza è elettrizzante. Appena tornato, confesserà a Carlo Bo: «Negli Stati Uniti sono stato preso da un desiderio di conoscenza e di possesso totale di una realtà multiforme e complessa e “altra da me”, come non mi era mai capitato». Il Calvino ipercinetico che si autoproclama «newyorchese» come già Stendhal si voleva «milanese», è un uomo felice. Le lettere agli amici italiani sprizzano allegria. A Elsa Morante: «New York mi ha assorbito come una pianta carnivora assorbe una mosca… È il paese che ti dà il senso di svolgere un’enorme attività anche se in realtà combini poco». A Pasolini: «L’America non ha grandi problemi tranne quello di come faranno a tradurre Pasolini (It is dialect? It is slang?) e quello: Pasolini è un beatnik? No, insorgo io, è tutto il contrario e spiego per mezz’ora». A Carlo Levi: «La notizia del tuo arrivo, che comincia a diffondersi, suscita una sensazione che ha precedenti solo in quella dell’arrivo di Krusciov».
È ovunque. Intervista gli abitanti del Village (gli unici titolari di un qualche brandello di storia), frequenta l’ascetico Actor’s Studio di Lee Strasberg, una fabbrica di calcolatori e supermarkets in cui si vendono anche motoscafi; loda la politica fiscale che consente alle fondazioni di godere di ricche donazioni private; studia la forma della fanaleria delle auto; parla con i potenti leader sindacali degli scaricatori di San Francisco; assiste a malinconici spettacoli di burlesques, va a cavallo in Central Park, si accorge che i beatniks sono dei bravi borghesi che si travestono da bohémiens per andare nelle case dei ricchi a recitare la parte dei provocatori; ma scopre anche il degrado urbano, i vagabondi, gli alcolizzati, e la loro «oscura religione di autoannientamento». Visita i pueblos delle riserve indiane (pare di essere ad Alberobello). Sperimenta la noia mortale di highways e cittadine tutte eguali. Arriva in Alabama in tempo per vivere in diretta una manifestazione non-violenta di Martin Luther King («tipo molto solido e abile») e un razzismo tanto più repellente quanto più paternalista e bonario.
Le sue intuizioni arrivano al cuore dei problemi, prefigurano lo scoppio della bolla immobiliare di tanti decenni dopo: il sistema si regge sull’indebitamento ottimistico, sul credito troppo facile concesso a tutti. Le case non le paga chi le compera, ma la banca: «È questa la società della fiducia o dell’ansia?». E sembra che parli dell’oggi quando spiega che la vera debolezza americana sta nell’incapacità di capire ogni altro mondo che non sia il suo. Non hanno il senso della storia perché hanno scelto la geografia, l’occupazione degli spazi. 
La full immersion negli States nutrirà a lungo l’immaginario di Calvino. È probabile che il germe delle immaginarie Città invisibili stia proprio nelle marcate differenze che segnano tante città visibili, ognuna portatrice di un’idea, di un modello, di una potenzialità da sviluppare o da contrastare, ma tutte colte nelle loro linee essenziali con grazia illuministica.


A cavallo per le vie di New York
Ho capito come dominare New York: andare a cavallo

di Italo Calvino La Stampa 9.10.14
Nei primi giorni non sapevo. Volevo affittare o comprare usata una di queste auto dalla coda lunghissima, solo per avere il senso dell’inserimento nella vita americana; ma tutti mi sconsigliano, quella è la via sbagliata, avere una macchina a New York è un disturbo: se per miracolo trovi da parcheggiare la notte davanti a casa, di mattina presto devi scendere a spostare l’auto sul marciapiede opposto perché è scaduto il tempo consentito: i newyorkesi veri vanno tutti in taxi. Giusto: ma non si risolveva il mio problema.

Adesso, finalmente ho capito qual è la prima cosa che deve fare uno straniero a New York: affittare un cavallo. È, oltre tutto, la giusta via d’approccio all’America, la via storica, perché partendo dal cavallo potrò seguire l’evoluzione dei mezzi di trasporto che hanno caratterizzato la storia americana, e, se è il caso, arrivare alla Cadillac.
Il guaio è che questa è la prima volta che monto a cavallo in vita mia. Per arrivare a Central Park, siccome la scuderia è piuttosto lontana, nel West Side (una delle poche superstiti tra le molte scuderie che erano qui intorno), devo cavalcare per una via piena di traffico e attraversare due avenues.
Dall’alto della sella, domino i tetti delle auto, obbligate a rallentare dietro il passo del cavallo, prudente sull’asfalto. Sprovvisti di senso epico, i monelli portoricani che giocano sui marciapiedi mi danno la baia.
A Central Park, buon fondo un po’ fangoso; per i prati corrono i soliti scoiattoli; intorno, nell’aria meravigliosamente serena s’alzano i grattacieli; rimbalzo in arcioni cercando invano di prendere il ritmo del trotto; l’amazzone che mi accompagna, leggera in sella, mi grida istruzioni tecniche che non capisco; il mio cavallo s’invischia in pantani o si caccia sotto fronde basse in cui m’impiglio; la bianca scia d’un reattore si perde sopra i grigi grattacieli che sfumano downtown; e questa città, che è sempre stata degli ultimi venuti, da oggi è mia.

Italo Calvino Ottimismo a New York
di Domenico Scarpa Il Sole Domenica 9.11.14
«Caro Fortini, dunque qui uno è sempre felice, si sveglia al mattino ed è felice, va a dormire ed è felice, e viene da domandarsi ma sarò diventato cretino che sono sempre così felice?». Era la vigilia del Natale 1959, Calvino scriveva da una camera d'affitto al Greenwich Village, era sbarcato a New York all'alba del 4 novembre: il primo suo viaggio negli Stati Uniti, sei mesi con una borsa della Ford Foundation, spese coperte e nessun obbligo di nessun tipo, solo semmai questo fastidio di recitare la felicità per provocare un collega e amico e avversario, e solo semmai un'altra cosa anche: «Il fatto accidenti che proprio non capiscono niente, non hanno il senso della storia, non hanno il senso dell'antitesi, non hanno il senso della filosofia, non hanno Hegel, è quello che cambia tutto, perciò sono così spappolati dentro, Hegel, qui a venire a spiegare Hegel, a mettere su un collegio hegeliano c'è da fare un sacco di quattrini, naturalmente io ragiono già con criterio americano, i quattrini sono la base di tutto e questo è ancora la cosa sana, fuori dei quattrini non c'è che la teologia».
Nelle lettere private Calvino recita anche più che negli scritti pubblici ma in compenso è meno diplomatico. Nei testi del suo viaggio americano «spappolati» c'è solo in questa lettera, ed è proprio parola sua: uno schiaffo a pieno palmo, un veleno pregustato prima di darlo a bere. In quell'autunno '59 si era dileguato dal l'Italia lasciandosi dietro una scia di puntini sospensivi, quelli che concludono Il cavaliere inesistente: «Quali impreviste età dell'oro prepari, tu malpadroneggiato, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, futuro...». Finiva finalmente un decennio dal quale desiderava fuggire con tutto se stesso: «un ridicolo decennio» come lo definiva un altro suo amico-avversario, Pier Paolo Pasolini, che agli anni 50 avrebbe voluto dedicare un ciclo di racconti con questo titolo: ridicolo perché moralista, perché ideologicamente angusto, perché soddisfatto di essere provinciale... Ma realmente era riuscito a fuggire da tutto questo il Calvino che registrava indispettito la propria presunta felicità di essere a New York, e che vagheggiava di fondare un college hegeliano in America sia pure per farci i soldi?
Calvino arrivò negli Usa come ex militante del partito comunista che aveva abbandonato dopo i fatti di Ungheria (continuando però a considerarsi uomo della sinistra), e come funzionario della casa editrice Einaudi, a beneficio della quale tessé una rete fittissima di contatti (si devono a lui le traduzioni einaudiane di Bellow, Malamud, Purdy, Salinger, e fu lui a spiegare ai colleghi italiani cos'erano i paperback). Nei primi mesi del suo semestre americano mandò alla casa editrice lunghe lettere-diario destinate ai colleghi ma anche – salvo i punti che toccassero segreti industriali – agli amici di passaggio. In albergo teneva sempre un foglio nel rullo della macchina: ogni qualvolta rientrava, e ne aveva voglia, batteva sui tasti una cosa vista, uno sketch narrativo, una sintesi politico-antropologica, uno sfottò per i colleghi, un parere editoriale. Al ritorno in Italia gli appunti si trasformarono, con maggiore impegno di scrittura, in una lunga serie di articoli usciti su svariate riviste, e quegli articoli furono a loro volta limati, tagliati, ricombinati in una struttura nuova per un libro che nella primavera 1961 avrebbe dovuto uscire per Einaudi col titolo Un ottimista in America. Calvino, che insomma aveva scritto e riscritto per ben tre volte la sua America, decise di non pubblicare il libro quando era ormai in seconde bozze. Oggi quel libro esce da Mondadori in una impeccabile edizione provvisoria che, essendo destinata al grande pubblico, non si sofferma su questi scritti di laboratorio già apparsi nel postumo Eremita a Parigi e nel Meridiano dei Saggi calviniani. Ma l'essenziale è che Calvino ebbe ragione a lasciare inedito l'Ottimista (lui diceva di essere ottimista nel senso che le cose potrebbero sempre andare peggio di come già vanno): ed ebbe ragione perché le sue «cartoline dall'America» ci parlano più dello sguardo italiano sull'America che dell'America in sé, e perché la sua attenzione così volontaria, i suoi paradossi di corto respiro, le sue scintille narrative non secondano gran fiamma di stile, e anzi si può dire che i testi americani più riusciti siano proprio le lettere per gli amici, più lasciate correre, più momentanee.
Gli scrittori non esistono per descrivere la realtà, e questo libro ne è una prova ulteriore. Calvino se ne accorse in tempo. In quei mesi dopo il Cavaliere entrava in una crisi che si sarebbe risolta solo con le Cosmicomiche. Calvino non esisteva se non a patto di deformare, di stravolgere il mondo con la sua passione lucida e luciferina. Doveva tornare a inventare nuovi mondi, altro che descrivere il Nuovo Mondo. Quella sua letterina di Natale sulla felicità e su Hegel si prese una risposta sublime: «Quando torni a mentirci? Ti abbraccia il tuo Franco Fortini».

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