mercoledì 8 ottobre 2014

Jacques Derrida, 10 anni dopo

"... l’opera di Derrida, fecondata dalle sue "paradossali" riflessioni sulla voce e sulla scrittura, sul dono e sul perdono, sulla testimonianza e sullo spergiuro, conserva tutta la sua forza dirompente (interrogante) e costituisce ancora un formidabile strumento di resistenza-e-di-lotta per tutti quei razionalisti che non si rassegnano a vedersi trasformare nelle sterili ancelle di quella "triste teologia" digital-analitico-cognitivistica che è capace di vantarsi persino del suo proprio rigor mortis".

Giustissimo. Anzi, parole sante visto che è un articolo di "Avvenire" [SGA].


Derrida, la sfida dell’«impossibile»Silvano Petrosino Avvenire 7 ottobre 2014


Perché abbiamo scelto di dimenticare Derrida
A dieci anni dalla sua morte si è abbattuto il silenzio sul filosofo francese L’“oscurità” dei suoi scritti è stato l’alibi per difendere i nostri stereotipi culturalidi Pier Aldo Rovatti Repubblica 9.10.14

IL 9 ottobre 2004 moriva a Parigi, a 74 anni, uno dei maestri del pensiero contemporaneo, Jacques Derrida. Una scomparsa prematura se si considera che Derrida era allora nel pieno della sua fecondità filosofica: lucido, creativo, anzi vulcanico, richiesto ovunque, sempre generoso di sé, non indossava maschere da in tellettuale scontroso, era simpatico e alla mano nonostante il grande prestigio internazionale.
È impressionante e quasi incredibile che siano bastati dieci anni per dissolverne la memoria e che ci voglia una ricorrenza per farne risuonare il nome, eppure è così. Tutto quello che ha detto e scritto dalla stagione della filosofia della differenza ( La scrittura e la differenza , 1967) a quella del pensiero della decostruzione, al quale soprattutto è legata la sua firma, si è praticamente disciolto malgrado gli omaggi di rito e i saggi accademici a lui dedicati. Derrida aveva lavorato infaticabilmente perché le sue idee, e specialmente il gesto etico che le sorreggeva, diventassero un esempio di politica culturale e di pensiero critico non destinato ai cenacoli intellettuali ma capace di farsi strada nella coscienza dei suoi contemporanei, intaccando la crosta dei pregiudizi correnti.
Basterebbe leggere ciò che ha scritto sul dono, sull’ospitalità, sull’università o sulla pena di morte. E ricordare che i suoi sforzi battevano costantemente sull’importanza dell’esperienza dell’altro, di “colui che arriva” senza identità né diritti: un’esperienza che ci trova sempre impreparati perché è enigmatica e paradossale, mentre noi vorremmo archiviarla e impacchettarla dentro le nostre logiche prêt-à-porter e autoritarie.
Quella del filosofo che gioca con le parole e difficile da leggere ha l’aria di una balla colossale, diffusa per evitarci la fatica di un pensiero critico che mette in discussione la nostra amata e presunta identità (o superiorità) di individui ormai pienamente razionali e illuminati. In ogni pagina Derrida insinua un dubbio insopportabile in questa presunzione: abbiamo già troppi problemi materiali che assillano il nostro quotidiano, perché mai dovremmo portarci in casa un rompiscatole che taglia il capello in quattro allo scopo di colpevolizzare il pacifico automatismo dei nostri comportamenti? Perciò non gli apriamo neppure la porta. Altro che scrittura astrusa, altro che filosofia da buttare nel calderone della postmodernità, nuovo nome dell’antico e demodé irrazionalismo. Dovremmo piuttosto chiederci che cosa è accaduto in questi anni alla cultura dominante e populisticamente diffusa, ormai omologata e globalizzata in una forma talmente subdola di potere che la stessa parola, “potere”, viene riversata nel suddetto calderone. È successo che il pensiero critico è stato penalizzato come inutile e perfino dannoso. Così si è prodotta l’incredibile cancellazione di Derrida, trascinato nella risibile corrente anti-francese con Gilles Deleuze, ma anche con Jacnuava ques Lacan e Michel Foucault.
Questi due ultimi sono stati relegati nelle loro isolette, ancora tollerate per via di un residuo mercato librario, e forse parzialmente salvati per il fatto di non essere dei filosofi dichiarati e di fornire così, nella loro diversità, linguaggi fruibili anche all’esterno. Invece Derrida, filosofo professo, non solo è stato d’amblé dimenticato, ma attraverso un pesante silenzio si esorta a dimenticarlo definitivamente: appunto “dimenticare Derrida”.
Coloro che, come me, hanno frequentato assiduamente i suoi testi e hanno avuto la fortuna di conoscerlo da vicino, e quindi di apprezzarlo anche di più, devono tentare di spiegarsi le ragioni di questa censura. La mia spiegazione è che Derrida, l’“amicizia” con il pensiero di Derrida, oggi scombinerebbe i nostri giochi culturali. Ricordo quel che disse in un’intervista del 1997: in filosofia (cioè nelle nostre teste) «ci deve essere un momento di disarmo assoluto». Comprendetemi bene — conti- — , sto parlando non di una rassegnazione ma dell’esatto contrario, perché sono gli “eventi” proprio come tali che ci rendono “inermi” e perché da questa condizione può scaturire precisamente la nostra “forza”.
È un’affermazione da cui può emergere con chiarezza proprio quel gesto etico che è il fondo della filosofia di Derrida e assumendo il quale si può diventare “amici” del suo pensiero: di solito esercitiamo il nostro potere credendoci forti e capaci di controllare gli eventi reali, Derrida invece ci avverte che dovremmo accorgerci che ciò che accade esige che noi deponiamo tutte le armi che crediamo di possedere e che solo così troviamo quella sintonia (con gli eventi stessi e con gli altri soggetti che sono eventi a loro volta) attraverso la quale i gesti che facciamo diventano ospitali, efficaci e non violenti. Da questa incursione possiamo capire lo stile del gesto di Derrida, dai ben noti libri degli anni Sessanta fino agli ultimi in cui ci parla degli “spettri di Marx”, delle “politiche dell’amicizia”, della “democrazia a venire”, e di un’infinità di altri temi che restano per noi essenziali.
Il Labont ( Laboratorio di ontologia) dell’Università di Torino e la Compagnia di San Paolo hanno istituito la “ Cattedra internazionale di filosofia Jacques Derrida, legge e cultura”. Il primo assegnatario della cattedra è Michel Wieviorka, della Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi. La cerimonia di assegnazione e la sua lectio magistralis si svolgeranno all’Università di Torino oggi a partire dalle 9.


Mi ricordo l’ultimo saluto “Sorridete io vi sorrido”
di Maurizio Ferraris Repubblica 9.10.14

INMODOd el tutto coerente con la sua filosofia, ho conosciuto la scrittura di Derrida molto prima che la sua voce o il suo volto. Avevo scritto un articolo su di lui, e con mia totale sorpresa mi giunse un biglietto in cui mi ringraziava, lodando il mio “plain écrire”, ossia il fatto che non scrivessi in modo fumoso come molti si sentivano in dovere di fare quando parlavano di Derrida. Avevo ventiquattro anni, e quel biglietto mi sembrò il messaggio dell’imperatore.
Iniziai a frequentarlo a Parigi, all’epoca in cui era stressato per le fatiche e le discussioni legate alla costituzione del Collège International de Philosophie. Mi confessava di essere depresso, e per consolarlo gli ricordai che la depressione, secondo Freud, è necessaria per la scrittura; e lui: «Sì, ma parlava di una lieve depressione». Malgrado questo, era l’uomo più innamorato della vita (e più ossessionato dalla morte) che abbia mai conosciuto, ed è a questa circostanza che vanno ricondotti sia l’irradiazione enciclopedica delle sue ricerche sia la passione con cui infaticabilmente girava il mondo, interessato a ogni forma di tecnologia. L’ultima volta che l’ho sentito era nel settembre del 2004. Non aveva smesso di lavorare, di progettare, di disputare (pochi grandi filosofi sono stati così ingiustamente malintesi e maltrattati, ma il tempo gli ha dato ragione) e pensavamo di organizzare un incontro a Parigi per parlare del significato filosofico del telefonino in vista di un convegno. Inguaribili ottimisti.
Ai primi di ottobre lo chiamai, ma non rispose. Mi preoccupai.
La mattina del 9 ottobre Valerio Adami mi telefonò: Jacques era morto nella notte.
Come l’incontro, anche il commiato avvenne per lettera, quella che al cimitero suo figlio Pierre si tolse di tasca (un po’ come Fedro che estrae il discorso di Lisia) e lesse le ultime parole scritte dal padre: «Amici miei, vi ringrazio di essere venuti. Vi ringrazio per la possibilità della vostra amicizia. Non piangete: sorridete come vi avrei sorriso.
Vi benedico. Vi amo. Vi sorrido, ovunque io sia».

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