venerdì 24 ottobre 2014

La mostra sugli Etruschi a Bologna



Gli spiriti di un popoloEtruschi, la vita «normale» dell’aldilà e sui diritti civili arrivarono per primi

di Eva Cantarella Corriere 23.10.14

La parola che un tempo tornava più spesso quando si parlava della civiltà etrusca era «misteriosa». A contribuire a questa fama stava, in primo luogo, il problema delle sue origini: chi era, da dove veniva quel popolo stanziato nel II millennio a.C. nell’attuale Toscana? Per Erodoto si trattava di genti venute dall’Asia minore, mentre secondo Dionigi di Alicarnasso erano una popolazione indigena. 

Ma la dottrina moderna ha risolto il mistero: la civiltà etrusca (la cui la lingua, registrata in una scrittura simile al greco, è da tempo decifrata) nacque dalla fusione tra correnti migratorie anatoliche e popolazioni indigene prelatine. A livello popolare, poi, torna spesso l’idea, alimentata dalla gran quantità dei monumenti sepolcrali lasciati dagli etruschi, di un misterioso rapporto di questi con la morte. 
Ma la spiegazione di questa abbondanza è semplice: le tombe erano costruire con materiali più nobili e dunque meno deperibili di quelli usati per le case di abitazione, che quindi sono andate perdute. Quella che può sembrare una singolare attrazione per l’aldilà (popolato di demoni non diversamente da quello dei greci e dei romani) è solo la conseguenza del modo in cui gli etruschi concepivano la vita oltre la morte: per loro, infatti, era una vita assolutamente identica a quella terrena, con la sola differenza che era eterna. Nelle tombe dunque nulla di quello che il defunto aveva avuto e di cui aveva avuto bisogno in vita doveva mancare: dalle suppellettili agli oggetti di uso quotidiano, dagli abiti ai segni del potere. Insomma, l’ideologia funeraria degli etruschi era tutt’altro che inquietante. In definitiva, non è il mistero quello su cui val la pena riflettere, ma qualcosa di più importante: è il problema dei possibili influssi della loro cultura su quella della vicina Roma — sulla quale, sul finire dell’età regia dominarono ben tre re etruschi. 
Cominciamo, dal campo del diritto criminale: un’antichissima legge voleva che il colpevole di perduellio (alto tradimento) venisse sospeso con una corda a un arbor infelix (albero infelice) e fustigato a morte. Ebbene, al di là del fatto che la distinzione tra alberi felici e infelici (di buono e di cattivo auspicio), era etrusca, come scrive Cicerone questa legge venne introdotta dal re etrusco Tarquinio il Superbo. Passiamo alle pratiche sociali: anche i giochi gladiatori erano stati importati dall’Etruria, dove venivano praticati durante i funerali in onore del defunto. Ma quel che più interessa è vedere se e come la cultura etrusca agì sulle strutture fondamentali della civitas romana e in particolare sulla famiglia, che i romani consideravano il fondamento della stabilità dello Stato. Per ragionare su questo tema, bisogna ricordare che originariamente, sia in Grecia sia a Roma, le donne erano totalmente subordinate ai maschi della famiglia, e che in Grecia la situazione rimase praticamente immutata fino all’età ellenistica. A Roma, invece, verso la fine della repubblica, le donne nel campo del diritto privato avevano raggiunto una quasi totale parificazione con i diritti maschili. È lecito pensare che alla base di questo fenomeno stia l’influsso del mondo etrusco, dove le donne godevano di ben altra libertà e ben altri diritti? 
Sia ben chiaro. Non si intende, con questo, riesumare la teoria da tempo ampiamente superata del cosiddetto matriarcato etrusco, né quella, indimostrata, che parla della sua matrilinearità (trasmissione del nome e del patrimonio in linea femminile). Ma questo non toglie che le donne etrusche, a differenza di quelle romane, fossero parte attiva della vita sociale: ad esempio, partecipavano ai banchetti stando sdraiate e non sedute, come le romane, che tra l’altro erano ammesse solo alla prima parte della cena, quando non si beveva vino. 
Erano «coltivate», godevano di autonomia patrimoniale; disponevano liberamente dei loro beni. È possibile che il progressivo riconoscimento di diritti alle romane (in particolare, quello di ereditare il patrimonio paterno insieme e al pari dei fratelli, cosa mai concessa alle ateniesi) fu conseguenza dell’influsso etrusco? Difficile provarlo ma l’ipotesi è più che plausibile. A ben vedere, gli etruschi ci sono molto meno estranei di quanto siamo soliti pensare. 




Vasi, sculture e ologrammi Come si ricostruisce la storia
Accanto ai reperti, il sarcofago degli Sposi virtuale

di Andrea Rinaldi Corriere 23.10.14


Come negli scritti di Tito Livio, dove Felsina, l’antico nome di Bologna, si era guadagnata il rango di insediamento più importante tra i 12 che costituivano la confederazione etrusca della pianura Padana. Come allora, il capoluogo emiliano torna al centro dell’Etruria del Nord Italia con una mostra che, nei temi e nell’allestimento vuol segnare uno spartiacque nel tradizionale racconto del passato. 
Fino al 22 febbraio, infatti, Palazzo Pepoli-Museo della Storia di Bologna sarà il teatro di Il viaggio oltre la vita. Gli etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale , un allestimento dove i reperti, alcuni dei quali provenienti dal museo di Villa Giulia di Roma, dialogheranno con musica, design e soluzioni di avanzata tecnologia. «Abbiamo sempre ritenuto che il multimediale fosse importante per integrare quello che viene fatto con le parole e le immagini, cioè per sposarsi con il tradizionale, con il libro, con la lettura, anche se non può essere esclusivo», argomenta Fabio Roversi Monaco, presidente di Genus Bononiae, il circuito dei musei a cui fa capo Palazzo Pepoli. 
Realizzata da Genus Bononiae, Fondazione Carisbo e Museo Villa Giulia, l’esposizione presenterà reperti per la prima volta fuori dal museo romano come alcune ceramiche figurate, due sculture in pietra da Vulci e Cerveteri, vasi attici da tombe etrusche come il Cratere di Euphronios, trafugato e poi restituito all’Italia dagli Stati Uniti e la trasposizione della Tomba della Nave di Tarquinia, le cui pareti sono state rimontate su pannelli così da ricreare nelle sale del Palazzo l’ambiente sepolcrale viterbese. Ci saranno anche tre stele felsinee figurate, due di più antico rinvenimento e una di più recente scoperta, tutte e tre importantissime per la ricostruzione dell’immaginario funerario della città e per la rappresentazione del viaggio del defunto verso l’aldilà. Ma c’è un’altra ricostruzione, questa virtuale. È l’installazione, firmata dal regista Giosuè Boetto Cohen e realizzata dal Cineca, che riproduce il famoso Sarcofago degli Sposi, simbolo della civiltà etrusca e di cui esistono solo due esemplari, uno appunto a Villa Giulia e uno al Louvre. Nella Sala della Cultura di Palazzo Pepoli, dove si potrà assistere allo spettacolo a gruppi di 30 persone, 21 proiettori illustreranno la storia degli antichi villanoviani su tre pareti, giocando quindi su uno schermo di 38 metri per 12, mentre in una teca al centro comparirà l’ologramma del Sarcofago a grandezza naturale e in ogni suo dettaglio. Lo spettacolo è in 4 atti e dura 11 minuti, scandito dalle musiche di Marco Robino, già al lavoro con Peter Greenaway, e di un quintetto d’archi (il musicista suonerà oggi all’inaugurazione). «Tutti i musei hanno il problema di comunicare con un pubblico oggi che non parla più la loro lingua colta. Chi vuole consegnare qualcosa deve farlo con mezzi nuovi. Ecco la nostra sfida», osserva Boetto Cohen a proposito di questa narrazione innovativa. 
Tant’è che oltre al progetto del Sarcofago, il regista ha curato anche un film per illustrare il legame tra Etruria del Sud e quella del Nord. Boetto Cohen già nel 2011, per conto di Genus Bononiae, aveva realizzato un corto 3d sulla Bologna villanoviana, in cui a dar voce al piccolo etrusco Apa era stato Lucio Dalla. Adesso invece il testimone passa a Sabrina Ferilli, che farà parlare una donna etrusca in «Ati alla scoperta di Veio». Il corto verrà proiettato all’interno della mostra e rimarrà nella collezione permanente di Villa Giulia. 




E Lariza riaccolse Xestes sulla tomba «Così staremo per sempre insieme»
di Mariangela Cerrino Corriere 23.10.14


Il sole era al tramonto, e la facciata del Tempio della Dea Uni ne assorbiva lo splendore. Non era mai stato tanto magnifico. Il suo riflesso si stemperava nella vasca colma di acqua purificatrice, appena al di fuori del recinto interno, ma era distorto dal vento che ne increspava la superficie, e i colori erano confusi. Xestes evitò di soffermarsi sulle immagini mutevoli che si creavano: potevano portargli presagi infausti. 
Xestes si voltò, perplesso, a guardarlo. Pyrgi, la bella città-porto di Xaire, era traboccante di vita, di suoni, di marinai e di mercanti indaffarati. Lui riusciva a distinguere le vele ripiegate delle holkades alla fonda, cullate dalle onde, ma le banchine gli apparivano deserte, e il ricco quartiere appena oltre giaceva nell’oscurità. Perché i servi tardavano ad accendere i lumi? Perché le innumerevoli locande non avevano dinanzi alle soglie le torce e i bracieri accesi? Eppure c’era una musica... un suonatore di doppio flauto, nascosto, era così abile che la melodia si espandeva in ogni dove. Tuttavia era inconsueta e toccando toni ora acuti ora gravi si ripeteva, sempre uguale, trascinando la mente in una sorta d’incantamento. 
Xestes rabbrividì. Perché era lì, sul finire del giorno? Lui era di Tarchna e Pyrgi non era la sua città, così come non lo era Xaire. La sua famiglia era imparentata con i Tarquini e lui ricopriva una carica importante. Ma provava un senso di smarrimento, pensandoci. Qual era la sua funzione nella sua città? Non riusciva a ricordarlo. Tutto quello che sapeva era che aveva compiuto le sue dieci settimane di sette anni ciascuna e che, come insegnava la Disciplina di Tagete, il legame con gli Dei creato al momento della sua nascita si era dissolto. Forse per questo gli era così difficile ricordare? 
Poi la vide. Forse era uscita dal Tempio, di certo non gli era passata accanto. Sostava immobile sul lato opposto della vasca e l’ultimo bagliore del sole la coronava di luce. Il chiton leggero brillava come se fosse cosparso d’oro. I capelli scuri erano raccolti in due trecce pesanti a ogni lato del viso, ma sulle spalle erano liberi. Quanto aveva amato quei capelli! 
Gli sembrò che il cuore mancasse un battito e che, di rimando, l’intero universo restasse immobile. «Lariza?» mormorò. Lei gli sorrise, muovendosi per raggiungerlo. Gli sembrò più giovane dell’immagine che aveva nella mente. Ma poi la donna gli arrivò accanto, e intrecciò le mani alle sue. «Ti ho atteso, come mi avevi chiesto di fare», disse, e Xestes la attirò contro di sé, e sentì il suo calore avvolgerlo, e la felicità colmarlo. «Te l’ho chiesto? Quando?» «Quando hai voluto i nostri corpi modellati per la nostra tomba. Ricordi quello che hai detto? Niente potrà dividerci. Saremo insieme per l’eternità, e quello che andrà per primo aspetterà nel giorno senza tempo che l’altro lo raggiunga». Xestes ora ricordava. Avevano persino riso quando l’artista (fatto venire da Tarchna!) aveva infine mostrato loro l’opera compiuta. 
«Questi sposi non ci somigliano poi così tanto...», era stato il suo commento d’allora. Ma poi aveva compreso. Non era solo argilla. Avevano voluto trattenere uno dei loro tanti momenti felici e un frammento della loro essenza si era amalgamato alla materia, e vi sarebbe rimasto infuso, fino alla fine del Tempo del Mondo. 
Lariza sorrise, prendendolo per mano. «Ricordi il giorno delle nostre nozze? Abbiamo chiesto alla Dea Uni di custodire il nostro amore come un tesoro prezioso. Proprio qui». Xestes annuì. Era stato il giorno più bello della sua vita! Ricordava che per lei aveva scelto di lasciare la sua città, e di rinunciare agli onori dovuti alla sua famiglia, accettando l’incarico più modesto di zilath a Xaire. «Sei pentito di quella scelta?» sussurrò Lariza, con un sorriso. «Di aver passato la mia esistenza con te a Xaire? Non me ne sono mai pentito e non me ne pento ora». Le passò un braccio intorno alla vita; scesero fino alla battigia e sedettero sulla sabbia. «Così, siamo finalmente insieme nel giorno senza tempo», comprese Xestes. «Sono morto». Lariza gli poggiò la testa sulla spalla. L’onda lieve lambiva loro i piedi e il cielo si era chiuso in una sfera brillante di stelle. «I nostri figli hanno appena deposto le tue ceneri unendole alle mie, nel sarcofago», sussurrò la donna. «Ora siamo sposi nell’eternità». 



Il viaggio nel tumulo di un antico nocchiero
Corriere 23.10.14


La mostra «Il viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale» propone anche una visita all’interno di una vera tomba etrusca. Nella foto, ecco la Tomba della Nave, una tomba dipinta di Tarquinia, le cui pareti affrescate sono state «strappate» dalla camera originaria e rimontate in appositi pannelli in maniera tale da ricostruire interamente l’ambiente tombale all’interno del Museo della Storia di Bologna. Il tumulo risale alla metà del V secolo a.C. e prende il nome dalla grande nave
da carico dipinta all’inizio 
della parete di sinistra. Forse indicava la professione del defunto. Nei pressi della poppa c’è una coppia di remi che fa 
da timone e sulla sommità di uno degli alberi c’è una coffa per avvistamento. Sulla parete di destra è illustrata una scena del banchetto. La tomba è 
stata scoperta nel 1927 presso la Necropoli di Monterozzi (Tarquinia, vicino a Viterbo).


Viaggio alla ricerca della civiltà che sconfisse la morte
di Giuseppe M. Della Fina Repubblica 24.10.14

«LA necropoli continuava la città, e l’uomo, morendo, non faceva che cambiar quartiere, passando dai quartieri del centro a quelli della periferia, più salubri e signorili. Il paese di Utopia gli Etruschi non lo confinavano in terre inaccessibili, in isole lontane, ma nella morte che è accessibile a tutti. Idea savissima». L’osservazione è di Alberto Savinio in Dico a te, Clio e torna alla memoria avvicinandosi a questa mostra nata da un’idea di Genus Bononiae Musei nella Città, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma: Il viaggio oltre la vita. Gli Etruschi e l’aldilà tra capolavori e realtà virtuale a Bologna (da domani fino al 22 febbraio), presso Palazzo Pepoli dove si trova il museo della storia della città. Le fa da pendant un’esposizione a Roma, proprio negli spazi di Villa Giulia, partner del progetto. Il tema individuato dai curatori dell’esposizione, Giuseppe Sassatelli e Alfonsina Russo Tagliente, offre la possibilità di avvicinarsi alla civiltà etrusca da un’angolazione particolare come è quella rappresentata dalla documentazione proveniente dalle necropoli.
Ma privilegiata per la straordinaria attenzione che gli Etruschi dettero al culto degli antenati durante l’intero arco di durata della loro civiltà, che ebbe la forza di attraversare quasi per intero il I millennio a.C. e di sapersi misurare con il mondo greco, magnogreco e fenicio-punico. Come pure di interagire con gli altri popoli presenti nella penisola italiana. C’è un’immagine – stavolta dello scrittore e poeta Vincenzo Cardarelli – che illumina bene la loro azione: «… essi recarono la luce mediterranea fin nelle più remote caverne dell’Appennino » (in Il cielo sulle città).
Va detto, inoltre, che nell’arco degli ultimi due decenni è profondamente mutata la maniera di guardare ai documenti riferiti alla sfera funeraria, a partire dall’eccezionale repertorio figurativo rappresentato dalla pittura etrusca, e di questo cambiamento di approccio viene dato puntualmente conto in mostra.
Le stesse due sedi scelte non sono casuali: Roma accoglie il museo più importante al mondo per le antichità etrusche (a volte lo si dimentica) e Bologna è stata la città-stato di riferimento per la presenza etrusca nella pianura padana (a volte si mostra di non saperlo). Una presenza tra l’altro né sporadica né di breve durata, anzi: la zona padana va considerata tra le aree più ricche dell’Etruria per via dell’ingente produzione agricola, dovuta alla fertilità della terra e ai saperi dei contadini che la lavoravano, e al fatto di rappresentare il collegamento privilegiato con il mondo dei Celti. Senza dimenticare l’importanza, soprattutto a partire dal V secolo a.C., del porto di Spina dove era presente anche una forte comunità greca.
Nella mostra il tema dell’aldilà etrusco è esaminato attraverso la documentazione archeologica e non poteva essere altrimenti dato che altre fonti non sono giunte sino a noi, o risultano condizionate dall’interpretazione che ne venne data nel mondo greco e, soprattutto, in quello romano. L’ingente patrimonio di immagini pervenuto consente di entrare nei dettagli: la tomba, innanzitutto, sino almeno al IV secolo a.C., nonostante l’attenzione posta nella sua costruzione e il corredo funerario che vi veniva deposto, non era ritenuta la dimora stabile del defunto.
L’idea di un suo viaggio verso sfera oltremondana lontana da quella dei viventi e affine, in una qualche misura, a quella degli déi – come ha notato Giovanni Colonna – appare attestata sin dai secoli di formazione. Lo segnalano la presenza nei corredi funerari di modellini di barche e di carri, come pure la raffigurazione frequente del disco solare e di uccelli d’acqua, che alludono ad anatre, aironi, cigni, ritenuti intermediari tra la terra e gli spazi celesti.
Una trasmigrazione di cui poco si sapeva, ma che sembra avere previsto un percorso di terra ed uno su acque marine o meno frequentemente fluviali. Il pericoloso viaggio poteva essere affrontato a piedi, a cavallo, su un carro con tiri a due o a quattro animali, su una biga, su una quadriga (in alcuni casi trionfale), in nave o essendo trasportati da esseri favolosi come gli ippocampi. Nelle raffigurazioni giunte sino a noi, animali reali e fantastici sembrano segnalare la difficoltà della strada da percorrere, mentre alcuni demoni svolgono la funzione di accompagnatori.
La documentazione archeologica offre anche un’idea di come fosse immaginato il soggiorno nell’aldilà: una simbiosi piena con la natura, alla quale allude bene la decorazione della tomba tarquiniese della Caccia e Pesca; una ricomposizione dell’unità familiare aperta agli antenati; una vita armoniosa e senza privazioni come traspare dalla serie infinita di simposi e banchetti raffigurati – nel caso delle tombe di- pinte – prima nei frontoni e poi sulle pareti di fondo della camera principale, accompagnati spesso da scene di danza e di giochi proposte sulle pareti laterali.
Vediamo, comunque, il percorso più da vicino partendo da Bologna: vi figurano gli affreschi, distaccati al momento della scoperta, della tomba tarquiniese della Nave incentrati proprio sul viaggio per mare del defunto; tre stele funerarie – una di rinvenimento recente ed esposta per la prima volta al pubblico – testimonianza diretta dell’ideologia funeraria degli Etruschi di Bolouna gna; una serie di vasi provenienti dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia tra cui un cratere a calice attico a figure rosse realizzato da Eufronio; due notevoli sculture in pietra da Vulci e Cerveteri. Infine si può vedere una video installazione realizzata appositamente con tecnologie all’avanguardia sul Sarcofago degli Sposi, vale a dire uno dei capolavori assoluti dell’arte etrusca. Della stessa opera è stata eseguita una copia esposta sempre in mostra, realizzata dalla Italdesign Giugiaro. A Roma, sono proposti altri due eccezionali vasi di Eufronio, una stele funeraria proveniente da Bologna e la ricostruzione virtuale della celebre Situla della Certosa. Nel museo romano, inoltre, viene proiettata la nuova versione del film di animazione realizzato dal Cineca con la regia di Giosuè Boetto Cohen. Nell’originale che da due anni è presentato a Bologna, Lucio Dalla dà la voce all’etrusco del nord Apa. Al cantautore scomparso ora si aggiunge Sabrina Ferilli, che “interpreta” l’etrusca del sud Ati.

Arte e banchetti nel culto degli antenati
I rituali per l’oltretomba erano contenuti nei preziosi e perduti Libri Acheruntici Sul passaggio verso l’aldilà vegliava un démone femminiledi Maurizio Bettini Repubblica 24.10.14

SECONDO gli autori romani gli Etruschi possedevano certi Libri Acheruntici, ossia libri che avevano per oggetto l’oltretomba. Possiamo immaginare che essi contenessero in particolare i rituali che venivano praticati al momento della sepoltura e le credenze o le rappresentazioni che riguardavano il mondo di là. Purtroppo di questi preziosi libri ci sono pervenuti solo piccoli frammenti, citati da autori che, oltre tutto, li inserivano in un contesto filosofico, o teologico, che di certo non era più il loro.
Uno di questi frammenti, però, in particolare colpisce. In questi libri si sarebbe detto che gli Etruschi praticavano sacrifici animali capaci di trasformare in divinità gli spiriti dei defunti: questi avevano il nome di dii animales, dèi animali, e sarebbero stati in qualche modo simili ai Penati dei Romani, le divinità tutelari della famiglia. Ma a parte queste testimonianze, tanto suggestive quanto scarse, sono soprattutto le rappresentazioni figurate, quelle che ci vengono dalle tombe o dai sarcofagi dell’Etruria, a darci un’idea di come questo popolo immaginò il mondo di là. Nelle raffigurazioni che rimandano al periodo classico e a quello ellenistico, ossia posteriori al VI — V secolo a. c., l’elemento certo più caratterizzante è costituito dalla presenza di una porta. Nel sarcofago di Hasti Afunei, proveniente da Chiusi, un démone femminile di cui ci viene detto anche il nome, Culsu, è rappresentato nell’atto di uscire da tale porta: sembra essere lei ad avere l’incarico di aprirla e chiuderla, e di vegliare sul passaggio. Un altro démone femminile, Vanth, attende invece al di là di essa. Sul lato opposto un terzo démone femminile spinge la defunta, Hasti Afunei, verso il passaggio, mentre fra lei e la fatidica porta stanno numerosi personaggi. Osservando questa raffigurazione possiamo concludere che, nelle credenze degli Etruschi, il mondo dei morti era separato da quello dei vivi, ma ad esso congiunto attraverso un passaggio, vegliato da démoni. Un’altra cosa che immediatamente colpisce, nella rappresentazione del sarcofago di Hasti Afunei, è la presenza di un corteo funebre che accompagna la defunta verso la porta degli Inferi. Esso può forse richiamare la pompa funebris della tradizione romana, il corteo che si svolgeva in occasione del funerale: ma c’è almeno una differenza importante. Nella processione rappresentata sul sarcofago di Hasti Afunei, infatti, ai vivi che vi partecipano si mescolano démoni infernali, lo spazio in cui si muove il corteo è immaginato come contemporaneamente umano e oltremondano. Ma che cosa attende il defunto dall’altra parte di quell’ingresso? Un démone femminile, nel caso di Hasti Afunei, ma possiamo immaginare che di là stessero altri defunti: ossia i personaggi che, in numerose rappresentazioni, sono raffigurati a banchetto assieme ad altri démoni. È questa, forse, l’istantanea più celebre, e più conosciuta, della morte etrusca: il banchetto, l’aldilà come un luogo di allegria e godimento. Ad attendere il defunto ci sono i membri della sua famiglia, del suo gruppo sociale, già raccolti al simposio, mentre il nuovo arrivato li raggiunge per unirsi a loro. Altre rappresentazioni figurate mettono poi in evidenza forme differenti del cruciale passaggio, che comunque però prevedono uno spostamento del defunto, un viaggio verso il mondo che lo attende. Esso può essere di tipo marino, segnalato dalla presenza di mostri o di onde; altre volte si tratta invece di un cammino più complesso, che il defunto sembra compiere prima a cavallo poi raccolto da un mostro marino, che lo attende. Un viaggio non scevro di pericoli, peraltro, come indica la presenza del démone Tuchulcha, volto a becco d’uccello e serpenti che da lui si snodano. Nel tempo di questo trasferimento verso il mondo di là, possiamo supporre, i parenti del morto compivano sacrifici per propiziargli un felice viaggio. E forse per garantirgli lo stato di deus animalis, come spiegavano i Libri Acheruntici.

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