sabato 11 ottobre 2014

L'epopea di Leningrado: una nuova edizione del libro di Salisbury

I 900 giorni. L'epopea dell'assedio di Leningrado
Già tradotto da Bompiani. Da notare come il Manifesto non perda occasione per parlar male dell'Urss e soprattutto di Stalin [SGA].

Harrison E. Salisbury: I 900 giorni. L'epopea dell'assedio di Leningrado, Il Saggiatore

Risvolto
Il destino di Leningrado, la città più bella dell'Urss, la più fervida di vita intellettuale, fu segnato nell'estate del 1941, quando i generali sovietici e lo stesso Stalin sottovalutarono il pericolo di un'offensiva della Germania nazista. Intrappolata nella stretta dell'Operazione Barbarossa, Leningrado venne accerchiata dalle armate tedesche nel settembre del 1941. Per ventotto mesi, fino alla sua liberazione, nel gennaio del 1944, la città fu stretta nel più terribile assedio di tutti i tempi, in cui perirono quasi metà dei suoi abitanti. Una storia eroica e terribile, per lungo tempo avvolta nell'oscurità e nascosta dalla censura stalinista, che Harrison E. Salisbury per primo ha ricostruito attingendo a testimonianze, diari, memorie e archivi, in una ricerca durata venticinque anni. Nelle pagine dei "900 giorni" scorre l'eroica difesa dell'Armata Rossa e di folle di volontari male equipaggiati; la pressione costante delle divisioni del Terzo Reich; gli episodi di coraggio e abnegazione, quelli di vigliaccheria; le morti per la fame, il gelo e i bombardamenti; gli sforzi di scrittori e artisti per tenere viva l'anima della città; i controlli feroci dell'apparato poliziesco; le disperate strategie dei generali per spezzare l'assedio e tenere aperta l'unica via per i rifornimenti, attraverso la superficie gelata del lago Ladoga. 



Una grande Storia di uomini e donne 
Passato presente. I novecento giorni di Leningrado dell’inglese Harrison E. Salisbury. Una monumentale ricostruzione di una tragica epopea sove gli errori di Stalin e della leadership militare sovietica sono stati riscattati dalla resistenza alle truppe naziste degli abitanti della città

Simone Pieranni, il Manifesto 11.10.2014 

 «Tutta la mia vita è legata a Lenin­grado. A Lenin­grado sono diven­tata una poe­tessa. Lenin­grado ha dato ali alla mia poe­sia. E io, al pari di tutti voi in que­sto momento, vivo nell’incrollabile fede che Lenin­grado non sarà mai fasci­sta». Sono le parole della poe­tessa russa Anna Ach­ma­tova, nell’agosto del 1941. Dal 22 giu­gno le armate tede­sche mar­ciano verso Lenin­grado. Da lì a poco, a set­tem­bre, cir­con­de­ranno la città per dare vita al suo asse­dio, che durerà tre anni (fino al gen­naio 1944). Le parole di Ach­ma­tova, pro­nun­ciate durante un suo inter­vento in radio, costi­tui­ranno uno dei tanti momenti cri­tici nella sto­ria della città, presa d’assalto dai nazi­sti. La poe­tessa rimarrà a Lenin­grado fin­ché le sarà pos­si­bile (fino a che lei e altri intel­let­tuali non ver­ranno spo­stati in luo­ghi più sicuri) con­se­gnando alla sto­ria un esem­pio di corag­gio e per­se­ve­ranza. Non fu l’unica ad agire in quel modo, ma tanti furono i codardi, i vigliac­chi e chi si pro­fuse in pic­co­lezze umane.

Nel libro di Har­ri­son E. Sali­sbury, I 900 giorni. L’epopea dell’assedio a Lenin­grado (Il Sag­gia­tore, pp. 743, euro 23) le vicende cui fu sot­to­po­sta durante la seconda guerra mon­diale la città fon­data da Pie­tro il Grande, diven­tano una splen­dida incur­sione sto­rica, con­dotta con uno stile gior­na­li­stico asciutto, che punta al sodo, senza troppi baroc­chi­smi. Un mix per­fetto per una vicenda che non ha biso­gno di iper­boli: è già incre­di­bile nel suo svi­luppo sto­rico. Ven­ti­cin­que anni di lavoro, inda­gini, rac­colta di testi­mo­nianze, let­tura di rap­porti stra­te­gici, mili­tari, avvi­cen­da­menti, trame e cro­na­che sot­ter­fugi poli­tici. Ci voleva la morte di Sta­lin per aprire tanti diari rea­liz­zati a caldo, durante i giorni con­vulsi della città asse­diata dai nazi­sti e per resti­tuire alla sto­ria la straor­di­na­ria resi­stenza di Lenin­grado e dei suoi abitanti. 


Gior­na­li­smo nar­ra­tivo di classe 

Sali­sbury (cor­ri­spon­dente a Mosca per il Time nel secondo dopo­guerra) scrive in modo pre­ciso e pun­tuale, spri­giona con acume le com­ples­sità sto­ri­che, nelle quali inca­stra le vite di uomini e donne altri­menti dimen­ti­cate. Sto­rie minori, che si ali­men­tano e ali­men­tano quella in scena nella segrete stanze, tanto di Mosca, quanto di Lenin­grado e che con­flui­ranno infine nella «Grande Sto­ria». Affida la cro­no­lo­gia degli eventi agli scon­tri interni al Par­tito comu­ni­sta, alle deci­sioni mili­tari, sot­to­li­nean­done errori e impor­tanza, alter­nan­dolo alla vita di una città che per alcune set­ti­mane rimase in uno stato quasi apa­tico, come non fosse acca­duto nulla (le notti bian­che, le Pro­spet­tive sem­pre piene di per­sone) fino a risve­gliarsi con i tede­schi in casa.
La sto­ria di Lenin­grado, la sua resi­stenza con­tro il nazi­smo, non ha biso­gno di epica, ma di un gior­na­li­smo nar­ra­tivo, capace di caden­zare il ritmo di una feroce resi­stenza, quasi sovru­mana. E Sali­sbury ne for­ni­sce il san­gue e i muscoli. Nono­stante l’impasse ini­ziale dell’esercito sovie­tico, le incer­tezze di Sta­lin e la quasi certa morte, scom­parsa, annien­ta­mento totale della città, se non fosse stato per i suoi abi­tanti. A essere cele­brata è «Peter», la ex capi­tale voluta dal più occi­den­tale degli zar, Pie­tro. «Lenin­grado non era sol­tanto l’obiettivo dell’offensiva tede­sca; era anche una grande città indu­striale che dava un con­tri­buto fon­da­men­tale allo sforzo bel­lico dell’Unione sovie­tica». All’epoca dell’assedio tede­sco, aveva 520 sta­bi­li­menti e 780mila ope­rai. Pro­du­ceva il 91 per cento delle idro­tur­bine sovie­ti­che, l’82 per cento dei gene­ra­tori di tur­bine, il 100 per cento delle cal­daie a cor­rente diretta. Una «pro­dut­ti­vità» che non si fer­merà del tutto: nell’agosto del 1941 le fab­bri­che di liquore della città pro­dur­ranno oltre un milione di bombe molo­tov. Ma il vero scopo di Hitler era col­pire Lenin­grado, per arri­vare a estir­pare il cuore dell’Unione Sovie­tica. L’intento tede­sco era col­pire e con­qui­stare Lenin­grado, in quanto «culla del bol­sce­vi­smo» e per mezzo della quale Hitler pen­sava di unirsi alla Fin­lan­dia, per gover­nare il Bal­tico, le regioni ucraine (impor­tanti per le mate­rie prime), i cen­tri indu­striali di Done­tsk e i pozzi petro­li­feri del Cau­caso.
Ci sono alcuni aspetti sot­to­li­neati nel volume, che aiu­tano a com­pren­dere la gran­dezza della resi­stenza del popolo di Lenin­grado. Innan­zi­tutto la città stessa, la sua aria pari­gina, occi­den­tale, con­trap­po­sta a Mosca, l’«orientale». 


Le due anime russe 

In secondo luogo tutta la giran­dola di con­tro­ver­sie mili­tari, che por­ta­rono per un attimo a con­si­de­rare per­duta la città. Sali­sbury sot­to­li­nea il panico ini­ziale di Sta­lin di fronte all’inaspettato attacco tede­sco; del resto l’intelligence sovie­tica aveva messo in evi­denza le volontà bel­li­che di Hitler, nono­stante il patto Molo­tov Rib­ben­tropp. Sta­lin, alla noti­zia dell’attacco, spa­rirà per un paio di set­ti­mane, non prima di aver escla­mato, come ripor­tano i diari di uffi­ciali vicini al lea­der del Pcus, «tutto quanto ha fatto Lenin, è andato per­duto». Per capire le pie­ghe sto­ri­che, spesso rap­pre­sen­tante in modo sche­ma­tico, Sali­sbury offre una let­tura in cui pro­ta­go­ni­sta è l’anima della città, refrat­ta­ria al con­trollo, fedele ai suoi due grandi «fon­da­tori», Pie­tro e Lenin, così diversi eppure così gran­dio­sa­mente con­si­de­rati sim­bolo della città. Una delle chiavi di let­tura pro­po­sta di Sali­sbury è leg­gere la difesa di Lenin­grado, come l’ennesimo capi­tolo della sfida tutta russa, tra «Peter» e Mosca. Da 200 anni «era in corso una lotta per l’anima della Rus­sia, per la supre­ma­zia nel paese». Da un lato i mosco­viti, «sciatti, avidi, rudi, vigo­rosi, gui­dati dal clero orto­dosso e della cupida classe mer­can­tile mosco­vita, le dure fami­glie dalla mano pesante, grandi con­su­ma­tori di vodka, che erano ascese dal con­ta­di­name a spese dei loro simili, con­ser­va­tori, con­tra­rie ad ogni muta­mento, iso­la­zio­ni­ste». Dall’altra parte, Lenin­grado: lo sguardo pun­tato sullo splen­dore di Parigi e di Roma, pur con il cuore sul Volga. «Lo stile ispi­rato all’Occidente, ecu­me­nica, indu­striale, sen­si­bile agli influssi stra­nieri, che guar­dava dall’alto in basso l’arretrata, fan­gosa e pol­ve­rosa Mosca». Gli abi­tanti di Lenin­grado rac­con­tano di un sen­ti­mento di pos­ses­si­vità, di orgo­glio, anche della Rivo­lu­zione. Per certi versi, per gli abi­tanti Lenin­grado finiva per diven­tare sino­nimo della Rivo­lu­zione bol­sce­vica, tanto da far dire anni dopo ad Ach­ma­tova, «No, non ho mai vis­suto sotto cieli stra­nieri, al riparo da ali stra­niere: allora sono rima­sta con la mia gente, là dove la mia gente, infe­lice, era».
C’è poi tutto l’aspetto mili­tare, logi­stico, fatto di guerra, stra­te­gie, pan­zer, errori cla­mo­rosi e con­se­guenze di altre errate valu­ta­zioni. Abbiamo detto dello stu­pore, rac­con­tato da Sali­sbury, delle alte gerar­chie mili­tari sovie­ti­che alla noti­zia dei primi attac­chi russi. «Non rispon­dere in alcun modo», era il man­tra delle prime ore di quelle notti di giu­gno. Con­fu­sione e con essa la paura di pren­dere deci­sioni, poi smen­tite dal cen­tro, da Mosca. Ipo­tesi che spa­ven­tava e atter­riva anche i più valo­rosi mili­tari di Lenin­grado (non pochi dopo le prime set­ti­mane di guerra, fini­ranno in Sibe­ria). C’erano poi alcune tare del pas­sato, che pesa­rono enor­me­mente nelle prime fasi del con­flitto.
Innan­zi­tutto le difese della città. Poi­ché per tanti anni Lenin­grado era vis­suta come una fron­tiera posta solo a una tren­tina di chi­lo­me­tri più a nord; poi­ché per tanto tempo era apparso evi­dente che un even­tuale nemico a nord sarebbe stato in grado di sopraf­fare quasi subito la città, quasi tutte le pre­cau­zione difen­sive di Lenin­grado erano state con­cen­trate a nord. Ma i tede­schi attac­ca­rono in modo più avvol­gente, con­tri­buendo al panico tra i gene­rali sovie­tici. Già nella notte del 22 giu­gno e prima che Sta­lin pren­desse anche in esame l’ipotesi di abban­do­nare com­ple­ta­mente Lenin­grado, per con­cen­trarsi solo su Mosca, pesa­rono alcuni errori dovuti anche alla scarsa capa­cità degli addetti mili­tari. Le cause di que­sti cor­to­cir­cuiti, secondo Sali­sbury, non sono sem­pli­cis­sime, anche per­ché una volta con­se­gnata la dichia­ra­zione di guerra da parte della Ger­ma­nia «ciò che accadde al Crem­lino, è ancora oggi dif­fi­cile da sta­bi­lire». Di sicuro ci fu la Diret­tiva numero 1 del Com­mis­sa­rio della difesa, fir­mata dal mare­sciallo Timo­senko e dal gene­rale Zukov. L’ordine non defi­niva, incre­di­bil­mente, Rus­sia e Ger­ma­nia come nemi­che. Veniva ordi­nato di attac­care i tede­schi sul ter­ri­to­rio russo, ma veniva vie­tato di pas­sare in ter­ri­to­rio tede­sco. Inol­tre è da ricor­dare che i livelli api­cali dell’esercito ave­vano subito gravi epu­ra­zioni negli anni pre­ce­denti: cen­ti­naia di mem­bri influenti del Par­tito furono cac­ciati o uccisi dal 1937 al 1938. 

Bat­ta­glie di strada 
E Lenin­grado fece così affi­da­mento, più che mai, su se stessa. Ad un certo punto il ter­rore era tale, che «nes­suno sapeva se Lenin­grado si poteva sal­vare o se si sarebbe sal­vata». Prima del lan­cio dell’operazione Iskra, che ribal­terà le sorti della guerra di Lenin­grado e sal­verà la città, furono i cit­ta­dini a resi­stere, attra­verso una lotta «strada per strada». Per le strade della città fecero la loro com­parsa «ragazzi armati di sec­chi di ver­nice, che comin­cia­rono a coprire le indi­ca­zioni stra­dali e can­cel­lare i numeri civici. La città si pre­pa­rava a com­bat­tere per le strade». Affa­mata, stanca, sem­pre più spo­glia: per­sone morte di freddo e man­canza di cibo, tra cui let­te­rati, sol­dati, per­sone comuni. Secondo le parole, misu­rate, dello sto­rico uffi­ciale di Lenin­grado, «Nella sto­ria del mondo non vi sono esempi che nella loro tra­gi­cità egua­glino gli orrori di Lenin­grado affa­mata. Ogni giorno vis­suto nella città asse­diata equi­va­leva a molti mesi di vita nor­male. Era ter­ri­bile vedere come di ora in ora sva­nis­sero le forze delle per­sone vicine e care. Sotto gli occhi delle madri mori­vano i figli e le figlie, i bam­bini resta­vano senza geni­tori, una mol­ti­tu­dine di fami­glie fu spaz­zata via». È così, spe­ci­fica Sali­sbury, Lenin­grado «una città da tre milioni di abi­tanti, una città di vigliac­chi e di patrioti, di imbro­glioni da quat­tro soldi e di uomini e donne ani­mati da infi­nita dedi­zione, di mili­tari con­fu­sio­nari e di capi di Par­tito in lizza tra loro, si avviava ai giorni della prova». Fino alla vit­to­ria, alla salvezza.

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