sabato 4 ottobre 2014

L'irresistibile fascino di Piketty: "Che cosa pensa dell’accusa di marxismo?" "Ridicola, non ho mai avuto la tentazione del comunismo"

“Marx era un genio ma che noia leggerlo” 

“Il mio Capitale non è apocalittico e crede nel capitalismo La democrazia deve controllare le forze del mercato”

 Giuseppe Salvaggiulo La Stampa 4 ottobre 2014


Niente effetti speciali. Se Il capitale nel XXI secolo fa discutere in tutto il mondo politici ed economisti, affascinando premi Nobel e neofiti della materia - anzi delle materie, come vedremo - è perché al rigore scientifico (un’analisi dell’evoluzione del reddito e del patrimonio in venti Paesi nell’arco di tre secoli) associa l’approccio pop; alla profondità multidisciplinare, l’esposizione piana e accessibile. Una rigorosa semplicità che si ritrova chiacchierando con l’autore Thomas Piketty, poco più che quarantenne docente parigino di economia, alla vigilia della sua partenza per l’Italia.
Professore, che cosa dirà ai politici italiani?
«In realtà non vengo per parlare ai politici italiani, ma a persone che leggono libri. In Francia i politici non lo fanno, non so in Italia. Se sì, sarò lieto di rivolgermi anche a loro».
Chi sono i destinatari del suo libro: politici, intellettuali, economisti, élite finanziarie, una o più classi sociali?
«Il reddito e il patrimonio sono questioni troppo importanti per essere lasciate ai politici e agli economisti. Ho cercato di scrivere un libro molto leggibile, da chiunque. L’unico problema è che è un po’ troppo lungo. Me ne scuso».
E qual è l’obiettivo?
«Contribuire alla democratizzazione dell’economia, rendendo accessibile il sapere economico. La novità di questo libro è che io e altri 30 esperti provenienti da alcune dozzine di paesi abbiamo raccolto la più grande banca dati storica mai creata sulla distribuzione del reddito e della ricchezza. Non è un libro tecnico, tutti coloro che sono interessati alla storia della società possono essere interessati».
Come mai un libro del genere non è stato scritto prima?
«Perché i dati sul reddito e sulla ricchezza che ho utilizzato erano considerati troppo storici dagli economisti e troppo economici dagli storici. Quindi nessuno se ne occupava. Sto cercando di contribuire allo sviluppo di un’economia più storica e politica… e più interdisciplinare. Spesso gli economisti usano modelli e tecniche matematiche sofisticati ma privi di sostanza empirica. Credo che la teoria sia utile solo con molti fatti che la illustrano».
Lei è uno strano economista, se ne rende conto?
«Mi considero più un sociologo che un economista. Non ho nessun problema nei confronti dell’economia e degli economisti, ma penso che i confini tra economia storia sociologia scienze politiche e antropologia siano molto meno definiti di quanto talvolta gli economisti e gli storici ritengono. Francamente non mi interessano molto le controversie metodologiche. Dobbiamo essere più pragmatici. Il mio libro è sia di storia che di economia».
Quali testi di economisti l’hanno maggiormente influenzata?
«Fondamentale è Shares of upper income groups in income and savings scritto da Simon Kuznets nel 1953. In un certo senso, tutto quello che faccio è un prolungamento di quel lavoro pionieristico. Più recenti, Growing public di Peter Lindert (2004) e Inherited wealth di Jens Beckert (2008)».
Nel libro auspica una politica economica multipolare: che cosa intende?
«Lo stesso significato inteso in geopolitica. Io amo gli Usa, ma penso che anche l’Europa e la Cina siano importanti. Trascorro molto tempo nelle università americane, dove ho cominciato la carriera e ho molti amici, ma ritengo che non sia appropriato che il 99% degli esperti economici provenga dagli Usa. È un punto di vista parziale». 
Un’altra parola ricorrente nel libro, e per nulla tecnica, è «apocalisse». Come mai?
«Non amo le previsioni apocalittiche. Pare che alcuni si sentano depressi dopo aver letto il mio libro: mi dispiace, in realtà ho una visione molto più ottimistica. Quindi mi riferisco alle previsioni apocalittiche marxiste, ma le mie non lo sono affatto».
Ma il «Capitale» di Marx è stato fonte d’ispirazione per lei?
«Marx era preoccupato, a ragione, per la crescente ineguaglianza e i redditi bassi durante la rivoluzione industriale. La soluzione da lui proposta, la fine della proprietà privata, non era giusta. Il mio problema con quel libro è che c’è qualcosa di troppo astratto e teorico. Naturalmente i dati di cui disponeva erano assai più limitati di quelli attuali, ma avrebbe potuto utilizzarli più intensamente. Inoltre quel libro è abbastanza faticoso da leggere (almeno così fu per me!). Penso che il mio sia più facile e brillante».
Che cosa pensa dell’accusa di marxismo che le viene da taluni rivolta?
«Ridicola. Il problema è che alcuni vivono ancora nella guerra fredda. Io appartengo alla prima generazione post-guerra fredda: ho compiuto 18 anni quando cadeva il muro di Berlino e non ho mai avuto la tentazione del comunismo. Per me semplicemente non esiste nel senso che è perfettamente ovvio, per chiunque apra il libro, che io credo nella proprietà privata, nelle forze di mercato. Non solo per i soliti motivi di efficienza economica ma anche perché fa parte della nostra libertà personale. Dico solo che abbiamo bisogno di istituzioni democratiche e fiscali forti, nonché di trasparenza riguardo al reddito e alla ricchezza per assicurarci che il capitalismo e le forze di mercato siano mantenuti nell’interesse comune. Ciò non ha niente a che vedere col comunismo».
Vale anche per quella parte della sinistra, un po’ smarrita, che vede nel suo libro una bussola?
«Credo che questo libro non sia per la sinistra né per la destra: io sono sconcertante per entrambe. Propone molto materiale storico che può essere interessante per tutti, indipendentemente dal credo politico».
Che cosa pensa delle reazioni suscitate dal libro tra gli economisti?
«Talvolta gli economisti non sono i migliori lettori, ma io ne ho trovati molti attenti: Robert Solow, Paul Krugman, Steve Leeds. Sono molto soddisfatto dell’accoglienza ricevuta dal libro: a volte crea polemiche, ma fa parte del gioco. A me piacciono».
Il «Financial Times» ne ha messo in dubbio la solidità scientifica.
«Oh, sì. Ho risposto dettagliatamente. Credo che perfino i lettori del Financial Times fossero molto delusi dal Financial Times: ha fatto una figuraccia».
Il «New York Magazine» l’ha definita «la rockstar dell’economia». Che effetto le fa la popolarità?
«Non esageriamo. Quando passeggio per le strade di Parigi non vedo gruppi di fan a caccia di autografi. Credo nel potere dei libri: se la pubblicità serve a farlo leggere, non ho problemi».
Il capitalismo rischia di uccidere la democrazia?
«Voglio che la democrazia controlli il capitalismo, altrimenti sempre più persone si rivolgeranno a soluzioni nazionaliste e populiste. Questa è una grave minaccia. Sta succedendo in Francia, ma anche in altri paesi europei».

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